Resta l’ammissione della favola nera, l’onta, il gesto reciso, l’atroce. Nato nel 1904, presto orfano, Harry Martinson è affidato a istituti e a custodi. Ragazzo, scappa dalla campagna svedese, s’imbarca, attraversa il mondo: gli sono congeniali, tra i luoghi in cui approda, il Brasile e l’India. Pensa all’oceano come a un foglio bianco, alla nave come a un’iscrizione – percepisce che tutto è bibbia d’acque. L’asperità nordica è sgretolata dalla chiglia d’Oriente, dal rompighiaccio del Sud. Il ritorno in Svezia non è facile: Martinson è un paria, un niente, postula impieghi, vagabonda nei campi, spesso lo arrestano. L’approdo alla poesia è quasi un’intimidazione, la via del sofferente, o meglio, del corsaro: l’esordio, nel 1929, gli sorride. Martinson dilata la poesia svedese a sguardi ampi, frugali, immaginifici; un altro mondo, più vivo, inquieto, entra nei salotti di Stoccolma:
La tenda, la vela, il bianco cielo
e l’uva pallida del tuo seno;
con queste visioni divenni conquistatore,
condussi i carri tra polvere e frastuono
di ruote secche come ossa
verso la raggiante Tebe,
verso la cupa Trondheim;
là predicammo la fortuna nelle tazze di porcellana
là leggemmo la mano
insolenti e assenti
mentre la sera le nostre anime viaggiavano fra gli antipodi.
Alcuni romanzi sancirono il riscatto di Martinson che nel 1949, pur fautore, come si diceva, di una letteratura ‘proletaria’, viene eletto tra i membri dell’Accademia di Svezia. Nel 1956 pubblica l’opera più estrema e complessa, Aniara, un’“odissea nello spazio” – così il sottotitolo della traduzione italiana, a cura di Maria Cristina Lombardi per Libri Scheiwiller, 2005, ora introvabile –, poema cosmico che oscilla tra le Argonautiche e il Kalevala, l’antico poema finnico, in cui, in 103 canti in forma chiusa, difforme, si narra la deriva di una nave spaziale – “Aniara”, appunto – espulsa dal sistema solare: in seguito alla distruzione della Terra, avrebbe dovuto colonizzare Marte.
Il poema scaraventò Martinson nella galassia dei grandi lirici del tempo: nel mondo inglese fu tradotto da un poeta eccezionale, Hugh MacDiarmid, nel 1963; secondo Theodore Sturgeon, il grande scrittore di fantascienza, “il genio di Martinson è nel redigere la nostalgia inesprimibile, l’incommensurabile… egli ci lascia nella quiete delle immensità, preda di una forza impersonale più vasta di Dio”. Il poema ha bagliori da Star Wars, l’idea di istoriare Gilgamesh su pietra di luna:
“Signora del mondo, mirabile foglia d’oro
sul ramo strappato per i nobili Yedi,
forma eccelsa, capelli divisi:
blu a sinistra, a destra neri
con uno splendido pettine di pietra
rara agata di fuoco di Yabian
pettinatura affine al rito, di quella
donna che dal suo palanchino, un tempo,
presso le pianure di Geining, sul mare di Setokaidi,
ammirava la luna, pari a una lanterna esatta
che gocciola bagliori sulla sazietà di autunno.Ritrovo queste donne
mentre smisto frammenti di Mima
li ascolto nel delta della solitudine.
Meraviglia degli occhi di Yedis
lingua appena sussurratameraviglia degli occhi di Yedis
lingua sussurrata sul mare di Setokaidi.Ma Mima non è più con noi
e il nostro Superiore è morto.Non me ne capacito. Nulla ha senso.
La dea è morta di dolore. L’abbiamo condannata”.
Antimoderno, ostile alle spire del progresso inarginabile, Martinson difese le ragioni della poesia “regionale”, particolare, di parte, e delle lingue marginali, contro “l’internazionalizzazione del linguaggio”:
“Turismo, film, televisione e altre possibilità di reciproca comprensione diminuiranno l’efficacia di tutte le lingue. Le immagini e l’immediato contatto con la realtà favorito dai viaggi che spongono l’uomo sempre più lontano, ridurranno le lingue a un mezzo secondario di comunicazione”.
