16 Febbraio 2022

“Conduco la mia Ricerca ovunque lo Spirito mi guida”. Henry Corbin tra Heidegger e Sohravardi

Credo che di Sohravardi, da qualche parte, nel periodo del delirio sufi, abbia parlato anche Franco Battiato. Vissuto nel XII secolo, Sohravardi è stato tra i grandi pensatori e filosofi dell’islam: la sua “filosofia della luce”, l’Ishrâq, la “conoscenza orientale”, “il momento epifanico della conoscenza”, ha mutato per sempre il pensiero islamico. Maestro itinerante, fondatore di scuole, ha fuso Plotino e l’eredità zoroastriana alla rivelazione coranica, credeva nella gerarchia dei mondi, abilmente schedati e visitati (ad esempio: esiste questo mondo, fatto di computer e scrivania, anche se ora vivo nell’altro, quello del mio fare & pensare & progettare mentre scrivo al computer, appoggiato alla scrivania; esiste il mondo reale, quello delle forme, dei desideri, delle previsioni…). Martire del pensare, mistico di inesauribile complessità fu ucciso dal Saladino, nel 1191, “I dottori della Legge, ad Aleppo… incriminarono Sohravardi di aver professato che Dio può in ogni tempo, anche ora, creare un profeta”. Non capisco perché una vasta fetta di sapienza sia in esilio dal nostro meccano editoriale: preferiamo essere sottomessi al noto? Le poche cose tradotte di Sohravardi – Il fruscio delle ali di Gabriele, Mondadori, 2008; L’arcangelo purpureo, Carocci, 2000 – sono pressoché introvabili: restano i saggi di Henry Corbin – Suhrawardi. L’uomo e l’opera, Luni, 2017 – e il repertorio nella Storia della filosofia islamica (in catalogo Adelphi). Ma… come conoscere se stessi e il mondo se ci sono sottratti i metodi per poterlo fare? Il capolavoro di Corbin, tuttavia, è la traduzione di Sohravardi in Le livre de la sagesse orientale (Verdier, 1986; poi Gallimard, 2003). Corbin studia Sohravardi e la “teosofia orientale” mentre frequenta Martin Heidegger, di cui traduce, nel 1938, Che cos’è metafisica? In una lunga intervista rilasciata a Philippe Nemo per Radio France-Culture, di cui traduciamo alcuni frammenti, Corbin rievoca questa circostanza: analizza, non senza vertigine, le affinità che ha colto tra l’ermeneutica di Heidegger e la mistica di Sohravardi. L’intervista è stata realizzata il 2 giugno del 1976.

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Contro il bieco accademismo. Osservo spesso una specie di divertito stupore da parte degli interlocutori quando scoprono che il primo traduttore di Martin Heidegger in Francia e lo studioso della filosofia islamica iraniana sono la stessa persona. Si chiedono: come è possibile passare dall’uno all’altra? Poco dopo la morte di Heidegger, durante un dibattito, ho detto che tale stupore è frutto della compartimentalizzazione delle nostre discipline, di un’etichettatura a priori, propria di un bieco accademismo. Così, ci sono i germanisti e gli orientalisti; e tra gli orientalisti gli islamisti, gli iranologi etc. etc. Dunque, come si può passare dal germanismo all’iranologia? Se chi si pone queste questioni avesse una vaga idea di cosa sia il pensare, la ricerca filosofica, gli incidenti linguistici che essa varca, capirebbe che queste sono varianti topografiche di secondaria importanza.

