23 Marzo 2024

“Le farfalle sono più forti dei demoni”. Jünger, il “mago bianco”, e la giovane poetessa, Helena Paz Garro

Il doppio cognome ha la funzione di una trappola: vita tra le tenaglie dello scorpione. Helena Paz Garro nasce nel 1939, lo stesso giorno della madre, il 12 dicembre, Elena Garro, brillante, fascinosa, virile, anticonformista zarina della letteratura sudamericana del Novecento, e muore il giorno in cui il padre, il Nobel per la letteratura Octavio Paz, avrebbe compiuto cento anni, il 31 marzo del 2014. Crescere tra due Moby Dick chiedeva lo spirito di un Achab: Helena Paz Garro, piuttosto, si sentiva l’Alice di Carroll; amava leggere i libri di Verne e di London, sognava di volare con Peter Pan, avrebbe voluto diventare una ballerina del circo, volteggiare sopra gli elefanti – aveva chiamato il suo gatto Machu Picchu.

Helena Paz Garro (1939-2014)

In una intervista rilasciata nel 2008 a Gerardo Bustamante Bermúdez, Helena Paz Garro dichiarò – con la levità della ghigliottina – che i genitori le impedivano di pubblicare. Scriveva poesie fragili come la brina. “Mio padre mi impedì di pubblicare in Messico. La mamma mi ripeteva: ‘No, no, no, non devi pubblicare. Tu sarai come Emily Dickinson’”. Perfino il nome ha lo stigma della vendetta: in rete di Helena Garro trovate le briciole, di Elena Garro, la madre, di tutto.

Helena, la ragazza, faceva i Tarocchi, aveva comprato il primo mazzo di una serie in Spagna, “mi hanno sempre detto la verità”. Consultava anche l’I-Ching, l’antico oracolo cinese. Aveva vissuto in Giappone, dove il padre era stato ambasciatore; spesso scriveva in francese. Succube della madre, la seguì, trentenne, nell’esilio autoimposto, dopo i fatti dell’ottobre del 1968. La madre era stata accusata di aver fomentato i moti studenteschi; lei aveva accusato di parassitismo culturale e di opportunismo politico l’intera classe intellettuale messicana. L’esilio durò fino agli anni Novanta. Nel frattempo, i genitori avevano divorziato, inaugurando una guerra – personale, passionale, politica – epica. Soltanto alla morte dei genitori – morti entrambi nel 1998 – Helena Paz Garro trova il coraggio di pubblicare: un libro autobiografico, Memorias (2003; da allora diversamente ripubblicato) e la raccolta delle poesie, La rueda de la fortuna (2007), fino ad allora edite in scarne plaquette, di rare copie: Criaturas de la noche (Madrid, 1991; tirato in duecento esemplari) e Onyx (Parigi, 1992; stampato per amici).

Helena aveva studiato antropologia in Messico; soggiogata dalla madre, visse con lei, dagli anni Novanta, a Cuernavaca, in un piccolo appartamento, per lo più in povertà, scrivendo per diversi giornali. Tra i rari cultori della poesia di Helena, figura, nel ruolo del patriarca, Ernst Jünger. Nell’intervista prima citata, Helena racconta le circostanze del loro incontro, che sfociano nel medianico:

“Avevo un’orribile macchia sulla faccia: uno psichiatra mi disse che non si poteva curare. Fu un amico a consigliarmi, ‘Leggi Jünger, ti curerà’. Lessi i suoi diari di guerra scritti durante gli anni dell’occupazione: guarii. Decisi di ringraziare quell’uomo. Mia mamma conosceva una donna dell’alta società, Betty Boutour, il cui marito era occupato nell’ambasciata del Messico. Betty era una tizia molto snob, che invitava nel suo salotto soltanto personaggi di fama. Betty disse a mia madre, ‘Conosco l’indirizzo di Jünger, ma se lo do a sua figlia, lui non le risponderà e lei resterà delusa, inquieta’. La prima lettera che ho scritto a Jünger contava quaranta pagine”.

Il carteggio tra Helena Paz Guerra e Ernst Jünger è stato recentemente ricostruito in un libro, Helena. La soledad en el laberinto, a cura di Elsa Margarita Schwarz Gasque e María del Carmen Vázquez Martínez (2020). Helena aveva 22 anni; Jünger, già autore di Sulle scogliere di marmo e di Heliopolis, 66. Si scrissero fino al 1996, il carteggio conta una trentina di lettere. Alle lettere, enciclopediche, spesso scatenate, in furia, di Helena, Jünger risponde con cartoline di rubina freddezza.

Helena fa di Jünger il proprio maestro e confidente: gli racconta le sue difficoltà nel rapportarsi con il padre – “Ho rinunciato a vedere mio padre per tre anni; ho vissuto più o meno ritirata dal mondo. Non può sapere quanto i suoi libri mi abbiano confortata: mentre i valori intorno a noi crollavano, il suo diario era l’unica cosa a cui potevo aggrapparmi” –, descrive il cupo afrore nichilista di Parigi, è il 1962:

“Sono disgustata da questa gente, da questi nichilisti che appena la destra mostra il suo vero volto si voltano per darsi alla fuga! Questi biechi adoratori di Sade devono ammirare perfino Hitler, il vero e unico discepolo del ‘Divin Marchese’, il solo che abbia davvero osato instaurare un nuovo ordine demoniaco. Il vero maestro di Hitler è Sade”.

