16 Maggio 2022

A che cosa serve la poesia in tempo di guerra?

Inviata a Kharkiv, il 12 maggio scorso, Francesca Mannocchi ha intervistato il poeta ucraino Serhij Zadan; in Italia i suoi libri sono stampati da Voland. A proposito del senso della poesia in tempo di guerra, Zadan ha detto che “La poesia non combatte e nemmeno influenza la guerra. La poesia aiuta a riflettere e, forse, ci aiuterà a restare umani, in futuro. A non alimentare l’odio… è prematuro pensarci oggi. Forse il presente non è pronto per la poesia”. Il presente non è mai pronto per la poesia, perché la poesia è impresentabile; non credo che la poesia ‘aiuti a riflettere’, la poesia non è un riflesso, e lo specchio, da sempre – la copia, l’io moltiplicato – è un attributo del demonio. Non dovremmo guardarci troppo allo specchio, rischiamo di credere di essere il riflesso di noi stessi; è bene sfidarsi, sfiancarsi.

Al di là dei fatui concetti, la poesia non serve a nulla, di nulla è serva. In guerra, leggere poesie in mezzo a una piazza non protegge il lettore dalla viltà del cecchino – o forse sì. Atto consueto fino a qualche tempo fa – tempi non meno brutali di questi, per altro – la poesia, oggi, è il gesto incongruo per antonomasia: chi sceglie di votarsi alla poesia – indipendente dall’esito pubblico, indossando una poetica, dunque una latitanza – è l’avvocato del proprio fallimento. Sallustio conclude La congiura di Catilina con una scena memorabile: rovistando tra i morti, dopo la lotta, “rivoltando i cadaveri dei nemici”, i soldati “riconoscevano chi un amico, chi un ospite, chi un parente”. La guerra civile non risparmia nessuno, la vita umana, alterata dall’odio, dall’afrore delle basse ambizioni, è altalena meschina di “gioia e mestizia, esultanza e dolore”. Il libro del grande storico latino si chiude su una pianura di cadaveri, su cui, grigi, vagano i sopravvissuti: la rapacità retorica non ha impedito massacri in serie, ha ‘fatto riflettere’, forse, gli animi di per sé riflessivi, da scrivania. L’uomo comune non può capire i pensieri di chi si mette in posa al cospetto della Storia, ed è suddito di quella iena sanguinaria. Guardateli: il ciuffo allucinato di Boris Johnson, il busto da cineasta di Zelensky, il ghigno di Putin, l’ebetudine di Biden; costoro recitano a servizio della Storia, che pretende olocausti odorosi; i popoli sono utili per finire stipati nei manuali e nei documentari, a garanzia di un’ipotetica, patetica immortalità. Il punto, sottile – atto di postura poetica – è tutto lì: esaltare il proprio nome o esiliarsi da esso?

Ma torniamo al ‘senso’ della poesia. Quando Zadan dice che la poesia ci aiuterà a restare umani ripete – inconsapevolmente, credo – le parole di un grande poeta russo, Varlam Šalamov. Nel 1952 Šalamov, l’ineluttabile scrittore dei Racconti della Kolyma, comincia un rapporto epistolare con Boris Pasternak, non privo di attriti (lo rintracciate in Parole salvate dalle fiamme, Archinto, 2009). A scriversi, sono uomini assai diversi: Pasternak ha superato i sessant’anni, vive nell’empireo dell’arte, recluso in una specie di sorda nostalgia – l’epoca di Rilke, di Marina Cvetaeva, di Majakovskij… –, capace nel compromesso. Pasternak è un uomo che ha visto l’orrore, Šalamov l’orrore lo ha vissuto: arrestato la prima volta nel 1929, a ventidue anni, fermato nel 1937, definitivamente, ha passato quasi vent’anni in carcere. Quando Šalamov incontra Pasternak, nel 1953, vede in lui un uomo invischiato nel mondo, leggiadro, leggero, etereo: “Fino a quando ci incontrammo di persona, io l’avevo considerato un dio, un profeta quanto meno. Egli non era un dio né un profeta”. Ma questo è secondario – il poeta può assecondare il mondo a passo di danza, mentre la sua poesia se ne smarca.

