20 Aprile 2023

“Stava realmente trasformandosi in Aquila”. L’epopea poetica di Héctor Murena

Forse le piaceva proprio questo: il talento evanescente, che brucia, tra foreste di falene, sfinimenti infiniti.

La lettera più bella che Cristina Campo scrive a María Zambrano è datata 1975, “nella festa di San Giovanni”, spedita da Roma. Racconta la morte di Héctor Murena, “all’età di 52 anni, il 5 o il 6 dello scorso mese”. L’incertezza, mai indulgente, sulla data di morte – nato il 14 febbraio del 1923, Murena muore a Buenos Aires, secondo i documenti, il 6 maggio del ’75 – cela un mistico cifrario, forse. Di Murena – nomen omen: aggressione tra le oscure rocche, bocca d’incredibili, fosforescenti denti, tra le segrete marine – si è incerti perfino nel nome, indecifrabile: nato Héctor ÁlvarezMurena, firmava i suoi libri H.A., a volte Héctor A. Murena. “Io amavo molto Murena, fin dal nostro primo incontro a Viale Pinturicchio, forse dodici anni fa, forse tredici. Ma non credevo di amarlo tanto. La notizia della sua morte mi ha letteralmente spezzato il cuore. Non ho potuto far altro, la sera stessa e tutti i giorni seguenti, che fuggire alla chiesa russa e accender ceri per lui, piangendo senza vergogna”.

Héctor A. Murena (1923-1975)

Così attacca C.C. Murena faceva parte del ristretto pleroma dei suoi pari, “C’era tra Murena e me uno di quei rapporti estremamente silenziosi… che corrono tra Scorpione e Toro: complementari celesti, legati da simmetrie profonde e antitesi armoniose e tremende”. Aveva tradotto alcune poesie di Murena – ora raccolte in: Cristina Campo, La tigre assenza, Adelphi, 1991 – sull’“Approdo letterario” diretto da Carlo Betocchi, nel 1961; liriche tratte da El escandalo y el fuego, “l’ultima raccolta, scritta, come l’autore precisa, nel giro di poche notti”. Amava quelle parole, dicotomiche e magnetiche, fuoco e notte, che la mandavano nel girone di San Juan; il fatto che la poesia fosse nottambula ispirazione, nella spirale dell’istante, il coltello di Abramo che splende prima che l’angelo ne interrompa l’opera oscura. Una di queste poesie viene risolta così:

“Solo resiste al tempo
quel che si fa
col tempo.
E quello che si fa
con l’eternità?
La poesia viene
quando restiamo
nell’inesauribile
compagnia della solitudine.
Viene come un sùbito
taglio, dove si mischiano
con fredda febbre
sangue con sangue,
due separati
mondi”.

Collaborava con la rivista “Sur” di madama Ocampo, Murena, e con il supplemento culturale de “La Nación”; aveva tradotto in spagnolo l’opera di Walter Benjamin, e scritto saggi dalla tensione d’acciaio: La fatalidad de los cuerpos, Ensayos sobre subversión, El nombre secreto, La cárcel de la mente (tradotto nel 1972 come Il carcere della mente da La Nuova Italia). Nel 1963, con prefazione di Carlo Bo, Longanesi aveva pubblicato uno dei suoi romanzi, La colpa. Altrimenti, Murena – a parte l’interesse di Irradiazioni, che qualche anno fa ha tradotto Homo atomicus e La metafora e il sacro – resta, per l’editoria italiana, un paria, una creatura dimentica; in Francia, lo editava Gallimard. Era uno scrittore notturno, teso a spaziare per desiderio di sparizione.

Nella lettera alla Zambrano – in: Cristina Campo, Se tu fossi qui, Archinto, 2009 –, la Campo ci dà qualche nota sulla suprema sprezzatura di Murena:

“La morte di Murena è stata la morte tipica dello Scorpione: morte di disamore, largamente immaginario, forse, o forse arcanamente vero. Insonnia e alcool, ma insieme, fino all’ultimo, preghiera e poesia. Questa morte pressoché volontaria – o per lo meno questo consenso alla morte – è stato grave, perché lui era entrato da vari anni in un processo di metamorfosi estremamente bello e importante: stava realmente, lentamente trasformandosi in Aquila (tu sai, non è vero, che lo Scorpione può strisciare nel fango come un Serpente o mettere le ali levandosi fino al sole). Il processo ora dovrà compiersi altrove, in altre dimensioni, suppongo”.

L’ultimo libro in versi di Murena, pubblicato poco prima della morte, s’intitola El águila que desaparece. Nella morte di Murena – che aveva la sua stessa età – la Campo prevede la propria fine: il loro legame, al di là delle ascendenze astronomiche – Murena era Aquario, in sodalizio ascendente con lo Scorpione – era magico (“Murena mi aveva predetto molte cose, che si sono realizzate e si stanno tuttora realizzando”).

D’altronde, “Héctor Murena è il nostro unico amico”, scrive la Campo, nel 1963, ad Alejandra Pizarnik; e poi Elémire Zolla, ancora alla Pizarnik, nel 1965, una frase che è accorato accordo, “Se dovessi morire, per favore, per favore, consegni le mie cose a Murena”.

