Lui è un genio e voi siete dei vili! Sul trattamento riservato a Émile Zola in Italia
Politica culturale
Luca Bistolfi
Emil Cioran ha scritto spesso di Henri Michaux: ne apprezzava l’anomalia, l’intelligenza – “Michaux è forse lo scrittore più intelligente che io abbia conosciuto” –, il genio obliquo. Eppure, gli è esattamente opposto; non capisce come l’amico abbia creduto di poter cartografare l’abisso; non ama la sua indole ‘scientifica’, da indagatore ubiquo (“Uno scrittore non deve approfondire troppo il suo argomento, corre il rischio di assomigliare a uno scienziato”); gli rimprovera, lui, dall’ardore del fallimento, di essere un uomo compiuto. “Non aveva quell’amarezza che viene con gli anni, e lo sorprendevo spesso in flagrante delitto di ottimismo… Per me è il vero tipo dell’uomo compiuto”.
Michaux, in effetti, ha fatto di tutto, tutti ha incontrato, ovunque è andato. Ha conosciuto Borges a Buenos Aires e Artaud nella casa dei matti e Cioran al bivio di un mantra di nottambuli; è stato in Indonesia, in Cina, in Africa, in un Ecuador che fa equatore sul delirio. Ha flirtato con tutte le avanguardie, filtrandone le norme, ha verificato le distonie del linguaggio, senza appartenere a nulla: dava al proprio dolore l’entità del totem. Si diede alle droghe – e questa ennesima illusione dispiacque a Cioran. “Eravamo buoni amici, mi ha persino chiesto di essere il legatario della sua opera, ma ho rifiutato”. Immagino che Cioran si sia offeso: difficile credere a scritture tanto differenti. Diffidente, Cioran censisce cadaveri e rovine, con la perizia dell’ultimo uomo, lo stile letale, terminale; Michaux è come il geografo medioevale che intuisce leoni dietro i veli, mostri sotto una promessa, ha la crudele ingenuità del favoliere.
Cioran precisa il ritratto di Michaux in diversi scritti; qui è Un apolide metafisico: “Ci siamo intesi perfettamente e siamo sempre stati amici. Parlavamo per ore al telefono, e ci vedevamo spessissimo. L’età non incideva su di lui, è sempre stato vivace, combattivo, critico e divertente, stranamente risparmiato dalla vita”. E poi, in uno dei suoi Esercizi di ammirazione: “I suoi scrupoli dovevano condurlo fino al feticismo dell’infimo, della sfumatura impercettibile, sia psicologica che verbale, ripresa indefinitamente con un’insistenza affannosa. Giungere alla vertigine mediante l’approfondimento: ecco quale mi pareva il segreto del suo procedere”. In una lettera a Mario Andrea Rigoni, il 6 novembre del 1984, Cioran precisa il suo rapporto con Michaux, di cui percepiva l’esigenza di un distacco. “Eravamo molto legati; lo ammiravo, ma, curiosamente, non avevo affetto per lui. Il suo spirito corrosivo, intrattabile, ‘cattivo’ mi piaceva (poteva essere sbalorditivo a cena!); tuttavia era scrittore, troppo scrittore. Questo lato ‘uomo di lettere’, per nulla percepito negli ambienti letterari dai quali egli rifuggiva per calcolo, era comunque reale. Un falso solitario. Che importa! Era diabolicamente intelligente. Ma perché ha scritto tanto?”. In termini estremi, potremmo dire che andare a cena con Michaux era una esperienza più corroborante e corrosiva che leggere i suoi libri. Esasperazioni.
Michaux è il poeta della breccia, della frattura, del taglio limpido, che svasa il quotidiano nel macabro, nell’altro mondo, slega il giogo della tigre impazzita; è un anatomista della caduta. Certo, il dramma di questa esattezza, di tale costante illuminazione, è l’evasione dal capolavoro, che è il distillato di una schizofrenia. Il testo che si propone è parte di Vents et Poussières, pubblicato sulla “NRF” del primo febbraio del 1955. Sfogliare l’indice della rivista è un bigino di storia della letteratura, che stordisce: si pubblicano, nello stesso numero, Entretiens avec le Professeur Y di Céline, un testo di Georges Bataille, Tommaso Landolfi e René Daumal; Maurice Blanchot edita A toute Extrémité ed Émilie Noulet scrive un saggio su La Poétique de Saint-John Perse. In anni in cui l’estremismo, la devianza, l’oltranza diventava culto, idolatria, genere, posa, Michaux, comunque, sceglie un moto cauto, un tono essenziale. Ci carezza avvertendoci che siamo in un labirinto; ci ricorda che tutto è assurdo perfino l’assoluto, e sorride, continuamente.
