23 Luglio 2023

Stretto tra Dio e Satana. Vita & romanzi di Graham Greene

«Se dovessi aspettare che arrivi l’ispirazione, non scriverei nemmeno una parola» (Graham Greene).

Questa è una delle considerazioni che chiariscono in breve l’essenza del lavoro dello scrittore, o del romanziere, soprattutto di quelli abituati a seguire una routine definita, sorta di àncora che aiuta a preservare l’identità e a sostenere il senso di sicurezza. E Graham Greene, addirittura, aveva l’abitudine di contare le parole di ogni pagina che vergava quotidianamente:

«Le parole sono l’ossatura del libro e io le conto col dito una per una, ogni capitolo è fatto di tante parole e bisogna pareggiarli tutti col peso delle parole. Per me è anche un modo per costringermi a lavorare: una volta mi imponevo almeno 500 parole al giorno, ma adesso che non sono più giovane la mia dose quotidiana è di almeno 300-350. E quando ci arrivo, cercando di interrompere dove mi sarà più facile riprendere, faccio una crocetta a fianco: sui miei manoscritti ci sono crocette dappertutto con accanto scritto 600, 900, 1.200… Così so quando arrivo al termine. Ho l’impressione di avere in testa una specie di regolatore con il quale equilibro le varie scene in modo che le proporzioni siano rispettate, vado avanti con una specie di pilota automatico: i libri son fatti di parole!».

Questa citazione è al capitolo 9 di Graham Greene. Il tormento e la fede, l’appassionata biografia dedicata allo scrittore da Fulvio Fulvi, giornalista del quotidiano Avvenire, uscita quest’anno per le Edizioni Ares di Milano. Già nell’Introduzione l’autore rimarca la struttura narrativa tipica dei romanzi greeniani: quell’andamento da sceneggiatura cinematografica che l’ha catturato in modo irrimediabile, la costruzione del racconto in scene come se si fosse dietro una macchina da presa, coi personaggi e il loro movimento che s’integrano negli ambienti dell’azione, in rapporto dinamico con il paesaggio e col fluire della storia. Era il cinema a insegnarlo: la chiarezza e il ritmo, il gesto che traina, la carrellata che conduce lo sguardo del narratore lungo gli ambienti, il montaggio. Ed è sempre del cinema la tecnica dell’inquadratura sul personaggio, che si innesta nell’andamento del racconto per offrire il quadro introspettivo delle sensazioni ed emozioni individuali.

Fin troppo umani sono i personaggi di Greene, come sappiamo, così intrisi di incertezze e contraddizioni, deboli nel seguire una linea ferma, tormentati, spesso preda di pulsioni distruttive. Fulvi osserva come le qualità dei personaggi “buoni” e di quelli “cattivi” tendano a sovrapporsi e a incrociarsi, perché la complessità dell’esistenza non offre vie prevedibili e sicure. La citazione di David Maria Turoldo nell’introduzione ai Saggi cattolici di Greene è chiarificatrice:

«I protagonisti del mondo greeniano sono due soli: Dio e Satana, che si contendono a palmo a palmo il regno dell’uomo, dove ogni personaggio liberamente sceglie uno schieramento sempre mobile, non essendo stabiliti i confini delle due azioni misteriose, le quali danno un senso metafisico alla storia di ogni uomo».

Un cattolicesimo, quello di Greene, che nasce in gioventù da una ricerca esistenziale che sembra non essersi mai risolta, nemmeno nell’arco della vita adulta e matura. Fino agli ultimi anni lo scrittore ha continuato a interrogarsi sul senso di molti aspetti dell’impianto teologico-ideologico nel quale si riconosceva, senza mai accontentarsi di una visione definitiva. Un aspetto di questa inclinazione è dato proprio dal suo interesse istintivo per i personaggi e le situazioni borderline, per l’ambiguità e le contraddizioni umane, dove negli sviluppi narrativi molte cose si rivelano diverse da come sembrano. Un segno chiaro dell’inquietudine e dell’insoddisfazione che lo abitavano da sempre, e che nei momenti peggiori lo spingevano verso la depressione e l’instabilità emotiva.

