A distruggere la letteratura, ciò che si presume letteratura, che crede di aver capito cosa sia la letteratura e di esserlo, ci pensa la letteratura che neppure si reputa tale, che non crede la letteratura abbia proprietà sue specifiche, per cui la letteratura è poco più del resoconto di un fallimento chiamato col suo nome. È il caso di Herta Müller in Lo sguardo estraneo (Sellerio, 2009).
“Si sa davvero troppo, e quindi tanto poco. Non perché si abbia una memoria migliore, ma perché ci si è stati costretti”.
La Müller ha la brevità lancinante dei poeti. Quale sardonica e placida vendetta totale il suo Cristina e il suo doppio (Sellerio, 2010), una replica di cinquanta piccole pagine al dossier stilato su di lei dalla Securitate rumena. “All’improvviso, con l’intestazione CRISTINA, saltò fuori anche il mio fascicolo. Tre tomi, 914 pagine.” 914 pagine è la versione alleggerita, privata “di ciò che era realmente sostanziale. Sono stati eliminati sia i fatti fondamentali che qualsiasi elemento utile ad incriminare la dirigenza della Securitate”. D’altronde a Andrei Pleșu è andata peggio: “In archivio una volta aveva visto il proprio fascicolo e sapeva che ammontava a circa 2.000 pagine Quando finalmente gli venne consegnato constava di sole 70 pagine”. C’è chi scrive tantissimo ma al momento della lettura pubblica vuole distruggere il più possibile di quanto ha scritto, di quanto vorrebbe non aver mai scritto, poiché quel che ha scritto lo svergogna, e c’è chi scrive relativamente poco ma quel poco è fatto per restare, è il poco che cerca gli occhi di tutti come il sasso di Davide cerca la fronte di Golia, svergogna semmai chi legge e mai chi ha scritto.
La Müller non si misura solo con la scrittura di chi vorrebbe mai si sapesse cos’ha scritto e su di chi, con il potere inventivo della scrittura usata come persecuzione, come creazione di una realtà alternativa che rende comodamente passabili di condanna coloro che non le si conformano. Ne Lo sguardo estraneola Müller scrive:
“Chi crede di essersi conquistato lo sguardo estraneo grazie ad esercizi di stile e alla conoscenza della lingua non sa quanta fortuna ha avuto, riuscendo a scamparlo”.
La scrittura al suo meglio tante volte è la testimonianza di quello che si è subito, di ciò a cui si è sopravvissuti: non un traguardo, un appiglio.
La situazione è questa: Herta Müller, che nel 2009 vince il Nobel, nel 1987 ha lasciato la Romania per la Germania. Caratteristica dello stile della Müller è lo ‘sguardo estraneo’: le parole con cui dice le cose le dicono come se tutte le cose fossero oggetti sconosciuti, da interpretare, come fosse ogni volta il primo incontro della cosa e della parola scritta per dirla. Scrivere equivale a imparare a parlare una lingua nuova. “E ciò sarebbe dovuto al fatto che io in Germania ci sono arrivata da un altro paese”. Come se per essere estranei bastasse essere stranieri, per essere scrittori e dunque esplorare la capacità disorientante e rifondante della lingua occorra, o basti, muoversi da un qua a un là, ed è fatta.
“Ciò che è ignoto non dev’esserci necessariamente estraneo, ma può diventarlo ciò che è noto”.
E subito prima, e ancora più nettamente:
“Per me estraneo non è il contrario di noto, è il contrario di familiare”.
Herta Müller non ha sviluppato lo sguardo-estraneo per poterlo applicare alla scrittura con alti esiti meritevoli alla lunga addirittura di un Nobel, lo stile non le proviene dall’esercizio della scrittura, è lo stigma della persona che ha dovuto vivere sotto la dittatura di Nicolae Ceaușescu che come tutte le dittature era fondata sulla persecuzione e sulla delazione, sulla narrazione paranoica che riscrive la realtà, sottraendola a chi del regime è vittima e non carnefice ovvero collaboratore a qualsivoglia livello. Non opporsi a un regime è l’attività più cara a un regime. Neutralità è la parola preferita da chi commette il sopruso, escludendola dalle proprie azioni.
