I primi 50 anni de “I giardini di marzo”. Esegesi brutale
Musica
Michele Nigro
Ho avuto modo recentemente di fare un confronto “a caldo” tra un più o meno famoso romanzo di fantascienza e la sua riduzione cinematografica: trattasi di “Largo! Largo!” dell’autore statunitense Harry Harrison (titolo originale: “Make room! Make room!” del 1966) e del film, con Charlton Heston, “2022: i sopravvissuti“ (titolo originale: “Soylent Green” del 1973). Mai come in questo caso mi sento di affermare che “il film ha salvato il racconto!”. Infatti, profonde e significative sono le differenze e le omissioni tra i due prodotti; variazioni che – ma è un mio personalissimo e quindi discutibile parere – premiano di gran lunga la trasposizione filmica, secondo me più ricca di elementi di discussione e dotata di obiettivi ben definiti. O, forse, questo è quel che accade a chi legge una storia dopo averne assimilato l’immaginario attraverso la sua traduzione su pellicola. Fatto sta che, alla fine del romanzo, inevitabilmente si resta a bocca asciutta ripensando alle sequenze del film, come se si attendesse un seguito narrativo che non arriverà mai. In questo caso parlare di “riduzione” cinematografica è riduttivo (perdonate il gioco di parole!): grazie al film diretto da Richard Fleischer la storia raccontata su carta da Harrison viene ampliata, arricchita, sviluppata come avrebbe meritato, oserei dire migliorata; i messaggi scientifici e fantascientifici del romanzo giungono a maturazione, si completano in maniera organica e acquisiscono una funzionalità che ha un senso compiuto.
In confronto al film, nel romanzo molti punti a mio avviso nevralgici sono semplicemente assenti, quando non addirittura stravolti: “Sol”, l’anziano coinquilino del protagonista Andy Rusch, muore di polmonite nel letto di casa, mentre nel film – scoperto il terribile segreto legato al Soylent Green – sceglie di suicidarsi presso il Tempio come previsto e consentito da una legge di Stato. La scena del suicidio assistito del vecchio Solomon Kahn (nel film si chiama “Sol” Roth), da sola, vale quanto l’intero film: l’intensità del momento è sottolineata da un felice connubio tra musica classica e immagini commuoventi tratte da un mondo naturale ormai estinto a causa delle scelte distruttive dell’essere umano. Alla base di questa “scelta legalizzata” di morte vi è indirettamente il gravoso problema della sovrappopolazione; l’esclamazione “largo! largo!” contenuta nel titolo italiano del romanzo esprime tutta l’urgenza della ricerca di un nuovo “spazio vitale” di nazistica memoria, stavolta ottenuto in maniera volontaria, pacifica e senza occupare altri territori, disumanamente spontanea, come dignitosa scelta esistenziale dell’individuo introdotta sul “libero mercato” di una vita che non è più vita. Un atto finale di generosità nei confronti di un’umanità accalcata: mettersi da parte, “fare spazio”, consegnarsi nelle mani dello Stato per farsi fuori, senza traumi, dolcemente, legalmente, assistiti con cura e amore fino all’ultimo respiro, tra il plauso dei governanti che sentitamente ringraziano. È quasi impossibile non cogliere un’analogia con le recenti evoluzioni legislative in materia di “suicidio assistito”: nel nostro presente, però, i moventi sono la pietas nei confronti di malati psicofisici considerati inguaribili dalla medicina e il conseguente diritto a una sacrosanta autodeterminazione esistenziale che esula da qualsivoglia “capriccio suicidario”. Restano, tuttavia, innumerevoli domande sul futuro evolutivo di una simile “apertura”, sulle possibili errate reinterpretazioni legislative che potrebbero verificarsi e che porterebbero inevitabilmente a un “alleggerimento” delle motivazioni e delle modalità applicative di questa “exit strategy” esistenziale.
Nel romanzo di Harrison il problema della sovrappopolazione è ovviamente presente ed è descritto con pagine meritevoli di attenzione: si accenna a una possibile risoluzione della questione mondiale, oltre che americana, citando una non ben definita legge (ancora in fase di approvazione presso il legislatore, stando al racconto) che consentirebbe di controllare, impedendole in un certo qual modo, le nascite tra la popolazione. Niente Templi, non-luoghi escatologici inventati da Hollywood per rinforzare il “debole” storytelling di Harrison, in cui andare a finire la propria vita; niente colori preferiti e musiche da scegliere per il trapasso; niente bevande eutanasiche di socratica memoria: a differenza del film, nel romanzo la risoluzione del problema è oziosa, lontanissima, utopistica; la popolazione è immersa nella propria difficile condizione sociale ed economica senza nemmeno il controverso “conforto” di scoprire un complotto consumistico ordito alle proprie spalle.
Nel romanzo, infatti, non c’è traccia del famigerato Soylent Green “fatto con i morti”: infelice traduzione, nella versione filmica italiana, dall’originale “Soylent Green is the people!”, che suona quasi come un motto rivoluzionario, se non fosse per i suoi risvolti macabri tenuti ben nascosti all’opinione pubblica, ma alla fine svelati dal Detective Thorn (il poliziotto Andy Rusch del libro). Nel libro c’è un Soylent che rappresenta l’ambito “alimento base” di una popolazione numerosa e sempre più affamata, ma nel romanzo non si arriva a osare così tanto come nel film pensando a un riciclo dei cadaveri (tra cui il corpo del vecchio Solomon, fresco suicida) per farne cibo su scala industriale e sopperire così alle carenze di rifornimento alimentare.