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Louna dice:
Nella mia vita profonda, non accade nulla. I drammi sono giunti, mi hanno colpito. Eppure, è come non fossero accaduti.
I sogni che ho fatto dopo questi terribili eventi, celebrano azioni mediocri, la modestia con cui appoggio un giornale sulla panchina, io che tolgo un foulard dalla manica appena macchinata, un filo d’acqua che scorre, o che smette di scorrere.
Un giorno, posso dirlo in pubblico, visto che è stato confermato da cinque persone, ho commesso un omicidio. Le circostanze sembrano scagionarmi, è vero. Il tribunale ha deciso così – non io. La sera di quel giorno, tra tutti il più tremendo, davanti all’incubo che mi attendeva, non ho osato stendermi. Solo la prostrazione, alla fine, mi ha relegato nel sonno, dove sarebbe nato un sogno diverso dagli altri, spaventoso, che mi avrebbe soggiogato con la sua grandezza. Ma no. Niente è cambiato. Mio padre è apparso, ha raddrizzato la linea della mia cravatta con mano abile, se ne è andato, abbandonando la notte all’ordinario.
È considerando questi miserabili sogni, al cospetto della mia misera esistenza, che sono venuto, dice Louna, ad attendere, ad attendere con sete, un enorme, travolgente cataclisma, che squasserà la mia vita. Ma non prima di domani, prima della notte, dell’ultimo sonno. Che sappia, infine, attraverso immagini tragiche e sontuose, che sono venuto al mondo soltanto per una manica macchiata, una tazza rovesciata, per posare il giornale su una panchina.
*
Ho visto un albero dentro un uccello. Lo rifletteva intero; una brezza infinitamente leggera addolciva l’estremità delle foglie.
L’uccello era immobile, grave.
Mattino chiaro, senza sole, un mattino che non rivela nulla del giorno a venire, o molto poco. Io e l’uccello ci siamo intesi, ma a distanza, come si conviene tra specie animali diverse che, senza ritorno, hanno avuto un’evoluzione perfettamente divergente.
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Da una rotonda elevata, contemplo, da cinque finestre, su un pendio di nebbie, la città che, lo so, mi circonda. La massa di nuvole, lente, come saliva, permette, di rado e per poco tempo, a qualche torre o a un camino di altezza eccezionale di emergere: servono a respingere i fumi, i fumi incessanti i cui riccioli oscuri si addenseranno ancora di più, aumentando l’ovatta che cancella la città. La vedrò infine un giorno? Alcuni rumori arrivano, turbano l’isolamento della rotonda fino a tardi, a volte fino a notte fonda. Si può temere che questa città, costantemente in crescita (soprattutto, la sua attività), presto, anche di notte, non smetta di agitarsi e di agitarsi in quell’oscuro frastuono. Per questo, di sera, viviamo nell’inquietudine, a causa del rumore dal basso che non diminuisce.
Poi, mentre stiamo per disperare, in pochi istanti, smette. Svanisce. Alcune luci, poco lontane, segnano i confini di questa grande tomba provvisoria. Domani, è indubbio, la tomba tornerà città. Ma quale città? Lo saprò mai?
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Durante i miei viaggi e i miei vagabondaggi, talvolta mi sorprendo nel vedere una testa priva di importanza, sgradevole, una testa che mi fa orrore, che non mi piace, che non ha alcun impero in me, che mi è davvero intollerabile. Benché la veda solo per un istante, la sorpresa mi occupa, interamente. Un attimo dopo, distolgo lo sguardo, me ne libero.
Sovente ho sperato, dato che si sono verificati eventi imprevedibili in questo secolo, ho sperato, dico, di vederne un’altra. Anche se dovesse apparire solo due o tre volte, anche solo per qualche minuto, camminerei con gioia, più attento, in una strada più larga. In verità, è grave la fissità di questo fenomeno. La testa si ostina, io mi ostino. Per il momento, siamo legati. Pensa che un giorno mi stancherò di negarle la mia attenzione?
Henri Michaux