Vivere in dittatura – così come sotto qualunque regime che rivendica il potere di deciderlo lui per te qual è la realtà, stabilendola con le sue leggi arbitrarie, imponendola tramite le sue confessioni estorte o i dossieraggi colposi – implica essere spiati, messi in continuo stato di soggezione e insicurezza: trasformare il noto in estraneo. Distruggere la familiarità del due-più-due-fa-quattro: sotto dittatura, sotto l’invenzione altrui, due più due non dà mai lo stesso risultato, è una somma incalcolabile.
“Il vapore della bevanda le passava lungo la mano, e lei disse: ecco, anche nel mio caffè ci sono loro”.
Vai in bici. Fai un incidente in bici. Vai all’interrogatorio, lo stipendiato dei servizi segreti dice: “Càpitano anche degli incidenti stradali”. Vai dalla parrucchiera, un’amica, per avere i capelli biondi. L’amica parrucchiera ti cosparge la testa di una polvere bianca. “Bruciava come un tizzone acceso”. Vai all’interrogatorio, lo stipendiato dei servizi segreti dice: “Essere bionda deve far star male, no?”, e l’amica parrucchiera, al tuo arrivo, aveva domandato: “Sei venuta in bicicletta?”. La parrucchiera amica. Questo è lo sguardo estraneo, non la Germania. E letteratura è scrivere di tutto questo senza nessuna voglia di fare letteratura. Scriverlo nell’unico modo in cui è capaci, non potendosi più fidare di nulla, delle proprie parole neppure.
“Ogni cosa tutt’intorno non appare più sicura di essere quella lì o quell’altra o un’altra ancora del tutto diversa”.
Quando la realtà ti viene sottratta devi provare a rimetterla assieme un pezzettino alla volta, non è possibile la realtà senza un linguaggio che la dica: che non sia manomesso, adulterato, utilizzato contro di te dallo stipendiato dei servizi segreti.
“Dal momento che sono anche una scrittrice, il mio sguardo estraneo viene doppiamente frainteso. Al fraintendimento per cui avrei lo sguardo estraneo da quando mi trovo in Germania si aggiunge il fraintendimento dei professionisti della letteratura. Secondo loro lo sguardo estraneo è una peculiarità dell’arte, una sorta di tecnica che distingue chi scrive da chi non scrive. Solo col tempo mi sono accorta di come gli scrittori rivendichino con orgoglio questo equivoco e contribuiscano ad accrescerlo Si intestano a credere e abbastanza spesso a far credere agli altri che scrivere sia un’attività diversa da qualsiasi altro lavoro. Essa assegnerebbe all’artista oneri che vengono risparmiati a chi non scrive. Gli autori elevano il loro lavoro a una condizione eccezionale dell’esistenza. Si compiacciono di far ammirare con stupore la loro pretesa singolarità come se fosse una lamella d’oro. Lo sguardo estraneo lo mettono in vendita come una dote”.
Mi impressiona la severità etica della Müller, l’inflessibilità della sua autosservazione che di conseguenza diventa inclemenza verso gli autoinganni altrui. Scrivere o è scrivere la verità che si voleva non fosse scritta e scriverla nel modo che solo a te è dato di scriverla, oppure è uno non star scrivendo nulla, tutt’al più redigendo qualche dossier da far circolare tra sodali, tra parlanti lo stesso codice, pronti a rinnegare tutto se ne venisse chiesto conto, contando anzi sul fatto che tutto verrà dimenticato quanto prima e che nessuno ricorrerà alle responsabilità personali perché qui Nessuno ha scritto Niente, al massimo avrà riportato quello che qualcun altro gli aveva comandato di riportare.
Dall’intransigenza etica proviene l’estetica eccellente ma l’estetica eccellente, per la Müller, è soltanto un effetto collaterale, un aspetto del danno subito.
“La continua percezione di sé ha qualcosa di incestuoso con la realtà circostante e di adulterino con la propria persona”.
antonio coda