
“Guerra! La perfetta animalità umana: come gli insetti!”
Cultura generale
Valerio Ragazzini
La guerra ha bisogno dell’uniforme, dell’uniformità. In guerra il singolo si confonde con il gruppo, con il battaglione. Il singolo, in guerra, è un esercito. L’uniforme ha una sua eleganza: il generale, genericamente, mostra fregi e mostrine, che celano l’orrore, o meglio, concedono all’orrore una patina ordinaria. Perché la guerra funzioni c’è bisogno di strategia, di ordine, di uniformità. Il caos imposto dalla guerra – la devastazione di uno Stato, di uno status quo, di un ordine costituito – comporta un cosmo, un nuovo ordine delle cose.
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Che strano: ciò che sovverte, esplicitamente (la guerra), accade in uniforme, ha la destrezza delle cose obbedienti, risapute, adatte. Bisogna essere conformi e in uniforme per fare la guerra. In uniforme, uniformi, piccole singolarità che si prestano a diventare una sola forma, sciabordio e massa informe per scombinare l’uniformità di un altro mondo. Per prima cosa, cannoneggiando l’urbanistica di una città, la sua forma, la sua intelligenza. In guerra, le città devono essere distrutte – per poi essere ricostruite secondo i dettami dei vincitori. In guerra il nemico, irriconoscente – in ogni guerra uomini in alta uniforme tendono a presentarsi come dei ‘salvatori’ – deve diventare irriconoscibile. Da qui, l’esigenza dei massacri di massa. Un popolo deve fare spazio a un altro; la resa non basta: l’esito ultimo di una guerra è lo sradicamento o il marchio. Il servaggio non basta: il vinto deve conformarsi, anche fisicamente, al vincitore. Da qui, atrocità, mutilazioni, violenze.
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Chi della guerra non considera questo – la distruzione delle città e l’assassinio dei nemici – credendola un atto chirurgico, fatto con i guanti, con missili platonici e patriottici che distruggono obbiettivi ‘sensibili’, schivando i corpi della creatura, per poi concludersi con plateali patti, strette di mano, sorrisi, il centuplo della diplomazia, pasticcini politici, non vuole vedere, è vile.
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L’uniforme, poi, afferma una sorta di audace impunità. Colpevole dell’efferatezza non è il singolo ma il ‘corpo d’armata’, o il Paese di cui si indossa la divisa. L’uniforme protegge, rende invisibili – fa impuniti. Protetti dall’uniforme, uniformati all’obbedienza, si è finalmente liberi di non tenere in ostaggio i propri desideri più profondi. E l’uomo, profondamente, è creatura che uccide. Che tormenta. Che tortura.
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Ferino o feroce sono aggettivi inadatti, propri alla bestia, alla sfacciata aristocrazia della creatura terrestre. Lo sterminio dell’inerme è qualità del tutto umana, l’ebbrezza del sacrilegio, del dominio su ogni morale, la capitolazione. La morte dell’inerme deve essere esemplare: soprattutto per il soldato, certo di non essere corpo, morto.
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Se in tempo di pace l’uniforme, alleggerita dal conflitto, è icona dell’ordine, di un’indole votata alla rettitudine, dona, perfino, una nobile bellezza; in guerra – dove ogni ragionamento si riduce, sfrondata la strategia, alla questione della vita e della morte – rassegna ogni freno, libera, deflagra la iena. Ebbri di guerra, possiamo ogni cosa: le armi rendono spavaldi, la paura giustifica ogni reazione, il contesto sacralizza l’assassinio. Di fronte al soldato, il debole sembra un insulto, il sottosuolo di sé, il viso del sé che non vuole vedere – altrimenti, perché macerare nel massacro? Per questo, il debole va eliminato.
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Durante la guerra, l’inerme è enorme, la sua schiva debolezza è un’enormità di fronte al più potente dei generali. Per questo, in ogni guerra l’inerme, l’inerte, il senza nome, l’innocente, l’anonimo, l’innocuo, viene ucciso. Il sangue dell’inerme annaffia le operazioni di guerra, fertilizza la furia dei soldati. L’inerte deve morire. No, non si parla delle stragi dei civili in seguito al bombardamento: carne utile per il mercanteggio degli strateghi. Si dice dell’inerme. L’ultimo, il puro uomo, né buono né giusto, a cui si spara in testa per il gusto. L’inerme deve morire perché tramite un gesto tanto bieco, impari, efferato per disparità, infame, spietato, subdolo per bassezza, bastardo, il soldato in uniforme si sente dio. Morte necessaria a galvanizzare una vita nuova.
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L’inerme è l’oro del soldato uniforme che preferisce sudditi da cibare con la minaccia. Ma l’inerme ha in sé il segreto dell’uomo, che sia disarmato è una indicibile audacia.
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Bruno Schulz, il grande scrittore delle Botteghe color cannella, muore così, il 19 novembre del 1942, a Drohobyč, nell’Oblast’ di Leopoli, in Ucraina: un ufficiale della Gestapo gli si fa accanto e gli spara in testa, per strada, senza una ragione apparente. “Il corpo di Schulz non è stato mai più ritrovato. L’amico Izydor Friedman lo seppellì in una fossa comune nel cimitero ebraico, sul quale l’amministrazione sovietica, nel dopoguerra, edificò un quartiere-dormitorio” (Francesco M. Cataluccio). “L’arte opera in una profondità anteriore alla morale”, aveva detto.
