“Assisto alle mute lotte degli squali”. Sia lode a Sbarbaro, il poeta che voleva diventare albero
Poesia
Valerio Ragazzini
Quando Wystan H. Auden lo andò a trovare, si sentì a disagio. Abitava in un borgo, fuori Stoccolma, la cui fondazione risaliva al X secolo. La casa gli parve troppo ricca, il poeta, invece, un poveraccio, con evidenti problemi di alcolismo – dalle finestre, stormiva l’odore articolato del Baltico. Fu – per usare un termine abusato – un non-incontro: i poeti si scambiarono cordialità; condividevano la passione per i mistici del Seicento, che sfociano nell’occultismo; parlarono di Emanuel Swedenborg.
Auden fu il più autorevole mediatore della poesia di Gunnar Ekelöf nel mondo inglese. Nel 1969 alcune poesie di Ekelöf, nella versione di Auden, furono pubblicate sulla “New York Review”; nel 1971 l’editore Pantheon Books stampò i Selected poems di Gunnar Ekelöf translated by W.H. Auden. Fu una scoperta, una sorpresa. Il poeta svedese, nato a Stoccolma nel 1907, non fece in tempo a gioirne: era morto tre anni prima, dopo una vita di folgorazioni, eccessi, viaggi. Diceva di essere “posseduto da un angelo”, per questo era animato da una energia lirica pressoché incontenibile.
Auden, in particolare, era interessato agli ultimi libri di Gunnar Ekelöf, che ne testimoniano, allo stesso tempo, l’audacia del mitografo fuori tempo e la levità di un piumato patriarca del verbo. Il Dīwān över Fursten av Emgión (1965), ad esempio, univa la tradizione dei ‘divani’ persiani, le efferate epopee di Bisanzio, una sorta di fantascienza esistenzialista, le scosse dell’anima di Ingmar Bergman (Il settimo sigillo esce nel ’57). Il protagonista del poema, redatto per lasse oniriche, è il Principe di Emgión, vissuto, secondo le Notizie del logoteta, sotto il regno di Niceforo III Botaniate, imperatore bizantino dell’XI secolo, accusato di essere un manicheo, stordito dal carcere, accecato. Il principe – sfatto dal destino – compie un percorso di ascesi e di oscenità, incappa nella sua Ombra, sprofonda nei disastri della condizione umana. L’ossessione si moltiplica in altri libri, che completano il poema, dove i tratti lirici tendono a mutarsi in gergo sapienziale, in spazientita angelologia, Sagan on Fatumeh (1966; Il canto di Fatumeh) e Vägvisare till underjoden (1967; Guida per l’altro mondo).
Da ragazzo, negli anni Venti, il poeta aveva frequentato per qualche mese la School of Oriental Studies di Londra: lo aveva affascinato il Tarjúman al-Ashwáq, il canzoniere mistico di Ibn Arabi, il sommo pensatore arabo nato a Murcia. L’ispirazione per il Dīwān, tuttavia, gli era venuta durante un viaggio in Turchia, al cospetto di una icona bizantina della Madonna, sfigurata dai baci: il volto appariva bucato dall’ardore dei penitenti, conferendo alla pittura sacra qualcosa di inquietante, di più sacro ancora; quel volto, in fondo, sapeva inghiottire. In una notte d’estasi, passata nella reception di un albergo di Istanbul, Ekelöf abbozzò le prime diciassette poesie del suo poemetto. Alla figura della Vergine – adornata di odi, impassibile – fa specchio Fatumeh, la prostituta amata dal principe, una sorta di Sulammita del Cantico dei cantici, mediatrice della verità più terribile, la sola, quella della morte.
Poeta scandinavo tra i più importanti del secolo, Gunnar Ekelöf – pressoché assente in Italia: Elegia di Mölna esce nel 1986 in edizione congiunta Acquario-Guanda nella traduzione di Ludovica Koch; si fa fatica a trovarlo pure in Biblioteca – comincia come seguace dei surrealisti: dalla fine degli anni Venti è a Parigi, dove fonda la casa editrice “Spektrum” e traduce André Breton, Paul Éluard, Benjamin Péret, Tristan Tzara. Si fa seguace di Lautréamont e di Rimbaud, che mesce con le conoscenze acquisite della disciplina sufi: tenta di unire, sul lastricato parigino, le istanze liriche con quelle politiche, ma le rivolte di massa lo disturbano, gli scioperi sindacali, a cui partecipa con l’impegno del flâneur, lo disgustano. Crede nella via solitaria, nella mistica negativa.
