Primi del Novecento. Un pittore di Zurigo, figlio di uno scultore d’opere d’arte funeraria, cresciuto artisticamente a Monaco di Baviera, si aggira, in pieno inverno, nel parco di Nymphenburg. Ha le manopole alle mani. Dipinge ciò che nessuno vuole dipingere; dipinge quando nessuno si sogna di dipingere. “Ha fatto del quadro invernale, del simbolo della nostra esistenza che con la luce del sole e l’atmosfera glaciale diventa una parabola della vita che sfiorisce, una specialità della sua arte”, scrive di lui Georg Biermann, nel 1909. Questo pittore è Fritz Osswald. Il gelo dona una particolare fermezza al suo braccio. Osswald è un pittore ossessionato dal bianco – dipinge ossessivamente montagne innevate. Ricostruisce l’estremo Nord in un parco di Monaco di Baviera, vuole carpire il segreto del bianco. Infine, la neve gli prosciuga la vita. Nel 1914 Fritz Osswald appare tra gli artisti di Darmstadt, la colonia utopica costituita da Ernst Ludwig di Assia, con l’intento – tipico dell’epoca – di fondere istinto artistico a impeto etico. Nel 1909, comunque, Osswald è un divo della pittura: Wilhelm Michel (autore di importanti studi su Rainer Maria Rilke e su Friedrich Hölderlin) recensisce “il grande successo dei suoi paesaggi innevati” (Deutsche Kunst und Dekoration). Finirà, nel coacervo delle avanguardie, in fuga, misconosciuto – muore nel 1966, ai paesaggi montani, madidi di neve, aveva sostituito quadri borghesi, con fiori dai colori accesi, carnivori.
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Il Nord, prima di tutto, è una invenzione della mente. Eric Ravilious (1903-1942) “tennista piacente, trascorse il decennio dipingendo paesaggi disabitati, molto inglesi, con allusioni a presente e infiltrazioni spettrali”. La Seconda guerra lo porta verso avamposti islandesi – lì resta folgorato. Il Nord diventa l’ambiente ideale della sua opera – è suggestionato dai ghiacci, dal clangore dell’oceano artico. “Era una gran cosa entrare nel Circolo Artico con la luce del sole che splendeva di notte e le sterne artiche in volo attorno alla nave… è strano non vedere la terra, le donne o l’oscurità tanto a lungo. È come un’esistenza ultraterrena”, scrive in una lettera. Nel settembre del 1942 l’areo su cui viaggia scompare al largo d’Islanda – il bianco affascina, seduce e uccide.
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Il Nord è una necessità dello spirito, è una idea. The Idea of North è un disco di Glenn Gould del 1967: “Sono stato affascinato a lungo da quell’incredibile arazzo di tundra e di taiga che costituisce l’Artico del mio paese, il Canada… il Nord è rimasto per me un posto dove sognare, dove costruire miti, che ti invita a evitare altro”. Il Nord è il deserto bianco, la quarantena dall’umanità, il luogo dove trovare Dio o dove fuggire uccidendo tutti gli dèi. Artico e Antartico sono la Bibbia bianca, due poli della stessa ricerca: in calce al busto di Robert Falcon Scott, presso lo Scott Polar Research Institute di Cambridge, è scritto, Quaesivit Arcana Poli Videt Dei. “Cercava i segreti del polo per vedere le cose nascoste di Dio”. In realtà, Scott non credeva in Dio. “Scott l’agnostico ha percorso il deserto, è stata anacoreta dei ghiacci, ma non ha mai incontrato la divinità che domina quei territori”, scrive Filippo Tuena, esegeta dell’avventura antartica di Scott. La sfida al bianco, in sé, di per sé, è sacra.
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“C’era quel soffio di irrealtà che così bene si addice a un paesaggio artico”, scrive Knud Rasmussen, impavido esploratore nato nella Groenlandia danese che dai primi del Novecento, con impeto pionieristico, esplorò le regioni artiche per raccogliere ciò che restava dei miti eschimesi. Irrealtà si gemella a ultraterreno: l’Artico, il bianco, il polo, l’etica del Nord, ti porta altrove, nell’oltre, nell’irreale. Il bianco è indicibile, il bianco ubriaca, è il colore della santità – ma anche della follia. In uno dei suoi viaggi, Rasmussen incontra Aua, che custodisce la sapienza degli sciamani. “Ogni vero sciamano dev’essere in grado di percepire una luce nel proprio corpo, nella testa o nel cervello, qualcosa di simile a un fuoco luminoso che gli dà la facoltà di vedere cose nascoste, di vedere a occhi chiusi nell’oscurità o nel futuro o nei segreti degli altri. Sentivo di possedere questa meravigliosa capacità”, dice Aua all’esploratore. Agli occhi dello sciamano, il mondo è uno sciame di spiriti in lotta: egli deve placarli e ingraziarsi il loro favore. In uno dei brani più poetici, si racconta di come lo sciamano sappia avvicinarsi alla divinità marina, a cui chiede di facilitare la pesca o di benedire una gravidanza: “I capelli le scendono sul viso e sugli occhi, sono spettinati e arruffati. Lo sciamano deve subito afferrarla per una spalla, girarle il volto verso la lampada, poi deve carezzarle i capelli, lisciarli premurosamente”.