In una lettera del 24 dicembre 1952, Šalamov scrive a Pasternak qual è il senso della sua poesia in particolare, della poesia in generale. “Conosco persone che sono vissute, sopravvissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano… Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto perché con sé avevano le Sue parole? Che i Suoi versi venivano letti come preghiere?”. Esiste una rara, miracolosa tradizione di versi “letti come preghiere”: così, a lume di candela e a rischio di pena, venivano lette le poesie di Anna Achmatova; arrestato, Osip Mandel’štam recitava le proprie traduzioni da Petrarca ai detenuti, confratelli nel dolore; c’è stato un tempo – ricorda Carlo Bo – “in cui avremmo dato la vita per Ungaretti, per la sua poesia”. Dunque, è chiaro che la poesia – finché è poesia e non la sua caustica contraffazione – ha sempre a che vedere con la vita e con la morte, è fatta per l’acme, per il momento meridiano, senza intercessione né remissione. La poesia è più letale di un cecchino, eppure è apparentemente inerme, apparentata – per un difetto congenito di percezione, una congestione del verbo, una congiuntivite del senso profondo – alle cose futili. Nel Gulag i versi di Pasternak venivano ricopiati come fossero pane, brandelli di cuore sotto una coltre di sale. La poesia rende vivi, fa sopravvivere, ricorda all’uomo che cos’è l’uomo, ci aiuterà a restare umani. Resta da capire che cosa significhi essere umani, restare umani.

In un breve saggio, ad altissima densità, Origine (Vallecchi, 2022), Giancarlo Pontiggia indaga le origini e le ragioni della poesia. “Forse tutto precipita, urta, si scompone dal giorno in cui le cose furono: non nacque la poesia proprio per rimediare a questo sfacelo, tracciando perimetri di vita fedele, di patti giurati?”, scrive il poeta (che, tra l’altro, ha tradotto Sallustio; Origini è il titolo che raccoglie alcune sue poesie). Non so se la poesia, spergiura, piuttosto, sia ciò che dissigilla i patti – favorendo l’apocalisse, la rivelazione –, se non abbia natura infedele, fautrice di sfacelo: d’altronde, come possiamo classificare le virtù? In un passo potente, un inabissarsi cupo, da cui scalciano bordate di luce, Pontiggia scrive di sprofondare “nella materia informe del mondo, quando ancora non ero, eppure ero, in una costola di padre del neolitico, o ancora più indietro”. Questa frase mi rimanda, per associazione estemporanea ed estremista, a Padre Sergij, il grande racconto di Lev Tolstoj. Vi si racconta di Stepàn Kasatskij, aristocratico, bello, brillante, che molla la vita di corte – deluso dagli intrighi e dalla lieta viltà dei vivi – per ritirarsi in monastero. Assillato dall’ansia di perfezione più che dalla fede, tarlata dal dubbio, Stepàn diventa Padre Sergij, padre spirituale che in molti ritengono santo (è micidiale, eco che ancora ci tarpa la bocca, la scena in cui il monaco si mozza il dito per non subire l’oltraggio della carne, e cadere nel desiderio di una donna che per sfida vuole tentarlo). Eppure, quanto è fasulla la vita mondana tanto lo è quella monastica, se confinata in una specie di agonismo religioso, nell’alcova del ‘successo’. In una specie di ascesi nell’abietto, Padre Sergij si fa ‘folle di Cristo’, vagabondo, tra gli infermi e gli ultimi: quando la polizia gli chiede il nome, l’identità, egli tace, non è più né Stèpan Kasatskij né Padre Sergij. Non è nulla. Neppure l’ultimo – un nulla. Spedito in Siberia come l’inutile e l’anonimo, finirà i giorni a servizio, “coltivando l’orto del padrone, educando i bambini, occupandosi dei malati”.

Poeta è chi depone tutti i nomi, entra in sé fino allo sconosciuto, esce fuori di sé – il nome non gli fa da salvaguardia, da salvataggio. Scrive senza salvezza. E la poesia, allora? Beh, si tratta di camminare, di tradurre i troni in unicorni, di decidere per la scomodità, di recidere, senza recita, di strappare il giorno, come carta, fino al ghepardo di ogni cosa.

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