Nathaniel Hawthorne, a dire degli amici e a onore dei ritratti, era bello, aveva la fronte larga, i lineamenti armonici e gli occhi iniettati in qualche al di là. Nel 1840 alla “mia unicamente mia” Sophia Peabody, che sposerà due anni dopo, Hawthorne scrive della sua “stanza stregata”, a Salem, dove “ho scritto molti racconti”: “in essa migliaia e migliaia di visioni mi sono apparse; e alcune d’esse sono state mostrate al mondo”. Hawthorne è un visionario, uno scrittore ipnotizzato dal fatale, stregato. Il padre, capitano di lungo corso, era morto di febbre gialla, nel Suriname, nell’altro mondo, ‘Nat’ aveva quattro anni. Visse recluso, tra Salem e il Maine, con la madre in perpetuo deliquio, tra le sorelle: da qui, forse, la claustrofobia di certi racconti, l’estro febbrile, la truppa di spettri.
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Nella stessa lettera all’“amatissima” – scritta da Salem, alle 10.30 del 4 ottobre – Hawthorne accenna a racconti “ridotti in cenere”. Fu, pure lui, il piromane di se stesso. “Scoraggiato dal rifiuto e dal silenzio degli editori, brucia il manoscritto dei Seven Tales of My Native Land” (Vito Amoruso, nel ‘Meridiano’ Mondadori che ne raccoglie le Opere scelte). Aveva 21 anni. D’altronde, il primo romanzo, che pubblica di tasca sua, nel 1828, Fanshawe, fu stampato senza il nome dell’autore, che lo rinnegò, quasi subito, giudicandolo imperfetto – la moglie, l’angelicata Sophia, ne scoprì l’esistenza diversi anni dopo la morte di Hawthorne. L’ansia di perfezione, per altro, anima uno dei racconti più noti di Hawthorne, The Birth-Mark – tradotto ora come “La voglia” ora come “La mano purpurea”, senza tradurre l’ineluttabilità dell’originale. Aylmer è ossessionato dall’imperfezione sul viso della bellissima moglie, Georgiana: per eliminarla, ucciderà la donna. Ciò che è puro è innaturale, inseguire una articolata purezza seduce l’omicidio.
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Hawthorne morì scrivendo, in formule sempre più complesse, lasciando alcuni frammenti, Septimius Felton or the Elixir of Life, che esaltarono Elémire Zolla, ginnasta di ermetismi. Dalla vita – atteggiamento proprio di chi non ha il padre – desiderava due cose: dimostrare agli altri la propria grandezza e dimorare in un mondo suo, solitario, arduo. Nel 1850 ottenne il successo agognato con La lettera scarlatta, monolite dell’autentica letteratura ‘americana’. L’amicizia con Franklin Pierce, che risaliva agli anni della scuola, democratico, quattordicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, gli consentì prima uno stipendio fisso alle dogane di Salem, poi il posto da console a Liverpool.
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La grandezza di Hawthorne è indiscussa: spesso più che leggerlo lo vediamo tradotto in film diversamente imbarazzanti, eppure, in Italia, lo hanno cullato fior di traduttori (da Aldo Busi a Enrico Terrinoni, da Flavio Santi a Giulio De Angelis e Carmen Covito). Hawthorne piaceva anche a Montale, che ha tradotto – per una edizione Bompiani – Wakefield. Montale non è un buon traduttore dall’inglese, ma Wakefield è un capolavoro: “Hawthorne non è affatto cupo, è sorprendente come Kafka, Borges, Calvino”, ha scritto Harold Bloom commentando quel racconto. Nel primo paragrafo, Hawthorne ci dà tutti i dettagli della vicenda, retta dal caso: a Londra, un uomo, “chiamiamolo Wakefield”, dice alla moglie che deve uscire per una commissione, tornerà a casa dopo vent’anni. In quel tempo, preda dell’assurdo, “prese alloggio nella strada parallela a quella di casa sua”. Il finale – paradossale anch’esso, come la storia di cui è l’approdo – è eccelso: “Nell’apparente confusione del nostro misterioso mondo, gli individui sono così opportunamente adattati a un sistema, e i sistemi adeguati uno all’altro e a un tutto, che mettersi in disparte per un attimo ci si espone alla temibile eventualità di perdere il proprio posto per sempre. Al pari di Wakefield, c’è il rischio di diventare, per così dire, il Reietto dell’Universo”.