Gli racconta la fuga dal Messico, “il centro del terrore totalitarista comunista”; l’orrore in cui tiene Fidel Castro, “il grande vampiro circondato dai suoi carnefici”; i fatti in cui lei e la madre sono implicate (“Sono stata operata lo scorso anno per una cosa ‘chiamata cancro’, per questo i politici hanno avuto pietà di noi e ci hanno permesso di lasciare il paese, di nascosto, su macchina ufficiale. Il 2 ottobre è iniziato il Tribunale della Plebe e i castro-comunisti ci hanno dichiarato responsabili della repressione della loro ribellione durante i Giochi del 1968. Questo è ridicolo. La verità è che i mostri messicani ci hanno offerto un sacco di soldi per marciare con loro, e noi abbiamo rifiutato. I testimoni recano noia. Deve sapere che mio padre è il poeta ufficiale del regime in atto. Mio padre, ovviamente, non mi parla più”). E poi: le richieste di asilo politico, il timore di essere controllata, il delirio del complotto. In una lettera del 1970, Helena fa riferimento all’assassinio dell’ambasciatore tedesco Karl Graf von Spreti ad opera delle FAR, in Guatemala: “Gli assassini comunisti che lo hanno ucciso in modo tanto vile sono gli stessi che hanno minacciato me e mia madre. Esiste uno stretto contatto tra i ‘guerriglieri’ del Guatemala e quelli del Messico. Conosco personalmente diversi leader. E sono fermamente determinata a combattere tali assassini. Ma hanno il sostegno ‘dall’alto’, per questo restano impuniti. Ma devono essere sterminati. Non potete immaginare quante persone hanno ucciso. Anche negli Stati Uniti hanno sostegni ‘dall’alto’”. La risposta di Jünger è ferma, di impeccabile nitore: lo scrittore invia alla donna una farfalla che reca il suo nome, la “Trachydora jungeri”, originaria del Pakistan, con una didascalia a mo’ di oracolo:

“Le farfalle sono più forti dei demoni, non abbia paura”.

Nell’intervista sopra citata, Helena ricorda l’unico incontro – reale?, immaginario? – avuto con Jünger, in un café, a Parigi. Jünger aveva rilasciato un’intervista a Radio France Culture “in cui parlava di me, dicendo di aver scoperto la migliore poetessa del XX secolo. Ero molto felice. Mi fece pubblicare diverse poesie. Mi parlò della sua teoria dei colori: rosso, bianco, blu. Non parlava mai del rosa. Mi disse che non amava scrittori come Marcel Proust, che oliano il gabinetto, diceva. Era un entomologo. Andava in montagna. Ci siamo scambiati molte lettere. Era sempre così umile, da collocarsi sempre sotto di me. Incredibile, vero?”.

Diceva che Jünger era “un mago bianco” – a differenza di Picasso, che aveva conosciuto, “un uomo straordinario, ma un mago nero”. Le poesie di Helena Paz Garro hanno la limpidezza della perenne infanzia. Eccone un repertorio:

“La regina si è tagliata i capelli;
giacciono a terra
come pozzanghere in autunno.
La regina abdica il sorriso.
Nessun nastro dorato
cinge le sue tempie
nessun fratello leone
lecca le sue mani.
È stata sconfitta.
Abita da sola la città bianca
nel pieno della giungla:
regna su scomparsi imperi
cammina a piedi nudi
tra gli alberi appariscenti”.

*

“Nella mia gabbia di vetro
assediata da sguardi con gli spilli
e teschi in rovina
le dita di un cielo altro dal nostro
le dita misericordiose della Vergine
toccano le mie piaghe
da cui sgorgano fonti d’acqua cristallina”

Quando scoprì la malattia del padre, gli inviò un biglietto di versi beneaugurali: “Eliminare il dolore della sofferenza/ in uno stagno dove fluttuano le ninfe/ lenta barca sotto il sole di Alice”.

A Jünger le poesie di Helena Paz Garro dovettero piacere per davvero. Le inviò una lettera, accettando che comparisse come introduzione ai versi di lei. Helena prese quel foglio come un amuleto, non se ne separò mai. Così, tra l’altro, scrive Jünger:

“Nel secolo in cui abitiamo, che annuncia continuamente la sua fine, il poeta vive, come ha profetizzato Hölderlin, ‘in un tempo di miseria’. Ecco perché le poesie sono un dono di particolare valore. Il giorno in cui nella lettera di un amico scorgo una poesia che mi rasserena l’animo, è sempre un buon giorno. È ciò che mi accade da molti anni grazie a te, cara Helena. Le tue poesie riscaldano l’atmosfera, come se in casa fosse acceso un fuoco, mentre fuori impera l’inverno. Proprio oggi leggo una selezione delle tue poesie. Le spargi come un mazzo di fiori, quando ne slacciamo il nastro: e con quale leggerezza! Sono quaranta, le ho ordinate. Alcuni versi sono molto belli. A quanto pare, per te le poesie sono come le foglie che cadono dall’albero: benché il vento le porti via e si ostini a spezzarle, esse formano, tuttavia, un tutt’uno”.  

Anche Jünger morì nel 1998, come i genitori di Helena. Chissà se il segno marchiato da queste mancanze fu per lei una liberazione o una nuova prigionia; il crollo, a volte, ha l’estro dell’ascesa.

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