La mia Ricerca tra Heidegger e i mistici sufi. Ho avuto il privilegio di trascorrere con Heidegger momenti indimenticabili, a Friburgo, nell’aprile del 1934 e nel luglio del ’36, nel periodo in cui stavo traducendo Che cos’è metafisica? Alcuni hanno malignato che, deluso dalla filosofia di Heidegger, mi sia rivolto al sufismo. Che idiozia. Le mie prime pubblicazioni intorno all’opera di Sohravardî risalgono al 1933 e al 1935 (ho terminato la Scuola di Lingue Orientali nel ’29), la traduzione di Heidegger appare nel 1938. Un pensatore persegue la propria ricerca simultaneamente su più fronti, soprattutto se per lui il concetto di filosofia non si limita a quella strettamente razionalista, ereditata dal cosiddetto “Secolo dei Lumi”. Per carità! L’indagine di un filosofo deve abbracciare un campo vasto, tale da accogliere le visioni di Jacob Böhme, gli studi di Ibn Arabi, i trattati di Swedenborg, accogliere, cioè, i doni dei Libri rivelati e le esperienze dei mondi immaginari come fonti offerte alla meditazione filosofica. In caso contrario, la filosofia non ha a che fare con la sophia. La mia formazione, in particolare, è interamente filosofica; dunque, non sono un germanista né un orientalista. Sono un filosofo che conduce la sua Ricerca ovunque lo Spirito lo guida. Mi ha guidato, finora, a Friburgo, a Teheran, a Ispahan, città “emblematiche”, simboli del mio tragitto permanente.

Ermeneutica & teologia. Quello che cercavo in Heidegger e ciò che ho capito grazie a Heidegger, è quello che ho cercato e compreso nella metafisica irano-islamica. Grazie a quest’ultima, tutto si è situato su un piano diverso, tradotto in un registro il cui segreto spiega perché non fu un caso che il destino, dopo la Seconda guerra, mi abbia condotto in Iran, un luogo dove da più di trent’anni non smetto di realizzare la mia missione spirituale. L’immenso merito di Heidegger è quello di aver centrato il filosofare sull’ermeneutica. Questa parola, di uso comune tra gli studiosi della Bibbia, è stata presa in prestito dal greco: Perì hermenèias è il titolo di un trattato di Aristotele. Si tratta, come la intendeva Dilthey, della tecnica della “comprensione”. Tuttavia, ho l’impressione che i giovani heideggeriani abbiano perso di vista il legame tra ermeneutica e teologia. Per riscoprirlo, bisogna farsi aiutare dall’ermeneutica praticata nelle religioni del Libro: ebraismo, cristianesimo, islam, dove l’arte della comprensione si lega a una palingenesi futura. Come mai? Perché tutto dipende dal Libro. E del Libro non bisogna soltanto capire cosa significhi, ma comprenderne il vero significato. C’è l’atto del comprendere, il fenomeno del significato, la verità di questo significato. Questo vero significato è ciò che comunemente chiamiamo significato storico o un significato che rimanda a un livello diverso da quello della Storia come la intendiamo in modo ordinario? L’ermeneutica praticata dalle religioni del Libro mette in gioco fin da subito i vocaboli familiari alla fenomenologia. Ciò che ho scoperto con gioia in Heidegger è l’antica filiazione dell’ermeneutica dalla teologia: l’ermeneutica filosofica è la chiave che sblocca il significato esoterico dalle affermazioni visibili, essoteriche. Ho quindi continuato ad approfondire questo aspetto nel vasto dominio pressoché inesplorato della gnosi islamica sciita. Poiché il concetto di ermeneutica ha ormai assunto un vago sapore heideggeriano, e poiché le mie prime pubblicazioni riguardano il grande filosofo iraniano Sohravardî, alcuni hanno insinuato che io avessi ‘mescolato’ Heidegger con Sohravardî. Eppure, usare una chiave per aprire una serratura non significa confondere la chiave con la serratura. Non si è trattato neppure di usare Heidegger come chiave, ma di usare la chiave che lui aveva adoperato, e che era a disposizione di tutti.