Quanto alle sue opere, fin dai primi tempi Greene introdusse una distinzione fra quelle definite entertainments e quelle considerate “maggiori”: le prime caratterizzate da un minor impegno intellettuale rispetto alle seconde, che al contrario dovevano reggersi su uno statuto morale più alto, su un maggiore spessore etico e ideologico. Il treno d’Istanbul e Una pistola in vendita, e più tardi Il nostro agente all’Avana apparterrebbero alle prime, che nelle intenzioni guardavano al successo di pubblico, dove il romanziere prendeva il posto dello Scrittore. Ma la distinzione si appannò presto, perché i suoi romanzi si appoggiano comunque su quella fame di esperienze e quella tensione morale che l’hanno sempre accompagnato e spinto a girare il mondo senza stancarsi, spesso nelle vesti “spionistiche” che conosciamo, per guardare e prendere coscienza delle contraddizioni, delle lotte, delle convulsioni che in quella parte del Novecento stavano cambiando il pianeta. Per i Greene, scrive Fulvi, spiare era una specie di “vizio di famiglia”:

«Oltre alla sorella Betty (sposata peraltro a un ufficiale dell’Intelligence Corps, Rodney Dennys) e allo stesso Graham, infatti, anche altri due fratelli fecero parte dell’intelligence britannica. Herbert, il maggiore, fu mandato come agente sotto copertura in Giappone e poi in Spagna durante la guerra civile, dove fu anche accusato di essersi appropriato indebitamente di denaro destinato agli aiuti per i partigiani antifranchisti. Hugh, giornalista, corrispondente da Berlino per il Daily Telegraph dal 1933 al 1939, venne espulso dalla Germania con l’accusa di spionaggio, scampando per miracolo alla fucilazione. Ma anche la cara cugina Barbara, che negli anni della guerra viveva nella capitale tedesca (la madre era originaria di Berlino), faceva la spia per conto degli inglesi mentre scriveva testi di propaganda per il Terzo Reich».

Ma veniamo al romanzo The Heart of the Matter, ovvero Il nocciolo della questione, che Greene cominciò a scrivere a guerra finita e che vide la luce nel 1948. Secondo Fulvi è soprattutto un “romanzo cattolico”, dove la presenza di Dio nel cuore dell’uomo diventa cruciale, nonostante l’invadenza del peccato.

Nato dalla sua esperienza come ufficiale dell’Intelligence in Africa, narra di un alter ego britannico e cattolico, Scobie, che rompe la monotonia della sua vita tradendo la moglie con una giovane scampata a un naufragio, Helen (anche qui un riferimento autobiografico ai suoi molti amori). Ma Scobie è anche un funzionario corrotto che finisce sotto ricatto e diventa un omicida per procura, mantenendo però viva la compassione per il prossimo, nel solco di un autentico spirito cristiano. Sullo sfondo c’è l’essere in guerra, un’esperienza che si somma all’ambientazione coloniale – una imprecisata colonia nell’Africa Occidentale, specchio della Sierra Leone di cui Greene ha fatto conoscenza –, in cui gli indigeni restano figure inconoscibili attraverso i canoni occidentali, mentre la terra stessa si fa conoscere per quello che è, senza concedersi, refrattaria all’addomesticamento. La disperazione in cui cade Scobie viene dall’impossibilità di dare la felicità alle due donne che ama, di cui sente di portare la responsabilità. La sofferenza della moglie Louise, la cui unica speranza di salvezza sta nella fuga da quel posto che la respinge, si contrappone al senso di fragilità di Helen, sopravvissuta al naufragio di una nave silurata dal nemico e di cui Scobie ama l’essere indifesa, una vittima innocente da proteggere, nel solco di un amore compassionevole che egli non può né dominare né reprimere. Sentendosi responsabile della felicità di entrambe, arriva a desiderare la propria morte, come se così volesse espiare il male, il peccato, la colpa, per ottenere la salvezza del prossimo. Il fato gli sarà nemico, e la religione non potrà dargli alcuna consolazione, lo spingerà anzi verso un senso di dannazione irredimibile.

Fulvi definisce Greene lo “scrittore viveur”, che lungo la sua vita inanella relazioni extraconiugali, fino a quella con la francese Yvonne Cloetta, che dal 1959 lo accompagnerà per oltre trent’anni. Ma non sono amori solo carnali, al contrario partecipano di una tensione morale tutta cristiana: «L’amore sarà sempre un punto di svolta nell’esistenza di Graham Greene, un tentativo di apertura verso la trascendenza, un modo per entrare nel mistero della vita, e non solo un piacere fine a sé stesso». E poi, «Greene è sempre pervaso dalla fede, anche se non lo ha mai riconosciuto, e la fa emergere attraverso lo scandalo “perché nella disperazione si manifesta la grazia”. Privilegiava la concretezza per allontanare dal lettore l’idea che la fede fosse accostata ad “astrazioni pericolose e totalizzanti”». Illuminante è ciò che Greene rispose in un’intervista del 1966, sul rapporto tra la letteratura e il suo credere in Dio:

«Vede, è impossibile credere sempre… la vita di un uomo è fatta anche di questo alternarsi: fede e perdita di fede. Ho scritto di ognuno di questi due periodi con personaggi diversi… perché quello che mi interessa sono le persone che non credono al cento per cento. Un romanzo è prima di tutto un conflitto. E quando si crede al cento per cento il conflitto non c’è. Dunque, non esiste romanzo».

