La nozione sotto la quale si vuole rac-chiudere (nel senso heideggeriano del termine) il senso e la finalità ultima di questa mostra assume una valenza polisemica nella lingua tedesca, ed è, ad un tempo, un ritorno su se stessa ed un profondo alito di novità. La sostanziale intraducibilità del lemma tedesco Heimat è da imputarsi non tanto a povertà ed eccessiva circoscrizione semantica quanto, all’inverso, ad una indefinita moltiplicazione degli orizzonti di senso, in un rimando molteplice che include denotazioni quali ‘casa’, ‘patria’, ‘suolo’. Un’immediata appercezione di questi termini potrebbe far pensare ad una ristretta sfera di provincia tedesca, o ad una barbara esaltazione di “terra e sangue”. Di fatto, l’accezione che vogliamo qui conferire al termine è più vicina al concetto, sempre heideggeriano, di “disvelamento”: uno stare presso l’origine che non coincide mai con l’ottenimento manipolatorio di essa. O, anche, una sorta di “nostalgia della patria” che viene vissuta in un rapporto di avvicinamento ed allontanamento dalla patria stessa, da ciò che è più essenziale ed originario. Viene vissuta, vale a dire, in uno ‘stare presso’ che è sempre, insieme, ‘stare lontano’, in un nesso di apparizione/scomparsa e di luce/ombra, che costituisce la più autentica dimensione dell’essere.
Nel nostro caso, tuttavia, questo rapporto di vicinanza/lontananza dall’essere non va interpretato, in un senso che la filosofia del secondo Novecento ha suggerito a più riprese, come un permanere nell’incertezza e in una condizione di sospensione o – per utilizzare la designazione di un atteggiamento ‘alla moda’ qualche decennio fa – come un “pensiero debole”. Diversamente, noi intendiamo sottolineare la profonda discrepanza vigente tra la ‘realtà di tutti i giorni’ nella sua apparenza molteplice e l’unità dell’essere che ad essa sottende, pur non potendo mai essere colta direttamente nella sua originarietà. Il linguaggio, in questo senso, è – ancora con Heidegger – la “casa dell’essere”, ma un’abitazione (o, per l’appunto, un Heimat) nella quale l’essere non si rivela direttamente nella sua inalterabilità e indivisibilità, ma lo fa attraverso il filtro di uno strumento spurio, contingente, empirico.
Per la filosofia – e l’arte che si vede in questa mostra parla un affine linguaggio, sia pure nelle proprie strutture peculiari ed autonome – è giunto il tempo di interrogarsi una volta di più sull’esigenza di rivolgersi con forza assertiva al necessario, partendo dall’apparentemente episodico. Per quanto a prima vista casuale nel suo dipanarsi molteplice costituito dalle in(de)finite determinazioni che ci circondano, ciò che non può ritenersi casuale – ma è anzi l’inequivocabile punto di partenza di ogni disamina, ogni asserzione, ogni esperienza di vita – è proprio il piano ontologico: il fatto che vi sia qualcosa e non il niente, con la contraddittorietà dello stesso concetto di ‘niente’ che tale affermazione fondamentale porta con sé.
L’arte, in questo senso, appartiene alla medesima sfera fenomenologica del linguaggio, risultando essa stessa una forma di linguaggio non concettuale. La grande arte, pur avendo un proprio piano di pertinenza, si caratterizza pertanto come una violazione della contingenza e come una aporetica allusione all’assolutezza e alla necessità. In altri termini, come una Vanitas: la vanità dell’esistenza empirica ed il suo risiedere sopra un’infinita profondità di senso che vi è sottesa ed è in apparenza inattingibile.
Se arte e pensiero non possono condividere né i contenuti né le strutture espressive e formali nelle quali i primi si inseriscono, è una potente ed originaria forza assertiva a connotare sia l’arte di questa mostra che la cornice concettuale nella quale la desideriamo inserire. Nel caso del pensiero, tale forza è riscontrabile nella necessità immediata di elaborazione concettuale di un “luogo unitario dell’essere” al quale ogni concezione molteplice e linguistica non può, sia pure imperfettamente, evitare di rinviare come alla sua struttura basilare. Nel caso dell’arte, la forza assertiva consiste in una fuga da ‘debolismi’, facili mode, ornamentali estetismi di maniera, e in un nuovo tentativo di esprimere il segno nella sua purezza e nella sua diretta e feroce, talvolta drammatica e persino tragica potenza espressiva.
Se, quindi, per il pensiero il “permanere/allontanandosi” dall’Heimat consiste nel ravvisare l’unità e identità dell’essere nell’apparente casualità e contingenza dell’universo empirico, per l’arte consiste nell’assecondare la propria pura natura di espressività segnica: senza sviamenti, scopi estrinseci, facili proclami da attività “impegnata” o risoluzioni fintamente filosofiche (perché impossibilitate ad esserlo per campo di azione).
Scevri da intenti di contaminazioni o da ‘inveramenti’, intendiamo lasciare al pensiero ed all’arte il rispettivo orizzonte di movimento, consapevoli, tuttavia, dell’esigenza che entrambe le manifestazioni riprendano il proprio Holzweg (“Sentiero interrotto”). Un sentiero nel quale il pensiero riprenda una coerente ricerca della verità e l’arte possa ancora una volta innovare, nella coscienza della propria storia e della propria – non rinnegabile né mercificabile – struttura.
Jonathan Salina
*Per gentile concessione si pubblica il testo di Jonathan Salina (in origine: “Heimat – Arte e Casa dell’Essere”) a corredo della mostra “Heimat”, in scena fino al 24 settembre presso Villa Pollini De Mocri a Trontano, con opere di Andrew Huston, Marcovinicio, Franco Rasma e Giovanni Rizzoli; in copertina: opera di Franco Rasma