Per un po’, può permetterselo. Il padre, Gerhard, è un importante agente di cambio: sifilitico, morì, scemando nella follia, nel 1916. Al figlio piccolo è garantita una eredità importante; la madre si risposò, con disagio del giovane poeta, che da allora, sentendosi il non amato, il detronizzato, il per sempre cadetto, inadatto, comincia una vita raminga. Il primo libro di poesie esce nel 1932, insieme alle traduzioni di Rimbaud, di André Gide e di Marcel Proust. Presto, tuttavia, Gunnar molla le ascendenze liriche francesi: lo appassionano le poesie di T.S. Eliot (i Quattro quartetti, sul resto, che traduce), i filosofi islamici. Nessuno capisce la sua poesia, dissociata dal ‘sociale’ come dalle convenienze delle conventicole. Il disastro economico – nel 1932 va persa una parte consistente della sua eredità, dopo il suicidio di chi era stato incaricato di occuparsene – lo obbliga, per così dire, all’estremismo. Manda all’aria un paio di matrimoni: il secondo – contratto nel 1943 con Gunhild Flodquist – sfiorisce dopo quasi dieci anni, quando lui mette incinta la sorella di lei. Una delle sue raccolte più crude, Non serviam (1945), piena di cupe agnizioni scandinave, registra l’incapacità del poeta di porsi al livello dei suoi pari, una specie di fittavola compassione, la vita contratta, costretta, un senso, incombente, di inutilità, disobbedienza grigia. L’opera è scritta all’ombra del Lucifero di John Milton.
La ribellione di Gunnar Ekelöf ai diktat poetici del suo tempo si perpetua in libri solari, assoluti, per alcuni assurdi, che si riferiscono a un immaginario storico ma fantomatico, qualcosa tra i viaggi celesti del profeta Enoch – raccolti negli apocrifi del Vecchio Testamento – e la topografia fantastica di Jorge Luis Borges.
Membro dell’Accademia di Svezia dal 1958, onorato da un gruppo di discepoli che lo riteneva autore ‘di culto’, Gunnar Ekelöf preferì i panni dell’isolato e del viandante. Chiese che le sue ceneri fossero sparse a Sardi, sulle rive del Pattolo. L’ultimo libro lo aveva intitolato, “Fare un solitario”. Non voleva essere svelato; viveva divorando miraggi. In punto di morte, dicono gli amici, continuava a urlare, “Lasciatemi in pace, ho un lavoro da finire!”. Immaginare la morte, forgiarne il regno, prima che accada – conoscere le parole-chiavistello, le parole-serratura che sterrano tutte le porte dell’aldilà. Il poeta è ingiudicabile.
***
Dal Dīwān
I
Vergine! Consunta
dall’acqua delle tue mani
Vergine della Consolazione
Tu che sei il Lamento
di nessuno
che fu Qualcuno
Tu che sei la Povertà
la tua Solitudine è speranza nostra
che tu non abbia altri
da custodire, da curare,
sacro mormorio,
tranne noi.
*
II
Udii nel sogno:
Habib, di questa cipolla
vuoi tutto o una parte?
L’esitazione mi ha spezzato
l’interrogativo che mi poneva
era l’enigma della mia vita.
Del tutto vuoi una parte
o in tutti vuoi tutto?
Volevo entrambi
la parte e il tutto
nessuna inquietudine
celebrò la mia scelta.
*
III
Ti parlo
a te parlo
dagli abissi
di me stesso
so che non risponderai
perché non rispondi
a chi ti chiama.
Chiedo soltanto
di poterti attendere
che tu mi offra un segno
di te, dentro me.
*
V
Solo, in piedi
nel mezzo del blu
cielo notturno
senza bambino
nel culmine
del tuo destino
Arcangeli con quattro ali
vigilano su di te
e io, il disfatto
principe Emgión
su una montagna
che è chiamata Umile.
*
VIII
Il Principe di Emgión
di stirpe curda
imprigionato a Blacherne
dedica al tuo Fuoco
questo canto: Vergine
da nessuno posseduta
che nulla possiede
la mia anima mi invita
a ribellarmi – ti prego
siedi su un picco della Porta
il mio Pensiero è fisso in te
Vergine del Fuoco e del Niente.
*
IX
Il mio cuore è un bimbo famelico
tra le costole,
un bimbo nella voliera
a cui viene offerto
un cubo di pane
Non ho teso la mano
non ho ricevuto nulla
per amore
mangio la mia fame di te
ho fame della mia fame
la tua offerta
sarà il mio intento.
