07 Dicembre 2019

“Bisogna essere sempre all’altezza della propria cattiva reputazione”. Helmut Newton. Eccessivo. Indimenticabile

La cosa più bella di Berlino non è la Porta di Brandeburgo. Non sono i resti del Muro, o la Siegessäule, la Colonna della Vittoria su cui sta appollaiato il celebre angelo (che poi non è un angelo bensì la dea Nike), o Potsdamer Platz, o la Museumsinsel, o lo zoo dei ragazzi, quello di Christiane F. No. La cosa più bella di Berlino è un museo nascosto in Jebensstraße al civico numero 2, lungo una via che costeggia Tiergarten.

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Berlino è la capitale europea, la nuova Terra Promessa, la Mecca degli artisti. Berlino è stata questo sino a una decina di anni fa quando hanno cercato di cancellare l’ombra del Muro invitando i migliori a ridisegnare la città.

Potsdamer Platz per esempio. Pots per molto tempo è stata una macchia, un immenso spiazzo desolato in cui il nulla ignorava il nulla, in cui il nulla si assommava al nulla. Una no man’s land, un ricettacolo di sassi e pietre, terra rimossa e scavata, ruspe e grigio. Oggi è un quadro magico di firme d’autore. Anche italiane, come quella di Renzo Piano, che ha realizzato la Torre Debis, un grattacielo alto oltre 100 metri che sorge all’estremità meridionale della piazza. Per la sua costruzione sono stati utilizzati pietra e vetro. Eppure non è lì, o in Alexander Platz, che avverti il respiro berlinese della città. Lì ci vanno i turisti, quelli dei selfie, quelli che girano con lo smartphone sempre in mano e che cercano luoghi riconoscibili da inviare ad amici.

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“Niutòn quello della mela?”. Dubito che sappia come si scrive. E non solo per quella “o” accentata. “No, quello è Aisac”. Sì, è importante anche lui, è a lui che si deve la scoperta della gravità. “Questo si chiama Elmut”. Il nome corretto richiede anche l’acca davanti, ma nel parlato essa scompare, o si aspira. Toscanamente.

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Ci hanno messo poco i tedeschi a capire cosa fare. A distanza di 5 anni dalla sua morte, il museo in Jebensstraße – fondato da lui stesso nel 2003 – funzionava già alla grande: tutto in ordine, tutto dentro, tutto in mostra, tutto visibile. Anche le parrucche di finto pelo da mettere tra le gambe delle modelle. In vetrina i suoi strumenti di lavoro: macchine fotografiche, libri, gadget, giubbotti e borsoni. Un esempio pratico e sincero di come si fa a onorare (e come si permettere ai visitatori di ammirare la sua arte) uno dei Maestri più importanti del Novecento.

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Si chiamava Helmut Newton ed è andato a fotografare gli angeli esattamente 15 anni fa, nel 2004. Un incidente in macchina, come James Dean, come Grace Kelly. Il suo è avvenuto a West Hollywood: il suo SUV Cadillac SRX si è schiantato su un muro del famoso Chateau Marmont.

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È stato soprannominato “Il Re del capriccio”, Helmut, definizione bellissima se per “capricci” si intendono le bellezze statuarie che ha fotografato, come le celebri amazzoni finite nel libro Sumo. Nudità come tema ricorrente per quasi tutta la sua esistenza, ma con un sorriso pacioso, quasi contagioso, forse strafottente. E un bel giro vita (il suo). Beato tra le donne, con le sue camicie improbabili, sempre gagliardamente in formato “cheese” in una giungla amazzonica di serietà marmorea, di bocche cucite, di sguardi severi, di posture cristallizzate.

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“Negli anni Settanta le foto di Newton risultarono scandalose, eccessive. Le femministe insorsero e lo accusarono pubblicamente di essere un pornografo, un brutale cosificatore del corpo femminile, un perverso sfruttatore di innocenti ragazze, al servizio dei torbidi interessi della moda. Oggi, per contro, l’estasi celebrativa sul suo lavoro, regna sovrana” scrive Lamberto Cantoni con estrema precisione. Un brutale cosificatore, forse. Ma chi non vorrebbe essere stato al posto suo?

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Con Helmut Newton il corpo nudo diventò il nuovo abito da indossare. Eppure l’opera che più impressiona per composizione e intensità è quella di un uomo, Gianni Agnelli, ripreso di profilo con tutte le sue rughe. Rughe che sono vizi, età, sogni, donne, motori. Rughe che sono solchi di autostrade, risaltate e messe in evidenza attraverso un forte contrasto. Bello come una divinità greca. Sguardo fiero, rivolto a qualcosa o a qualcuno che se ne sta a destra, fuori dal campo visivo della macchina fotografica.

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Classe 1920, classe da vendere, Helmut Newton è morto nel 2004

Le immagini scattate da Helmut Newton negli anni hanno ingolosito le case di moda più cool: Chanel, Yves Saint Laurent, Louis Vuitton, Borbonese, Dolce & Gabbana. Viene da pensare che qualcosa sapesse fare. Qualcosa di ottimo, unico, straordinario. Qualcosa di bello per i belli.

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Con i suoi 35 chilogrammi, 464 pagine e il prezzo di 317mila euro, il Sumo da collezione, stampato dalla casa editrice tedesca Taschen nel 1999 ha battuto ogni record “editoriale”: peso, dimensioni e costo. Una bibbia di corpi bellissimi. Di donne autonome, potenti, consapevoli. Donne che non hanno alcun “bisogno” dell’uomo.

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Le sue fotografie di moda sono andate oltre la normale prassi e hanno intrapreso una narrativa parallela, a volte intrisa di surrealismo o di suspense, come in un film di Alfred Hitchcock, dove, spesso, appare poco chiaro il confine tra realtà e messa in scena e dove gli elementi sono mescolati per creare un gioco di potere e seduzione. La sua fotografia ha superato gli approcci narrativi tradizionali e si è intrisa di lussuosa eleganza e sottile seduzione, oltre che di interessanti riferimenti culturali e di un sorprendente senso dell’umorismo.

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Ironia, bellezza e glamour. Newton ha catturato uno stile di vita stilizzato da jet-set in cui le campane dell’alta società sono abbinate a pistole, manette, stiletti, tutori ortopedici, calze e rossetto audace. La vanità e il desiderio assumono qualità feticistiche con sfumature sadomasochistiche, creando ambienti provocatori e assolutamente espressivi che appaiono candidi e riservati, come se si stesse sbirciando attraverso un buco della serratura che dà su una iper-realtà elettricamente erotica che però si svolge a porte chiuse. Del resto, lui stesso una volta ha detto: “Bisogna essere sempre all’altezza della propria cattiva reputazione”.

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Per qualcuno è un genio che elevato la fotografia di moda ad arte; per altri è un misogino le cui fotografie hanno oltrepassato i limiti dell’accettabilità.

La verità, come sempre, sta nel mezzo.

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Io, nel mio piccolo, non ho voluto rinunciare al suo occhio: ho Saddle I Paris, 1979 and Mannequins sul muro della sala da pranzo. Non è firmata: è solo una prova di stampa di ottima qualità. Il suo valore è tutto nella composizione, nell’ipnotico bacio velato, nel tappeto che sembra di schiuma, le scarpe con i tacchi vertiginosi. E nella sigaretta accesa.

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L’unica certezza, alla fine, è che le sue foto sono impossibili da ignorare.

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Alessandro Carli

*In copertina: Catherine Deneuve secondo Helmut Newton, 1976

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