Un testo – celebre e martoriato ma soprattutto attraversato come un fiume a tal punto da non essere quasi irriconoscibile – che il regista forlivese Claudio Angelini ammette di non aver “nessuna pretesa di rappresentarlo”. Un testo, quello de “La metamorfosi” di Franz Kafka, che si innalza a pre-testo per raccontare la misantropia – il vero dramma della quotidianità – di un uomo (ieri Gregor Samsa, oggi chiunque) che decide di trasformarsi, forse sino in fondo, non tanto in un insetto bensì in un corpo ibrido.
La compagnia Città di Ebla, venerdì 4 maggio, ha fatto una fermata di poco più di 30 minuti all’interno degli spazi dell’Ex ATR di Forlì, splendida impronta di archeologia industriale riconvertita a luogo del sapere visivo per dare una ulteriore conferma che si possono (o forse si devono ancora) sezionare i grandi testi per portarli, scenicamente, nel nuovo millennio.
Coerentemente con la poetica che sin dagli esordi caratterizza le modalità drammaturgiche della compagnia, “La metamorfosi” lavora sui margini fisici della spazialità scenica: un elemento totemistico di grande impatto, una scatola-bagno in cui avviene il mutamento ben posizionata in mezzo al palco, e un luogo “esterno”, a cui spetta il compito di fare le funzioni del coro greco. Ed è proprio qui che inizia (se inizia) il viaggio nella solitudine: una vecchia poltrona, una abat-jour, una segreteria telefonica che come un metronomo scandisce l’assenza (voluta) dalla società del protagonista.
Messaggi e voci, maschili e femminili, che cercano una risposta convenzionale: la scusa di un invito a cena, le vuote domande sul “come stai?” o “perché non esci”, hic et nunc, affondano la lama nelle relazioni di oggi, montate ad arte come una crema allo zabaione ma prive di vitamine.
Gregor Samsa (Alessandro Bedosti), annoiato dalla reiterazione del vuoto, cerca pirandellianamente un riempimento, che può avvenire solamente attraverso una metamorfosi del movimento. Lui, Gregor, uomo era e uomo rimane, ma solamente nell’acqua – elemento amniotico di (ri)nascita – riesce a trovare la sua dimensione. I gesti quotidiani che “emette” in bagno – quello di guardarsi allo specchio, di riempire la vasca per lavarsi – vengono ingranditi dal vetro che separa la scena dal pubblico: una quarta parete trasparente all’apparenza, che di fatto sancisce un ulteriore rifiuto di Samsa di avere contatti con il genere umano.
Una stanza da bagno che è allo stesso tempo “stanza della tortura” e grembo materno, e su cui il regista Claudio Angelini appoggia i suoi occhi: tutto è preciso, misurato, pensato. Ogni gesto, ogni musica, ogni silenzio diventano parole non scritte che raccontano il sacrificio di una scelta di vita.
Gregor diventa così scarafaggio: le zampette escono dal bordo della vasca, poi si arrampica sulle pareti ed esce, mentre sul vetro bagnato iniziano a scendere una serie di righe nere, come le sbarre della prigione.
Lui però è già uscito dalla gabbia, e torna a vivere (vedendosi però vivere), comodamente dal suo divano, la finta recita della vita. Degli altri. Anche del pubblico, naturalmente.
Alessandro Carli