Il tramonto ha un fascino meridiano, immediato. Fiume è finita, l’esplosivo estetico, l’epicentro rivoluzionario, la supernova politica, ormai è cenere, ornamento letterario, liberazione abortita. Gabriele d’Annunzio, sopraffatto dalla fine, austero alla dissipazione, scrive a Guido Keller, è il 12 settembre 1921, la lettera è vertiginosa. “Sono tanto scontroso che stasera non mi piace di stare nemmeno con un compagno notturno come te. Non so se tu sia il Guido Keller di quella notte. Tutti cambiano intorno a me. E io sono stanco di fare da pietra di paragone. (…) Voglio andare a trovare nuovi compagni nel deserto: compagni trasparenti, con una testa di cristallo di rocca, come quei busti medicei di pietre dure. (…) La mia febbre di Ronchi mi torna con immenso brivido lirico. Te lo comunico a distanza. Una bella donna mi disse una sera: ‘Se volete essere più vicino a me, andatevene’. E vorrei stasera per unico nutrimento quel grappolo d’uva che in quella casupola di Ronchi fu messo accanto alla mia branda bruciante. Te ne ricordi? Non ne mangiai neppure un acino. Tu che sei mago, va, ritrovalo e portamelo. Il tuo Gabriele d’Annunzio”. Andarsene, per rendere tutto indimenticabile. Assegnare alle ceneri nitore di marmo.
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Milanese, Acquario (nasce il 6 febbraio 1892), Guido Keller von Kellerer è barone, figlio di industriali della seta, scapigliato, direbbe l’allegro cinico – e geniale – conte Alberto Carlo Felice Pisani Dossi, con una maniaca passione per il volo. Icaro che s’inarca sul labirinto bellico, Keller è eroico durante la Prima guerra, il Lancillotto di Baracca – di cui reggerà la salma – “tre medaglie d’argento, 116 voli di scorta e caccia, 137 voli di crociera, 40 battaglie ingaggiate, 7 avversari abbattuti, infinite missioni per colpire o fotografare le trincee della prima linea nemica”. In volo, si dice, nei momenti di quiete, preferendo le nuvole all’uomo, cinto d’azzurro, legge L’Orlando furioso e la Vita del Cellini. Trae ispirazione dalla cavalleria magica, dall’ardore dell’arte. Lo chiamano l’Asso di Cuori. Sarà il solo a dare del tu al Comandante, a D’Annunzio, lì, nel fulgore di Fiume.
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Ripeto. Ardo del tramonto, preferisco la luce obliqua, il corrusco che corrode le medaglie. Dopo Fiume Guido Keller, Achille dadaista, cocainomane perso, svanisce tra imprese folli, al limite dell’onirico. Nel 1923 è a Bengasi. Chissà se ha letto Conrad, fatto è che si tramuta in una specie di Kurtz dei deserti. “Come casa, sceglie un veliero in disuso dove accoglie la aristocrazia coloniale ma anche quella locale. In Africa scopre il fascino degli indigeni e trascorre molto tempo con loro nel deserto, fino a destare scandalo. Negligente, refrattario alla disciplina, affascinato dall’individualismo dei popoli ‘primitivi’, vola di oasi in oasi”. Un aneddoto ne coglie l’indole alla sfida: Keller è in ricognizione punitiva contro i ribelli al governo coloniale italiano. Il suo velivolo declina, abbattuto. I nemici si avventano contro il mezzo. “I ribelli accorrono per fargli la festa ma restano perplessi quando dalla fusoliera esce un uomo barbuto dalla pelle scura, vestito alla maniera araba. Keller conquista il capo dei ribelli col quale riesce a intendersi grazie a un interprete occasionale. Quando ormai è creduto morto, l’aviatore torna alla base a cavallo di uno splendido sauro bianco, scortato dalla tribù nemica in armi. Si potrebbe credere a un’invenzione dei biografi modellata sulla vicenda analoga accaduta sul finire della Prima guerra mondiale. Ma nell’Archivio del Vittoriale è conservata una fotografia che ritrae Keller e i suoi singolari accompagnatori”. Così scrive Alessandro Gnocchi, in un libro straordinario, Guido Keller. Ala-Pensiero-Azione (Giubilei Regnani, 2019), costruito con materiali sconosciuti tratti da una lunga speleologia negli archivi del Vittoriale, che finalmente rende chiaro il ritratto di un uomo anomalo, certamente anormale, su cui dovrebbe avventarsi un romanziere.
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Il libro è tesoro per beati bibliomani, per altro: Gnocchi allinea alcuni testi di Keller pubblicati su La testa di ferro, testata fiumana diretta dal futurista Mario Carli e su Yoga, foglio ideato da Keller insieme a Giovanni Comisso, che dilaga l’impresa di Fiume come avventura dello spirito, d’allucinata consapevolezza (si dicono “Rivoluzionari non contro un partito o per un partito ma rivoluzionari contro quello che siamo. Rivoluzionari contro noi stessi onde si abbia a perdere le nostre false arroganze, le nostre vili menzogne le nostre tardive e appassite bellezze”).
