24 Giugno 2020

Sesso, droga, sangue: l’incredibile vita di Harry Crosby, “un caos selvaggio”

Era sedotto dalla morte, dal diktat – erotico, per altro – per cui amore è morte – e lo praticò. Aveva compiuto 31 anni qualche mese prima, gli parve che arrivare a 33 fosse troppo, schifava l’armonia evangelica, sul diario aveva appuntato la sua massima, “Non si è innamorati a meno che non si desideri morire con la propria amata”. Era il 10 dicembre del 1929, l’amico Hart Crane lo aspettava per leggergli alcuni brani di The Bridge, quel poema immenso, finalmente compiuto, in un caffè di New York. Insieme a Crane c’era la moglie dell’amico, Mary Phelps, detta “Caresse”, d’impressionante eleganza, come sempre, con levriero al seguito – perché tra maschio e cane la differenza è infima. Lei e il marito, il funambolico Harry Crosby, erano tornati negli Stati Uniti venti giorni prima: lui l’aveva impalmata nel 1922, l’anno in cui T.S. Eliot, amico e un poco leccapiedi, mandava in stampa La terra desolata. Mary era sposata, con due figli appresso, il divorzio fece chiasso; Harry le aveva scritto, specie di Romeo arso dalla coca, “Ti prometto che ogni volta che vorrai moriremo insieme, sono pronto, ora e in qualsiasi momento. Saremo Uno in Paradiso, per sempre, non appena moriremo”. Le cose mutarono, l’amore è un incendio che prima o poi scema, Harry era effettivamente bello, ricco, ricchissimo – lo zio era il facoltoso finanziere J.P. Morgan – e pieno di voglie. Morì, in effetti, per amore. Ma era innamorato di un’altra.

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Harry Crosby è un personaggio affascinante per eccesso di vuoto: voleva essere Rimbaud, fu qualcosa di simile a Gatsby, un fuoco d’artificio nella notte stellata dei magnifici Venti. “Ha il dono magnifico dell’indifferenza”, disse di lui Ernest Hemingway: era il suo compagno prediletto durante le sortite a Pamplona. Più esoterica la definizione di David H. Lawrence: “Uno squarcio di caos, vivente, bulicante, selvaggio”. Tutti lo desideravano, o meglio, anelavano al carisma dei suoi soldi. Con l’anello al collo – pardon, al dito – s’imbarcò con la moglie, la smaliziata “Caresse”, per Parigi. Abitò un po’ a Montparnasse, organizzava orge condite con droga, sfidava la morte giocando alla roulette russa. Nel 1924 decise di trasferirsi nella dimora della principessa Marthe Bibesco, in Saint-German: come si sa, nel suo salotto si abbeveravano un po’ tutti, da Proust a Valéry, da Rilke a Cocteau e Mauriac. L’affitto gli costava caro, fece la fatica di spedire un telegramma al papi, “Prego inviare senza indugi 10mila dollari. Abbiamo deciso di vivere una vita folle e stravagante. Stop”.

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Benché sembri una figura lunare, l’incarnazione sovversiva del fato, l’icona brutale per cui tutto equivale a niente, si credeva un demone meridiano: “Crosby era posseduto dall’adorazione del Sole, dell’oppio, del pericolo, dal genio dei gesti stravaganti, dalla mania sessuale, dalla sensualità del suicidio” (così Ben Mazer in un ritratto pubblicato su “Literary Hub”, The Poet-Publisher Who Scorned Death by Pursuing It). In realtà, lo scempio di sé ha origine nel sangue. Figlio dell’altissima aristocrazia di Boston, a 19 anni, nel 1917, Crosby si arruola volontario in Francia a guidare ambulanze. Si fa Verdun, vede la morte, è sopraffatto dalla mutilazione. “Ho assistito allo spettacolo più raccapricciante che possa capitare di vedere a un uomo”, scrive ai famigliari. “Un uomo, sdraiato sulla barella, non più di vent’anni, che urlava. Il lato destro del viso completamente strappato da un’esplosione, di modo che potevo vederne le parti interne. Non gli erano rimaste che la mascella, i denti, pezzi di labbra. Il naso era piallato. Il sangue ovunque”. Una bomba rischia di fare esplodere anche lui – salta via, resiste, immacolato. Da allora Crosby si crede immortale, comincia a giocare con la morte. Per altro, si rende protagonista di gesti di acuto eroismo: tra il 23 e il 25 agosto del 1918, nei pressi di Orme, la sua sezione salva più di duemila feriti inguaiati da un bombardamento tedesco. Nel 1919 è uno dei più giovani soldati americani a essere insignito della “Croix de Guerre”. A questo punto, o dai alla vita valore d’amuleto o la disintegri. Dieci anni dopo aver ricevuto la medaglia, Crosby si ammazza.