Il rapporto “dialettico” di Graham Greene con la fede religiosa si combina, inevitabilmente, con la sua convinzione di dover stare dalla parte delle vittime, quel senso irreprimibile di “soccorso” verso chi è colpito dal fato e dall’ingiustizia. In un discorso tenuto nel 1969 all’Università di Amburgo mise in chiaro che il dovere dello scrittore è quello della slealtà, proprio perché questa consente di mettersi dalla parte delle vittime: di fronte allo Stato che tende a irreggimentare tutti per far avallare il proprio operato e far odiare il nemico, lo scrittore deve smarcarsi, fare l’avvocato del diavolo, esser pronto a cambiare posizione, perché le vittime cambiano, mentre la coerenza e la lealtà finiscono per confinarci nel recinto del conformismo, impedendo di comprendere e aprirsi all’altro. La slealtà diventa così strumento di ricerca e di conoscenza, in un sano esercizio di dissenso verso il potere. Così Greene si schiera con i popoli oppressi dai potenti, come gli indios messicani ne Il potere e la gloria e i contadini dell’Indocina ne L’americano tranquillo.

Nel quadro del romanzo inglese del Novecento, dominato dall’indagine sui rapporti sociali e sulla condizione del sé dentro la gabbia delle relazioni di classe, Greene ha scelto di immergersi nelle grandi questioni del suo tempo, dalla Depressione pre-bellica al Secondo conflitto, dalle convulsioni colonialistiche alla Guerra fredda, dalla caduta dei regimi al neocolonialismo del secondo Novecento. Ha vissuto da protagonista per capire, sporcandosi le mani e girando il mondo, per vivere di persona ciò che sentiva di dover comprendere. Fino alle ultime avventure vissute con l’amico padre Leopold Duràn, che Fulvi racconta in modo gustoso: «Padre, vorrebbe accompagnarmi in un viaggio nella Penisola iberica? Ho intenzione di raccontare in un libro i luoghi di Unamuno e Cervantes e le tradizioni della Mancia, della Galizia, dei lusitani… Vuole venire con me?».

Tra il 1976 e il 1989 i due fecero quindici viaggi: «Si muovevano con un’utilitaria guidata da un “terzo uomo” e “imbottita” di salumi, formaggi e corposi vini della Mancia». Ne uscì il romanzo Monsignor Chisciotte del 1982, «storia incentrata su un prete idealista e un po’ ingenuo che diventa amico di un ex sindaco comunista col quale discute e si accapiglia parlando di Dio e degli uomini mentre vanno in giro per la Mancia a fare bisboccia a bordo di una Seat 600». Padre Chisciotte, discendente del personaggio cervantiano, viene nominato monsignore suo malgrado, e già questo scompenso inaspettato lo destabilizza, portandolo a intraprendere il viaggio col suo amico-antagonista Sancho Zancas. La fede è al centro delle discussioni dei due protagonisti:

«Sancho, il comunista, ex allievo di Unamuno, ce l’ha annacquata e deve fare i conti con l’ateismo imposto dalla sua ideologia, quella di monsignor Chisciotte invece è costellata di dubbi, soprattutto quando si rapporta alle autorità superiori».

The Captain and the Enemy (L’uomo dai molti nomi, 1988) è l’ultimo romanzo pubblicato da Greene, prima di spegnersi il 3 aprile 1991. Diviso in due parti, è insieme un ritorno all’ambientazione latinoamericana e un ritorno ai ricordi dell’infanzia. Ora, guardando indietro alla ricezione delle sue opere, vediamo che in passato il successo dei suoi romanzi non veniva visto di buon occhio dalla critica, che liquidò Greene come autore “popolare”. Ma la sua produzione resta letteraria in ogni senso, pur con una scrittura priva di orpelli, diretta, sempre densa – e proprio per questo efficace. La formidabile costruzione di trame non forma mai situazioni risapute o cliché o semplici variazioni sul tema: queste cose appartengono ai romanzi di genere, che godono di fin troppa visibilità, mentre il genere di cui stiamo parlando resta quello greeniano, un caposaldo-testimonianza del Novecento.

Paolo Ferrucci

Gruppo MAGOG