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Lo sciamano conosce le parole che seducono gli spiriti, è poeta, sa lo stigma magico dei verbi. Petrarca racconta il Nord nel Canzoniere (“Una parte del mondo è che si giace/ mai sempre in ghiaccio et in gelate nevi/ tutta lontana dal camin del sole”), è affascinato dal mito della “famosa e incognita Thule, agli estremi confini dell’Iperboreo mondo” (come scrive in una delle Familiari, ad Andrea Dandalo). Nella ‘Familiare’ scritta a Tommaso di Messina, nel 1337, Petrarca si finge “Sul luogo ove fosse l’isola di Thule”. Nella lettera il poeta riassume, dall’antichità in poi, i tentativi di localizzare l’isola dove “d’inverno non nasce mai il sole e per ghiaccio indurito è il mare”. “Chiedi il resto a chi è più dotto di me”, sentenzia Petrarca: “io cui negato è ficcare più addentro lo sguardo e discoprire siffatti arcani, sarò contento se riesca a conoscer me stesso”. L’ultima Thule, in realtà, cioè l’estremo Nord, è lo spazio d’innocenza dove l’uomo, nudo, denudato dal gelo, conosce se stesso.
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Gli Iperborei, gli uomini dell’estremo Nord, sono conosciuti dai greci. “Si gloriano delle loro lunghe chiome fluttuanti”, scrive Tzetze, “hanno gli occhi nelle stelle e l’anima nel mare”, scrive lo Pseudo-Longino. Ciò che attrae i greci è la facoltà sciamanica di queste popolazioni, come ha spiegato Giorgio Colli: “di essi non interessano soltanto le parole e la mediata espressione poetica, ma anche e soprattutto l’azione magica e le eccezionali doti concesse dal dio. È l’invasamento che li rende capaci di tanto… un uscire fuori di sé, l’anima abbandona il corpo e rimasta libera va all’esterno”. Parola che si abbarbica al silenzio, addestramento perfezionato tra i ghiacci. L’anima a Nord sguazza, corre.
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Il poeta si sintonizza con il Nord. Melville vedeva in Moby Dick una specie di iceberg ambulante, l’avatar di un dio bastardo, bestiale. Il bianco, scrive, non favoleggia purezza, figlia terrori. “L’universo paralizzato ci sta davanti come un lebbroso; e come il caparbio viaggiatore che in Lapponia si rifiuta di metter lenti colorate e coloranti sugli occhi, così il misero miscredente s’acceca fissando il monumentale sudario bianco che avvolge tutta la prospettiva intorno a lui. E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo. Ti meravigli dunque dell’ardore della caccia?”. Al Nord si trova la propria anima, la si preda.
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Ai miti islandesi, si sa, Jorge Luis Borges dedicò racconti e poesie. Quella forgiata per Snorri Sturluson, il compilatore medioevale dell’Edda, ha un incipit formidabile: “Tu che lasciasti una mitologia/ Di ghiaccio e fuoco al ricordo dei figli,/ Tu che fermasti in parole la gloria/ Della tua stirpe di acciaio e ardimento”. Al suo Viaggio in Islanda W.H. Auden dedica una complessa poesia del 1936. “Questa è un’isola, pertanto/ Irreale”, scrive il poeta usando lo stesso epiteto usato da Rasmussen. “E per tutti Nord vuol dire: Rinuncia!… E ovunque gli uccelli impazzano impettiti/ Vessato dal vessillo chi ama le isole/ Infine può vedere/ Fioca, la sua esigua speranza; e accostarsi al barbaglio/ Dei ghiacciai, alle immature sterili montagne intense/ Nel giorno anomalo di questo mondo”.
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Il viaggio al Nord, insomma, ci porta alla verità dell’anima, alla sua natura profonda. La natura dell’anima si esprime in poesia. Ne era certo Robert Graves, che nella Dea Bianca certifica come in altre epoche le civiltà – ad esempio, quella celtica – educassero i propri re, gli eroi e i sacerdoti alla dizione poetica. Conoscere la parola è ascendere. Il grado più elevato del sapere era la conoscenza della parola che riuscisse ad armonizzare l’uomo al cosmo, dacché “Un tempo la poesia serviva per ricordare all’uomo che doveva mantenersi in armonia con la famiglia delle creature viventi tra le quali era nato, mediante l’obbedienza ai desideri della padrona di casa; oggi ci ricorda che l’uomo ha ignorato l’avvertimento e ha messo sottosopra la casa con i cuoi capricciosi esperimenti filosofici, scientifici e industriali, attirando la rovina su se stesso e sulla sua famiglia”. In particolare, scrive Graves, “dall’incapacità di pensare in modo poetico – ossia di risolvere il discorso nelle sue immagini e nei suoi ritmi originali, per poi ricombinarli a più livelli di pensiero simultaneamente, ottenendo una molteplicità di significati – deriva l’incapacità di pensare con chiarezza in prosa. In prosa si pensa a un solo livello alla volta, e le combinazioni di parole non devono contenere più di un significato; tuttavia, per ottenere incisività, occorre che le immagini residenti nelle parole siano saldamente collegate”. Senza poesia non sappiamo comunicare tra gli uomini – non riconosciamo la tana degli dèi – non sappiamo rivolgersi a Dio – non possiamo immaginare cosa accada dopo la morte. Il bianco del Nord, allora, è un pallore turistico, non ha più il carisma di una sfida, il valore di una ustione di silenzio a cui sigillare il nostro addestramento, non è più l’alcova del mito, del canto, ma è un mortorio. O una zona come un’altra su cui esercitare atti di speculazione industriale. (d.b.)