La poesia, che ha l’autorevolezza di un viso e non di una massa messa in fila, che non ha ambizioni da multinazionale, garantisce la sopravvivenza di uno spazio privato, di una pieve, piccola e perciò reale, salva. In un saggio pubblicato nel 1996 su un numero speciale di “Poesia”, Le regioni della poesia, Martinson dice, tra l’altro:
“Come poeta e scrittore non ho un programma, in quanto è già abbastanza difficile essere uomo in un tempo come il nostro, un tempo in cui d’altronde non mi sento più a mio agio. Ma v’è qualcosa che amo: il mare, l’oceano, in ogni sua espressione e le stelle – infatti l’astronomia è uno dei miei grandi interessi. E mare e stelle cerco di riunire in me in una sorta di navigazione spirituale, quasi una legge superiore che liberi dal nichilismo e dalle simulazioni. Ma ciò non significa che io rifugga dagli uomini: li accetto così come sono, alienati e troppo diversi fra di loro, perché possano ancora illudermi”.
Mare e stelle, la nuova nascita e la ricerca di ascendenze peculiari al discepolo: Harry Martinson, speleologo di solitudini atlantiche, restò sempre un orfano. In Italia la sua poesia, di altri mondi, non riuscì ad attecchire: l’unica raccolta organica, Le erbe nella Thule, uscì nel 1975, nella ‘bianca’ Einaudi, per la cura di Giacomo Oreglia. La poesia in copertina è più bella di troppi latrati odierni, vale la pena ricalcarla:
“Al largo sul mare una primavera
o un’estate si sentono soltanto come un soffio di vento.
L’aliga natante della Florida fiorisce talvolta d’estate
e in una sera di primavera
una cicogna vola verso l’Olanda”.
Vi si riconoscono le ‘fonti’ remote di Martinson: l’amore per lirica cinese Tang e per la poesia dell’antico Egitto.
Harry Martinson arrivò in Italia in seguito al Nobel per la letteratura, ottenuto nel 1974 insieme al romanziere Eyvind Johnson, tra l’altro traduttore di Sartre (che il Nobel aveva rifiutato, a suo tempo). Tra i competitori, spiccavano Vladimir Nabokov, l’eterno Graham Greene, Jorge Luis Borges, Saul Bellow (che il Nobel avrebbe conquistato nel ’76). Ne scaturì una polemica globale: l’Accademia di Svezia, infatti, aveva scelto di premiare due suoi rappresentanti. In un mondo in cui la reputazione è tutto e la vergogna ovunque, l’esito fu brutale: Eyvind Johnson, alienato dal consesso letterario, morì nell’agosto del 1976; Martinson precipitò in una lenta follia: si uccise l’11 febbraio del 1978, nell’ospedale di Stoccolma in cui era internato, squarciandosi il petto con un paio di forbici. “Ma la poesia sopravvivrà… è e sarà sempre intraducibile…”, aveva detto, quasi che l’intraducibilità fosse una forma di salvezza, l’amare.
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Dopo
Dopo la battaglia di Helgoland
e dopo la battaglia di Utshima
il mare dissolveva i cadaveri sparsi come tronchi alla deriva.
Li preparava coi suoi acidi segreti.
Lasciava agli albatri divorare i loro occhi.
E con sali dissolventi li riconduceva
lentamente verso il mare –
verso le rigeneranti acque cambriane,
verso un nuovo tentativo.
*
Canzone sulla Carelia (da Aniara)
Il tempo passava e gli anni volavano nel freddo e aspro spazio.
La vita sempre più diventava fuori del tempo per la maggior parte di coloro
che stavano esplorando dalle ampie finestre, in attesa che qualche stella
crescesse più delle altre, si avvicinasse venisse vicino.
I bambini crescevano e giocavano nelle tundre dei rinchiusi,
sui logori pavimenti della sala da ballo sempre più scabrosi e raschiati.
Tempi nuovi costumi nuovi. Lo yurg era da tempo dimenticato
e Daisi l’inebriata dalla danza dormiva per sempre nella sua conchiglia
in quell’arca dove solo e unicamente le campionesse di danza dormono.
Ma io stesso me ne stavo silenzioso e pensavo alla splendida Carelia,
dove una volta ho vissuto, dove ho indugiato per tutta una vita,
soggiornato più di trenta inverni e ventinove estati
prima di poter nuovamente sperimentare altri paesi, altri destini
nel lento vagabondare della mia anima.
I ricordi ritornano come bagliori. Qui nello spazio non esiste impedimento,
tutti i tempi s’irradiano insieme. E io ricordo da differenti reami
schegge del mio lungo vagabondare.
Più bello fra i bei bagliori appare però il baluginare della Carelia,
come un bagliore d’acqua fra gli alberi, come una schiarita acqua estiva
nel luminoso tempo di giugno quando la sera appena arriva ad offuscarsi
prima che il cuculo chiaro come un flauto di legno gridi alla dolce Aino
di prendere con sé il velo della nebbia, alzarsi dall’acqua di giugno
andare incontro al fumo che si è alzato, raggiungere il cuculo gioioso
nella frusciante Carelia.
Harry Martinson
*traduzione di Giacomo Oreglia