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Nella sua esegesi di Hawthorne, Harold Bloom dice un paio di cose interessanti. Che “il genio narrativo di NH ha una fama lontana dall’attualità” e che “confonde le aspettative”. Hawthorne ha galvanizzato il talento di Melville – che a lui dedica Moby Dick e lo studio Hawthorne and His Mosses – ha ispirato Henry James – che su ‘Nat’ scrive un saggio, in catalogo Marietti – era apprezzato pure da Edgar Allan Poe, per certi versi suo gemello opposto: “Lo stile di Hawthorne è purezza. Il suo tono è singolarmente efficace: selvaggio, patetico, riflessivo… è uno dei pochi uomini di genio partoriti dal nostro Paese”. Eppure, non mi pare che la sua fama, oggi, sia pari a quella di Melville o Poe. Hawthorne è labirintico ed elusivo, i suoi racconti, spesso, ci lasciano con un fantasma appeso alla schiena, privi di approdi, di una morale, è pura immaginazione, un esercito plasmato nel vetro.
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In Altre inquisizioni Jorge Luis Borges dedica alcune pagine a Hawthorne – risalgono a una conferenza del 1949 – e lo descrive con una frase che ci manda a Melville: “Aveva un’andatura oscillante di uomo di mare”. Secondo Borges, Hawthorne è un precursore di Kafka. Il suo testo – come sempre, compiaciuto – è pieno di intuizioni, ricalco questa: “Il passato è indistruttibile; prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato”.
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Ciò che mi sembra più emblematico di Hawthorne, più bello, sono le idee abbandonate, i lacerti di racconto, le ipotesi mai realizzate di romanzo. Di Hawthorne mi piacciono le macerie – o meglio, questa alba frammentata, questo mattino dedotto per spine. Il Diario – pubblicato da Neri Pozza nel 1959, a cura di Agostino Lombardo; riprodotto in parte nel ‘Meridiano’ Mondadori nella traduzione di Paolo Dilonardo – è una miniera per scrittori in cerca di soggetto, una gioia per il lettore che ama la sintesi, la violenza meridiana. Alcuni esempi. “A lungo una persona o una famiglia desiderano un determinato bene. Esso giunge infine in tale abbondanza da costituire il grande flagello della loro vita”; “Un serpente introdotto nello stomaco di un uomo e lì nutrito, dai quindici ai trentacinque anni, tra i suoi più atroci tormenti”; “Le varie spoglie sotto cui la Rovina s’accosta alle sue vittime: al mercante, sotto le spoglie d’un mercante che propone speculazioni; al giovane erede, come un festoso compagno; alla fanciulla, come un innamorato languido e sentimentale”. La facoltà immaginativa di Hawthorne è vorace: a volte è tralcio lirico (“Una persona che catturi lucciole e con esse cerchi di accendere il suo focolare. Potrebbe essere il simbolo di qualcosa”), altre un appunto spiritato (“Avere ghiaccio nel proprio sangue”); oppure è un groviglio morale ad attivare i sensi fantastici (“L’egoismo è una delle qualità atte a ispirare amore. Ci si potrebbe riflettere a lungo”).
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Sembra che Hawthorne abbia disseminato malie narrative per gli scrittori futuri. Sono centinaia. Forse dovremmo realizzarle, forse l’ipotesi di un creato è preferibile alla creazione. “Morto Hawthorne, gli altri scrittori ereditarono il suo compito di sognare”, scrive Borges. Hawthorne morì nel sonno, era il 1864 – anche questo ha un valore. (d.b.)