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Sempre, è l’inerme il misterioso obbiettivo di ogni guerra: chi non reagisce, chi non è armato, offende, sembra quasi scoprire nel soldato in uniforme il segreto della sua debolezza, della sua uniformità. Curzio Malaparte, in Kaputt, ha messo in chiaro questo meccanismo, imposto dai nazisti: “La misteriosa nobiltà degli oppressi, dei malati, dei deboli, degli inermi, dei vecchi, delle donne, dei bambini, il tedesco l’avverte, la sente, l’invidia e la teme, forse più d’ogni altro popolo d’Europa. E ne prende vendetta. V’è una sorta di agognata umiliazione nell’arroganza e nella brutalità del tedesco, un profondo bisogno di autodenigrazione nella sua spietata crudeltà, un furor di abiezione nella sua misteriosa ‘paura’”.
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Frenati dalla ragione, ci indigniamo di fronte all’assassinio dell’inerme, a quel gesto odioso, che pare essere l’altra parte dell’uomo. In guerra, in uniforme, ragionato sragionare, l’inerme è il pasto necessario, banchetto su cui si avventa il vampiro. Chi si dimostra sorpreso dall’orrore – salvo poi cambiare canale o imporre sanzioni – è vile. Ogni guerra vuole l’inerme, lo mastica; ogni lotta prevede la mutilazione, la nudità del nemico, l’ostensione delle vergogne. Il nemico va svestito e svergognato, occorre cancellarlo, poltiglia di umori, di liquami, spreco. Non è eccezionalità, caso, momento episodico: l’uomo è la creatura che umilia il prossimo, che uccide l’inerme.
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Gerico “sarà votata allo sterminio”, dice Giosuè, araldo di Dio (Gs 6, 17). D’altronde, Itaca è pari a Gerico e l’Odissea, il prototipo del romanzo moderno, brulica di efferatezze: Ulisse è sordo alle richieste di pietà di Leode, l’aruspice, inerme, e gli mozza la testa; le donne che hanno scelto di giacere coi Proci vengono impiccate, per ordine di Telemaco; a Melanzio, il servo traditore, “mozzarono il naso e le orecchie… gli strapparono i genitali perché i cani se li spartissero crudi, gli troncarono mani e piedi”. Mutilazioni simili costellano lo splendido regno di Bisanzio: ai re nemici – o agli imperatori deposti – venivano cavati gli occhi, segati naso e orecchie, erano castrati, così che visibile a tutti fosse la sottomissione; il monastero, luogo di espiazione finale per i nobili mutilati, non era che il negativo del palazzo. Tucidide, il geniale e plumbeo ‘inventore’ della storia moderna, racconta l’eccidio degli ateniesi nelle latomie di Siracusa, in una guerra fratricida e terribile.
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In un discorso tenuto nel 1984 al Williams College, Iosif Brodskij, il poeta russo espulso dall’Unione Sovietica nel 1972 (o meglio, “invitato” ad andarsene) e rifugiato negli Stati Uniti, invita, piuttosto, a tener conto dell’“aspetto umano, del tutto umano” del Male. Il Male, appunto, è uniforme, si propaga, dal basso, per uniformità, per distrazione dall’io autentico; per questo, “la più sicura difesa contro il Male è un individualismo estremo, l’originalità del pensiero, la bizzarria, perfino – se volete – l’eccentricità”. Nel suo discorso – che s’intitola Per citare un versetto – Brodskij stigmatizza il generico irenismo che nasconde l’inerzia, il pacifismo strategico che fa leva su un’ipocrita indignazione di massima. Brodskij non parla per astrazioni: nel 1964 è arrestato con l’accusa di “parassitismo sociale” e di “nefasta influenza” sui giovani, condannato a cinque anni di lavori forzati, poi ridotti a un anno di confino dopo una permanenza, micidiale, nel carcere psichiatrico di Leningrado. Brodskij sa che il potere spadroneggia sui deboli, insiste, per giustificarsi, sugli inermi, sugli ultimi; sa, insomma, di fronteggiare un male strabordante, che non si può sopraffare. Per questo, dice, uccisi nell’individuo, bisogna esagerare in singolarità. “Il male può essere reso assurdo per eccesso… sminuendone le pretese con una condiscendenza pressoché illimitata che svaluta il danno. Un atteggiamento simile mette la vittima in una posizione molto attiva, nella condizione di un aggressore morale. La vittoria possibile in tali circostanze non è una vittoria morale, bensì esistenziale… Mi permetto di ricordarvi che qui non stiamo parlando di una situazione che comporti un combattimento leale. Stiamo parlando di situazioni in cui uno si trova fin dall’inizio in uno stato d’inferiorità assoluta, senza speranza, in cui uno non ha modo di contrattaccare, in cui le probabilità sono contro di lui, e in maniera schiacciante. In altre parole, parliamo delle ore più buie della vita…”. A chi pensava l’uomo incappucciato, legato, gambizzato; il passante ucciso per sfamare la paura; l’inerme sulla bicicletta? Chissà se il dopo sarà più cupo ancora di quest’ora, se esisterà il riposo, se qualcuno concima di candele lo sterminio. Iosif Brodskij parlava con reticenza delle torture subite in carcere, “Non mi piace parlarne. È come darsi delle arie”. Quanto all’aggressione al Male, si rivolgeva a noi – per indole, il poeta agisce nell’inimmaginabile.