Qual è il “vero significato”? Profani vs. gnostici. Che ironia! Ciò che i profani, gli essoterici, considerano come senso metaforico, per gli gnostici è il vero significato, perché non degradano il significato spirituale al rango di una metafora o di un’allegoria. Ciò che il profano prende per vero significato, cioè il visibile significato storico, per gli gnostici non è che la metafora della Vera Realtà. Ecco dunque la nostra scienza storica ridotta a stato metaforico. E che dire dei teologi esegeti di oggi che non pretendono altro significato che quello “storico”? Non c’è altra “realtà” per loro oltre alla statica storicità della Storia… Esistono, così, le “conferenze storiche”, le “leggi della Storia”, le “svolte storiche”. Eppure, abbiamo filiazioni più essenziali e autentiche di quelle storiche. Non è attraverso un legame “storico” che siamo legati agli altri mondi, che danno senso a questo mondo. L’analitica heideggeriana ci aiuta a comprendere perché l’umanità, oggi, si aggrappi allo “storico” come unico “reale”. Si assiste a una secolarizzazione dell’idea di Incarnazione, che trascina i teologi sulla scia di una sociologia onnipresente, generalizzata. Eppure, l’analitica del da-sein, in cui sboccia l’avvenire del passato, dovrebbe liberarci da questa passione per la storicità. Ripensiamo alle domande inaudite di Heidegger: gli atti della presenza umana passano nel puro passato e lì restano? O restano piantati nel presente perché sono in essere? Se lo sono è perché un “atto di presenza” è sempre a venire, in un futuro che continua a costituirsi presente. L’essere-stato è essere perché deriva costantemente dal futuro. Il presente è futuro in divenire, che conserva le sue potenzialità nel presente.

Abbiamo sacralizzato la laicità. Se possiamo analizzare senza troppi problemi i processi di secolarizzazione che hanno desacralizzato il sacro, non abbiamo mai assistito prima alla sacralizzazione del secolarizzato. Certamente, si nota una promozione continua del ‘secolare’, oggi, concedendo ad esso prerogative e privilegi che erano propri del sacro. In realtà, ciò non è che una caricatura demoniaca. La secolarizzazione metafisica accoglie soltanto la morte degli dèi, non la loro resurrezione. E noi dobbiamo concentrare i nostri sforzi sulla resurrezione. Tutti i significati che questa parola racchiude implicano la rottura di un sistema ben ordinato, ordinario: lo strappo, l’uscita dalla tomba. La resurrezione viene annunciata a partire dal mistero del sepolcro vuoto. D’altronde, la laicizzazione del nostro tempo, caricatura del sacro, si diletta nello pseudo-culto della tomba abitata. Certo, in Heidegger c’è un tema del Verbo, della Parola. Ma in questo campo, i cabbalisti ebrei, quelli cristiani e dell’Islam, restano da secoli degli autentici maestri. Soltanto loro hanno mirabilmente analizzato il fenomeno del Verbo: Verbo che si fa Libro, Verbo scritto che risorge come Verbo vivo. Al confronto, il tema della Parola in Heidegger sorprende per ambiguità: è forse un crepuscolo? Un crepuscolo che adempie la laicizzazione del Verbo? Oppure è un’alba, che annuncia la palingenesi, la resurrezione della Parola biblica? La risposta dipende dalle opzioni che scegliamo di supporre: come esiste un hegelismo di destra o di sinistra, mi domando se non esista anche un heideggerismo di destra e uno di sinistra.

Il Libro Sacro non è un “racconto storico”. L’ermeneutica della Parola impartita dalle religioni del Libro ha sempre avuto la virtù di produrre un’elevazione, un’uscita, un’estasi verso i mondi invisibili che, soli, danno senso a questo mondo, al “fenomeno del mondo”. Penso, nel cristianesimo, al grande gnostico Valentino, a Gioacchino da Fiore, a Sebastian Franck, a Böhme, Swedenborg e altri. Autentici testimoni che, insieme agli esoteristi del giudaismo e dell’Islam, attestano quanto il Libro Sacro, lungi dall’immobilizzare lo sviluppo del pensiero, ne è il più vivo stimolo. Come altri parlano di “rivoluzione permanente”, io parlerei di una “ermeneutica permanente”. Intendo, va da sé, non il mero accodarsi alle scoperte archeologiche, che riducono il Libro Sacro a “racconto storico”, alla dimensione banale dei “fatti”, per i quali abbiamo una risposta sociologica già pronta, piena di parole superflue e di una sacralità imbarazzante. L’ermeneutica permanente non altera alcuna parola della Tradizione, dacché ogni parola preservata contribuisce a un nuovo folgorante incontro tra l’Immagine e l’Idea.

Henry Corbin

Gruppo MAGOG