Uomo vissuto nell’ispirazione costante, dallo sguardo vespertino, consapevole di terrorizzare, Murena svanisce, avvilito dal ‘nuovo’, perfino dal contesto della letteratura argentina. Nel 2019, per la cura di María Negroni, poetessa che ha studiato, tra l’altro, l’opera di Alejandra Pizarnik (a dire che ci muoviamo sempre in un’orbita di consonanze simili), Editorial Pre-Textos pubblica come Una corteza de paraíso, un’antologia di poesie di Murena: a quel libro afferiscono le traduzioni che trovate in calce.

Nell’introduzione, partecipe e bella, la Negroni scrive, tra l’altro:

“Ho cominciato a leggere le poesie di H.A. Murena negli anni Novanta: il clima culturale dell’epoca celebrava mode piuttosto raccapriccianti. Fu una specie di shock. Ho cercato i suoi libri, quasi tutti introvabili; li ho letti spasmodicamente. Da dove veniva questo poeta, da quale tradizione, e perché era così poco conosciuto? […] Non siamo, qui, in presenza di un’ecatombe del linguaggio, come in Alejandra Pizarnik, dove l’opera, infine, è capricciosa, eccentrica; qui vige la piena assunzione di uno stile d’inganno, astiosamente sordo ad ogni mandato. Le poesie, fragilissime, non hanno sostegni: le proposizioni scorrono a cascata, concise o involute, piene di salti di senso, come accade nei versi di Paul Celan o di Rilke, schegge di pensiero sospese nel vuoto. Ogni verso nega e completa il precedente, spalanca e serra, guida e pone dubbi, espone gli opposti, esige una sorta di resa. Al presunto ideale di una ‘comunità poetica’, Murena opponeva come nessun altro il diritto di pensare a sé, di pensare, soprattutto, contro se stessi.

Nel 1607, il monaco Chen-i incontrò una donna che aveva trascorso molti anni sulle montagne del Wu-t’ai. La donna viveva sotto un tetto di paglia rovinato. Mangiava pochissimo. I suoi capelli erano arruffati. Quando le fu chiesto come si chiamava, rispose: “Non ho nome”. Alla domanda sulla sua età replicò: “Non ho età”. Di fronte a chi le chiedeva quale metodo di meditazione utilizzasse diceva: “Sono seduta, non ho metodo”. Che cosa sei riuscita a comprendere?, le chiesero. Lei rispose: “Le mie orecchie odono il suono del vento, della pioggia, degli uccelli”.

Ho sempre pensato che questa donna senza nome, senza età e priva di metodo abitasse la poesia di Murena. La immagino così, seduta in silenzio in mezzo a quelle minuscole poesie, senza fare domande, senza pretese, senza fretta, dedita al dono più arduo: essere ciò che si è quando si cessa di essere. Quando abbandonerà le pagine, resterà una traccia. Incertezza diafana, fatta di mondi impossibili, perciò reali”.

Nelle poesie di Murena c’è sempre un filo tagliato, uno che stacca la spina, che sottrae le maniglie. La poesia, in effetti, è un sibilo: cratere del Cerbero-cervello pieno di libellule.

***

I

La notte che ho morso
quella pepita:
l’inconfondibile
sapore di me stesso.
Da allora fuggo.
Cos’è quel tremore
in cui corro
quel vento che non so
se è l’essere o il non essere?
Quando mi volto
mi leccano il viso
le fiamme
della città irrigata di roghi.

*

IX

Chi abita
in questo canto
silenzioso e solo
chi si lamenta
mentre resto
tranquillo, chi
si divincola, trema,
come se volesse nascere in me
nella mia anima
per mutarmi in mostro
o in angelo,
feto di fuoco
della mia vittima
del mio carnefice?

*

X

E i volti che scorgo
nei tuoi sogni,
l’iguana del tempo
che balla eretta
al chiaro di luna,
le voci che sussurrano
nell’orecchio dell’uomo
mentitore
nell’estremo giaciglio:
faremo quel che dobbiamo fare
mentre siamo ancora in forze
non cederemo al male…
La mia magia. La mia magia.

*

XL

Neghiamo
Dio.
Ma
non osiamo
andare
nudi.
Sordi,
ciechi,
nell’attardarsi
del tempo
nel frutteto
tra le terre
udiamo
incessante
la voce
che ci chiama:
dove sei?
cos’hai fatto?

*

Com’è, dov’è

Si contemplano
si odorano
i fiori
per ricordarci
del fiore.

Il fiore.

Il fiore
dello spirito.
Chissà
com’è
dov’è?

*

Sentiero aperto

La pagina
è bianca
e
la calligrafia
la invade.

Ma
non posso
dire
di amare.

Un silenzio
redimerà domani
il rumore
dei miei passi.

*

Esistenza del lignaggio

Un cigno
invisibile
bacia
sempre
la mia mano.

Sa
che l’albero
esiste?
Sa
di esistere?
Il cigno
dice di sì
è nel sì.

Soltanto
nell’invisibile
davvero
dimoriamo.

H. A. Murena

Gruppo MAGOG