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Torno al gorgo dei deliri, alla rassegnazione che sboccia in urlo, all’uomo impossibilitato alla vita perché immerso nella fatalità dell’eroico. Nel 1926 Keller è in Sudamerica. Cerca l’oro, ordisce rivolte, ambisce al grido. Kurtz si trasforma in Fitzcarraldo. “Perù e Cile sono le tappe più lunghe. Ma riesce a visitare il Brasile, il Venezuela e ad affacciarsi sul mare dei Caraibi. In Venezuela proverà a commerciare oro. La cosa non va in porto, anche se qualche piccola pepita gli rimane in tasca. A Lima è delegato al servizio dei fasci locali. Riprende a sniffare troppo… Keller sogna la fusione delle nazioni sudamericane in un unico blocco che in nome della latinità privilegi il commercio con l’Italia e si opponga al colonialismo economico degli Stati Uniti. Incontra politici, industriali, commercianti, aspiranti rivoluzionari. Non è solo il delirio di un cocainomane che a Lima prova tutte le qualità della magica polvere. L’ambasciata lo rimpatria per motivi poco chiari (sospetto traffico di oro, briciole racimolate lungo il corso del fiume Orinoco)”.
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Nel 1929, in una specie di previsione della morte, che accade il 9 novembre, a 37 anni – incidente stradale, nei dintorni di Magliano Sabina, circonfuso dall’enigma – Keller scrive con ossessione a D’Annunzio. Il 10 agosto: “Pronti ad un tuo cenno con un gruppo d’arditi di confine piombiamo oltre Fiume nel sonno della mezza estate per annientare il trattato di Rapallo. Così sapremo dare una realtà virile a questa barocca coreografia burocratica Imperiale… Se non vuoi essere il Nostro Condottiero sii il Compagno che ci aiuta ad uscire da questa morta gora in cui le qualità individuali nulla valgono”. Ma D’Annunzio è altro, altrove, ora. Keller gli destina il tradimento. “Il tuo letargo metafisico non ha vita. Invano ti illudi artefice di sogni col cesello della parola. La passione è nel sangue che anima la lama mortale. L’Uccidere è l’Arte più perfetta di Vita ch’io conosco”, gli scrive.
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Sembra aver vissuto la vita da romanzo funambolico che non sapremmo più neanche desiderare, Keller. Di un gesto almeno gli siamo grati. Il 14 novembre 1920 su un biplano Ansaldo SVA sorvola la Capitale. Scorge Montecitorio. Sul regno dei parlamentari scaglia un pitale pieno di rape e carote. Con dedica: “Guido Keller, Ala: azione nello splendore, dona al Parlamento e al Governo che si reggono da tempo con la menzogna e con la paura, la tangibilità allegorica del loro valore”.
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La riforma scolastica secondo Guido Keller. Per gentile concessione si pubblica un documento di Keller tratto dal libro, curato da Alessandro Gnocchi, “Guido Keller. Ala-Pensiero-Azione” (Giubilei Regnani, 2019).
La nuova scuola
AMORE
A proposito di scuola, il nostro grande amico Keller, l’asso famoso e una delle menti più elette che siano oggi a Fiume, come ebbe a dire lo stesso Comandante, ci invia questo abbozzo di programma scolastico. Lo pubblichiamo con grande piacere, e lo facciamo nostro:
I.
La scuola classica (teorica) deve riuscire pratica.
La scuola tecnica (pratica) deve riuscire utile.
La differenza tra le due scuole deve essere abolita, inquantochè la Vita non tollera che l’una sia spirito senza corpo e l’altra corpo senza spirito.
Colui che ha intenzione di non costruire troverà nella costruzione la ragione d’una maggiore contemplazione e il capitano di lungo corso mirando le stelle scoprirà per esse la rotta e la eternità dell’anima.
II.
Ogni grado di cultura è riuscito sinora soltanto che simmetrico volume, da oggi nella scuola deve essere valutato come termine asimmetrico per una continua reazione generatrice di vita. Centro della reazione è l’AMORE. L’abbandono della coltura verso l’amore ci fu imposto colla guerra sul nostro terreno dai nostri nuovi amici: coloro che furono foggiati prima di noi da vergini elementi in un quotidiano lavoro.
III.
L’amore è tanto più bello quanto più s’avvicina all’istinto (base divina) e quanto più s’allontana dalla ragione (base di misura d’ambiente irreale).
IV.
La gioventù avanti d’entrare nella scuola si trova nello stato di grazia. La scuola dovrà essere la ripetizione delle forze e degli avvenimenti che generarono il nostro abbandono. Procurerà l’avvicinamento alla terra senza interposizioni di pressanti speculazioni umane, ma mediante la libera intuizione del divino che porta al convincimento danzante della superiorità ed eternità dello spirito e della inconsistenza della materia.
V.
Il popolo senza la scuola; ma l’argomento III ha ottenuto tale grado di sapere da sorpassare chi fuori del suo ambiente, educato alla vecchia scuola sta come albero a cui siano state tagliate le radici. Così sussiste lo stesso raffronto tra la nostra razza occidentale e tutte quelle poste ad oriente, sfoggiate dalla terra. La nostra superiorità su di loro non poggia che sulla forza, mentre da esse a noi non venne che luce.
VI.
L’allodola alta nella luce del cielo canta a chi passa di mattina presto pei campi ancora intatti di rugiada.
(“La testa di ferro”, 13 giugno 1920)