Nel film, a differenza del romanzo, non c’è alcuna indagine su un giovane cinese che, colto sul fatto durante un furto domestico, per autodifesa uccide il ricco malavitoso Big Mike: nel film quest’ultimo è sostituito da William Simonson, un facoltoso membro del consiglio di amministrazione della Soylent, assassinato da un balordo assoldato perché a conoscenza dello “scandaloso” segreto sulla reale composizione del Soylent Green e in procinto, forse, spinto dai sensi di colpa, di rivelare tutto al mondo. Una sola cosa hanno in comune Big Mike e Simonson: la bella Shirl, ragazza “in dotazione” al lussuoso appartamento dove vivono entrambi i personaggi del libro e del film; una sorta di “escort” in tempi distopici che non disdegnerà le attenzioni carnali ma sincere (e quindi non “retribuite”) del poliziotto Andy Rusch/Detective Thorn. Nel film Shirl non va a vivere con Thorn; nel libro, invece, la ragazza tenterà per un certo lasso di tempo di vivere in maniera meno agiata al fianco di Andy Rusch che nutre per lei sentimenti non mercificabili: alla fine, però, prevarrà il “richiamo della foresta” e di una vita “facile” in qualità di donna in vendita all’ombra di personaggi ricchi e potenti che possono assicurarle cibo, vestiti e comodità. Shirl lascia Andy, il quale tornerà al suo logorante, e per certi versi inutile, lavoro di poliziotto in una città – New York – ormai sull’orlo del disastro, sovrappopolata, inquinata, apocalittica e irrimediabilmente perduta.
Regista e sceneggiatore, partendo da un involucro scritturale incompleto ma valido, hanno decisamente migliorato il soggetto di Harrison, la cui storia è slegata, priva di un fine preciso, fatta di sotto-storie che non s’intersecano come dovrebbero, isolata in pagine di indubbia qualità descrittiva ma che sembrerebbe non condurre in alcun luogo narrativo finale. L’atmosfera malinconica e socialmente esasperata del romanzo, ben riprodotta nel film, è fine a se stessa, chiusa in camere stagne, e quindi non comunicanti: troppe pagine “sprecate” intorno a un’indagine, quella sull’omicidio di Big Mike, che non porta a nulla, e che di fatto non serve a nulla se non a finalizzare l’incontro tra Shirl e Andy e a descrivere la vita scellerata del giovane cinese Billy Chung; nel film, almeno, l’omicidio di Simonson rientra nel meccanismo narrativo dietro cui si muove il segreto del Soylent Green.
Il film conserva le scene delle sommosse popolari riportate nel romanzo, fondamentali per descrivere l’instabilità sociale imperante. Ma pregio del libro è soprattutto l’aver creato in maniera soddisfacente una giusta atmosfera pre-apocalittica da fin de siècle: se nel film l’anno riportato è il nostro 2022, nella storia di Harrison l’anno in questione è il 1999, che noi tutti ricordiamo per quella sensazione di attesa (in stile Anno Mille!) per una “fine del mondo” mai realizzatasi, o almeno per un “Millennium bug” anch’esso decisamente sopravvalutato. A volte c’è più potenza profetica nell’attesa che nel disvelarsi degli eventi stessi. Harrison non è stato il solo autore (insieme a un nutrito gruppo di registi) a fantasticare sul fatidico passaggio 1999/2000 e a sovrastimarne la portata storica. C’era molta aspettativa intorno al numero, per poi accorgerci che gli eventi determinanti sarebbero stati spostati avanti nel tempo, oltre l’anno 2000: l’attacco alle Torri Gemelle di New York, le conseguenti guerre, la pandemia di questi anni, le crisi economiche… Una lenta fine del mondo in differita, durante la quale restiamo immobili, non sapendo dove altro andare. Proprio come i personaggi del romanzo di Harrison che, nonostante lo sfacelo, restano “attaccati” al destino di una metropoli moribonda. Tuttavia nel romanzo “Largo! Largo!”, il cui monito ecologico ed ecologista è saldamente presente, la fine del mondo è tangibile e non solo immaginata: lenta ma non lontanissima, ammortizzata da una speranza insita nell’uomo che rasenta l’ingenuità. Al pari della rana immersa in un’acqua inizialmente fredda e che quindi non fornisce nell’immediato una sensazione di pericolosità (come nel caso di un’acqua bollente!), anche l’essere umano, maestro nell’adattarsi e quindi nell’abbracciare una letale assuefazione, continua a sperare in una svolta miracolosa prima del baratro. Il personaggio di “Sol” rappresenta la coscienza storica – meglio valorizzata nel film – di un’umanità assopita e che non possiede più nemmeno gli elementi basilari per compiere un confronto serio tra l’ieri e l’oggi. Ed è quando si dimentica il passato – il non averne idea sussurrato da Thorn – che inizia la vera e irreversibile fine del mondo: quando non si ha più un punto di riferimento per fare un paragone, non si può che navigare a vista, vivere alla giornata, tra le nebbie dell’inconsapevolezza, in attesa del naufragio definitivo.
Michele Nigro