13 Novembre 2020

“C’è il Mondo: quella cosa tutta piena di lotte”. Dialogo intorno a Guido Gozzano con Alessandro Fo

A dispetto della formula emblematica – in effetti, svariati versi suoi hanno la potenza musicale dell’amuleto, sono memorabili fibbie –, studiata a scuola, che fa “Non vissi…/ Non vivo. Solo, gelido, in disparte,// sorrido e guardo vivere me stesso”, Guido Gozzano è tra i poeti più vivi, vitali, del nostro canone portatile. Se ne era accorto, più di cinquant’anni fa, pure Edoardo Sanguineti: al di là dei titani obliqui – Dino Campana, Corrado Govoni, Gian Piero Lucini – era autenticamente lui, GG, bello, piemontese, con vagabonde pose da dandy, amante delle caffetterie di Torino, elegante e ritirato, volato fino in India, l’anti-D’Annunzio, il cuore della modernità, “consegnato per sempre alla straordinaria creazione delle sue grandi figure femminili: da Grazia a Felicita, da Carlotta a Cocotte”. La poesia di Gozzano, intendo, ha qualcosa del cantabile e dello screziato (chessò, quell’incipit, “Supini al rezzo ritmico del panka”), qualcosa che riguarda i ritratti in movimento di Giovanni Boldini – dove la bellezza è un fiato, fatuo scroscio di vesti – e i balli folli di Joséphine Baker. Insomma, leggere Gozzano concede una rara felicità (“Un mio gioco di sillabe t’illuse./ Tu verrai nella mia casa deserta:/ lo stuolo accrescerai delle deluse”): è privo di miasmi esistenziali, alieno ai cristalli dei puristi, alle estasi degli orfici; ama narrare, sperimenta forme ingegnose, spesso sagaci. È una poesia sempre giovane (“L’immagine di me voglio che sia/ sempre ventenne”), quella di Gozzano, piena di trappole (“Tutto è fittizio in noi: e Luce ed Ombra”), di bellezze. Ed è amata dai poeti. A Guido Gozzano. Il crepuscolo dell’incanto ha dedicato, qualche anno fa, un libro il poeta Gianfranco Lauretano (stampa Raffaelli, che ha in catalogo anche una bella edizione delle poesie di GG); quest’anno, per Interno Poesia, è Alessandro Fo, poeta e latinista (per Einaudi ha tradotto Rutilio Namaziano, Catullo e l’Eneide di Virgilio), ad aver curato una edizione gozzaniana de I colloqui e altre poesie. Afflitto da ostacoli fisici (la lesione polmonare diagnosticata nel 1907), da problemi familiari (la paralisi della madre, in seguito a un ictus, nel 1909), Gozzano pubblica il grande libro, I colloqui, nel 1911. Morì nel 1916, mentre lavorava a un film sulla vita di San Francesco. Amava le farfalle – degno emblema della poesia. (d.b.)

Perché Gozzano? O meglio: come ci sei incappato, con quale affinità?

Potrei dire che lo amo da sempre. Non saprei più dire a quando risalga il ‘primo incontro’. Forse a scuola, probabilmente già alle medie. Vivevo a Torino, e forse anche questo potrà aver giocato un ruolo. Ma ho sempre avvertito quell’affinità che tu giustamente profili. Il desiderio di una sottile sottomodulazione, che è ricerca di ‘non disturbare’, di mantenere una riservata eleganza, e, nel contempo, di concedere alle cose di esprimersi – attraverso la voce del poeta – con la stessa autenticità con cui improvvisamente incrociano il nostro cammino.

Cosa ci dice, ora, Gozzano, dove sta il suo inequivocabile quid lirico?

Forse proprio in quell’“entrare nel pubblico con le mani in tasca” con cui lo ha ritratto Montale. Con noncuranza, ma nel contempo con partecipazione, curiosità e affetto. Sì, dice di essere stato incapace di provare l’Amore, la folle passione sconvolgente e durevole. Ma in realtà ha amato a suo modo: ha amato la vita, le sue pose, i suoi oggetti, e anche le persone: forse più le persone lontane, teoriche, immaginate – rispetto a quanto non sia riuscito a fare, almeno sul piano strettamente erotico-sentimentale, con le figure femminili che ha incontrato. E questo calore di fondo, pur dietro un distacco ironico, spesso più ostentato che reale, si avverte, e chiama alla complicità. Più stringatamente: il canto delle cose che stanno trascorrendo o sono già passate, ma ci legano ineluttabilmente al loro ricordo, e vogliono mantenere con noi un legame d’affetto che, nella voce di Gozzano, si esprime come morbida e delicata nostalgia.

Tra ‘colloqui’ ed ‘epistole’, tra Nietzsche, camicie, l’India e le farfalle, che idea di mondo, del verso, traspare?

Ho cercato di indagare questo punto nell’introduzione. Da un lato risponde La signorina Felicita “c’è il Mondo: quella cosa tutta piena/ di lotte e di commerci turbinosi,/ la cosa tutta piena di quei «cosi/ con due gambe» che fanno tanta pena…”. Dall’altro c’è la ricerca di un rifugio (La via del rifugio…). E secondo me, pur fra mille infingimenti, mosse e contromosse, questo rifugio per lui resta proprio la poesia.

Trascegli un verso di Gozzano, raccontaci perché ti pare esemplare. 

Troppi ne dovrei e ne vorrei scegliere: “Donna: mistero senza fine bello!”…. O piuttosto dei gruppi, come “La Luna sopra il campanile antico/ pareva «un punto sopra un İ gigante»”. Il passaggio che mi piace di più è nella poesia L’analfabeta, quando il vecchio custode che non sa leggere tiene lezione al giovane (ma non più troppo) ‘padroncino’: “Fissa il dolore e armati di lungi/ ché la malinconia, la gran nemica,/ si piega inerme, come fa l’ortica/ che più forte l’acciuffi e men ti pungi”. Una vera lezione di vita: chi non conosce il dolore? E la malinconia come “gran nemica” (così ritratta tramite il supporto del dantesco “quivi trovammo Pluto, il gran nemico”, Inf. VI 115) ? E allora ecco quanto divenga esemplare l’insegnamento di quell’anziano e modesto custode: “Fissa il dolore e armati di lungi”. Guardarlo bene in faccia, il dolore. E cercare di opporgli resistenza. 

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