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Esteta della vita totale, del verbo come precipizio e del prepuzio come logos, nel 1927 Harry Crosby avvia una impresa editoriale. “Caresse” la vuole chiamare Éditions Narcisse; Crosby opterà, in dedizione agli dei solari, per Black Sun Press. L’idea è semplice: pochissimi esemplari di libri esemplari. Insomma, una gang bang editoriale. I libri sono effettivamente fatali: dopo i ‘padri’, per così dire (Edgar Allan Poe e Oscar Wilde), vengono pubblicati i grandi della “Lost Generation”, D.H. Lawrence, Ernest Hemingway, William Faulkner, T.S. Eliot. Nel 1929 la casa editrice di Crosby pubblica come Tales Told of Shem and Shaun un frammento del Finnegans Wake di Joyce; nel 1930 sono pubbliche alcune lettere di Marcel Proust, altre di Ezra Pound, The Bridge di Hart Crane. Memorabili le edizioni di Alice nel Paese delle Meraviglie con le litografie di Marie Laurencin e Le relazioni pericolose di Laclos illustrate da Alastair. Lo stesso Alastair – pseudonimo per Hans Henning Otto Harry Baron von Voigt, nobile tedesco dedito all’arte – illustra l’opera più importante di Crosby, Transit of Venus: un uomo, in ginocchio, con le mani legate, in frak, è prigioniero nella bocca enorme di una donna-vampiro. Il testo è introdotto dal solito – e un poco ovvio – Eliot, che scrive parole alate, fumose: “Nessuna stravaganza di un poeta genuino può andare oltre i limiti di un intelletto ordinario, come i postulati della Chiesa. E il poeta che teme di correre il rischio che ciò che scrive non sia poesia, è un uomo che ha fallito, che avrebbe dovuto indossare una vocazione meno avventurosa”. Questo testo, comunque, è il cuore dei Selected Poems di Harry Crosby appena editi da MadHat Press – naturalmente, di Crosby, poeta sfrontato, obliquo, opalescente, in Italia c’è niente.

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Il 9 luglio del 1928 Crosby aveva incontrato a Venezia Josephine Noyes Rotch. Ventenne, perlacea bellezza, anch’essa parto dell’alta aristocrazia bostoniana, Crosby la ribattezzo “Fire Princess”. Stava con lei, Crosby, appena approdato negli Stati Uniti. Aveva mollato “Caresse” allo sciabordio delle amicizie comuni – Malcolm Cowley, William Carlos Williams, E.E. Cummings – per infognarsi con Josephine in un albergo di lusso, a Detroit. Quattro giorni da reclusi: si facevano portare il pranzo in camera, si drogavano, famelici di sesso. Il 7 dicembre, insieme, tornarono a New York – Josephine doveva partire per Boston con il marito, ampiamente cornificato. Due giorni dopo invia un biglietto a Crosby: “La morte è il nostro matrimonio”. Lui capisce tutto, pretende la sua principessa di fuoco, si serrano al Savoy-Plaza Hotel. È il 10 dicembre. Lei si spara alla tempia sinistra, lui alla destra – si tengono per mano. I giornali ne discuteranno per mesi. “Caresse” non vuole vedere il corpo turbato del marito; non vuole credere che abbia preferito morire con l’altra. Archibald MacLeish, poeta che avrà una carriera impeccabile – tre Pulitzer, direttore della Library of Congress, assistente al Segretario di Stato durante la presidenza F.D. Roosevelt – fece gli onori mortuari. Diede, del fatto, una descrizione aggraziata: “Sedevo a guardare il suo cadavere, l’orribile buco dietro l’orecchio, stupido, dannato bastardo, continuavo a dirgli. Era l’uomo più intriso di letteratura che abbia mai conosciuto, benché non fosse diventato propriamente uno scrittore. Era annegato nella letteratura. Ciò mi fa supporre che la letteratura è la sola cosa che non dovrei prendere sul serio…”.

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“Caresse” Crosby si risposò nel 1937 per divorziare due anni dopo, ebbe una relazione con Cartier-Bresson, fu tampinata da Henry Miller. Tra il 1945 e il 1947 pubblicò la rivista “intercontinentale” Portfolio: vi pubblicarono, tra gli altri, Moravia e Vittorini; da lì emerse un tipo di nome Charles Bukowski. Morì a Roma, molto dopo, il 24 gennaio del 1970: il “Time” la ricordò come “la madrina della Lost Generation e degli scrittori espatriati a Parigi”. Come se la sua vita fosse congelata laggiù, quarant’anni prima, come se lei non fosse che un cammeo, un profilo inciso sul corallo. (d.b.)

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