*
XIX
La Misericordia
non offre pane né acqua
non dà riposo né sostegno
Non può dare nulla
ed è questa la sua onestà:
la Misericordia dà il non dare
può il non potere
Il suo Dono è la Distanza
tu, grande nell’amare,
c’eri
in silenzio passasti.
*
XXIII
La guardia del carcere
ha un occhio cavo e serve
il santo nascosto bene
acqua che si snoda
sulle nostre mani
acqua che ha purificato
imperatori posseduti, dal potere
torturati, dal sospetto vanificati.
Ero con i romei
ho visto le battaglie e i traditori:
sporca sete di potere!
Acqua che netta le mani
purifica ciò che le nostre
mute mani hanno
desiderato – sete di potere
ingollare lussurie.
Tu dici: Non ho colpa
perché tutto è concesso –
Fu la nostra misura
il male possibile.
*
Nota del logoteta
Il principe di Emgión
è stato qui per quattro o cinque anni.
Era un principe artico
asettico e inaffidabile.
Fu sospettato di simpatizzare
con la maledetta genia dei basiléos romei.
Sua moglie – la figlia, forse – intercedeva
per lui nel corpo e nello spirito.
I disordini che seguirono la detronizzazione
di Niceforo Botaniate lo videro
libero, non prima di essere
accecato. Fu vittima di eresia manichea.
*
Da Guida per l’altro mondo
XII
I morti recano tracce di bellezza
nelle loro vite morte brulica la speranza
della bellezza. Chi non percepisce quanto
sia terrificante questa vita maledetta, per cui
siamo nati, non ha sogni di bellezza
non avverte nei bagliori lunari sul fiume
una visione, il sogno della bellezza
non sente la necessità di tuffarsi dopo la luna
e di sognare la morte, e vedere, nel sogno, deliri
di bellezza, viva felicità, infatuazione, amore:
questa è la bellezza
nella violenza della nostra vita
amare è della bellezza il resto.
*
(Pitone)
Sul Diavolo molto resta da dire
che non è morto, ad esempio,
ma vive: come avrebbe potuto
d’altronde, essere abolito
da un dio continuamente assente?
Egli è presente
guarda con i tuoi occhi, guarda con i suoi occhi
è in ogni luogo
forse è buono, forse sei tu
forse è crudele, come lo sei tu
chi è dunque il bene assente, il male presente?
Egli agisce sempre.
*
XIII
Non far caso alle mie vesti dorate
costume di satrapo persiano, di stratega bizantino.
Fissa la mia testa.
Sono un cane di Persia
che non ha fede in nulla
sono un asino greco che raglia,
ma che nessuno porta
sulle mie spalle scorre la corrente
ma su qualche icona sacra a Christophoros
non vedrai il mio cranio –
non sei mai più stato vicino al sacro
dalla notte in cui mi hai sentito ululare
alla Stella
dalla notte in cui mi hai udito ragliare
alla Solitudine.
***
Cinque volte ho visto l’Ombra
l’abbiamo salutata mentre passavamo:
la sesta volta
in un cupo vicolo della città bassa
d’improvviso mi si presentò innanzi
sbarrandomi la strada
insultandomi nel più
violento linguaggio
poi mi ha chiesto:
“Perché mi rigetti?
Perché non giaci con la tua Ombra?
Sono così ripugnante?”
Allora, risposi:
“Come può un uomo mentire alla sua Ombra?
Il precetto prevede
di farla camminare due passi dietro
di lui, fino ai lembi serali”.
Sorrise, sprezzante,
si strinse un velo nero al viso:
“E dopo il tramonto?”
“Allora il viandante ha due ombre:
una creata dalla lanterna che afferra:
continuano a mutare ordine”.
Sorrise, irritata, appoggiò la mano al muro:
“Dunque non sono la tua Ombra”.
Replicai: “Non so di chi sei l’ombra”.
Cominciò a camminare,
ma, voltando la mano, mi mostrò la nera impronta
sotto la luna, sul muro sbiancato
e mi disse, ancora:
“Dunque, non sono la tua Ombra?”
Le risposi:
“Vedo chi sei.
Spetta a te predarmi
Io non ti prenderò”.
Sorrise, austera. “Amato”, disse.
“Della mia forma o della tua?”
“Di te”, dissi.
Nella versione di W.H. Auden
Gunnar Ekelöf