27 Gennaio 2024

“Ho troppa sete di te per saziarmi delle tue parole”. Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti

Torino, 1907. Ventisei anni lei, ventiquattro lui. L’incontro epistolare tra Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti ha inizio il 13 aprile, quando Amalia risponde all’omaggio del primo libro di Guido, La via del rifugio, pubblicato quello stesso anno. Si rivolge al “Cortese Avvocato” Gozzano e gli confessa di aver

“ritrovato fra le pagine del suo libro un poco di quella fraternità spirituale che la sua offerta mi rivela. Il rimpianto di ciò che fu, e l’ansia di ciò che non è ancora, e il sottile tormento del dubbio, e l’ebrezza folle del sogno, tutte le cose belle e perfide di cui noi poeti si vive e ci s’avvelena”.

Comincia così un carteggio di sconfinata bellezza lirica, tra i più intensi della letteratura italiana, che si trasforma presto in un amore tormentato, sempre ad un passo dal suo compimento, in costante bilico tra presenza e assenza, desiderio e malinconia, sullo sfondo di una Torino ritratta nel fulgore della Belle Epoque. È un amore tra poeti, quello tra Amalia e Guido, nutrito di parole che vivono al confine del non detto, fughe, rincorse e continui ritorni, con sottili inversioni di ruoli.

Le loro Lettere d’amore, delicate, poi struggenti e disperate, furono pubblicate per la prima volta da Garzanti nel 1951 per la cura di Spartaco Asciamprener, industriale milanese e fine bibliofilo, che però muore il 14 ottobre del 1954 in un incidente stradale, non ancora quarantenne. Con la sua scomparsa, si perdono i manoscritti delle lettere: un’autentica sciagura. Nel 2019 il volume è riedito da Quodlibet per la cura di Franco Contorbia che ne ricostruisce puntualmente il complesso “puzzle filologico, archivistico e bibliografico”, a partire dalla prima pubblicazione del 1951.

Si tratta di centoventisei lettere, scritte essenzialmente tra il 1907 e il 1910, anni cruciali per la formazione e la produzione poetica di Gozzano ed Amalia Guglielminetti. I due si danno man forte nelle rispettive vicende letterarie, si stimano, per qualche tempo si rallegrano di non essersi incontrati di persona (si erano sfiorati alla “Società di Cultura” ma avevano mostrato di ignorarsi). I corpi avrebbero forse turbato quella loro perfetta armonia… Poi però Amalia si reca al Meleto, residenza di Gozzano ad Agliè, e i corpi fanno precisamente quanto temevano: si innamorano.

Dopo aver immaginato quello che avrebbero potuto fare insieme, Gozzano si sottrae; con la scusa delle cure, parte, in fuga, al mare. Rinuncia all’amore, apparentemente in nome della letteratura:

“Da molti giorni sono in casa ed ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto come in un sogno. Penso a tante cose, sopra tutto, avvenire; e penso anche a te, con molta tenerezza e con molta serenità. Sento in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo essere crudele con me e forse – perdonami – anche un po’ con te… Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino”.

(30 marzo 1908)

Di quale Destino sta dicendo? La vena di masochismo che sgorga dall’ultima frase inganna, forse, per la naturale propensione a credere che negarsi un piacere, un’occasione di felicità, sia necessariamente una scelta. Se la sorte è scritta, predefinita, immodificabile dalla volontà personale, allora significa che sorte è (anche) ciò che si fa per effimera reazione. Si intravede un rapporto con il disegno vitale nel senso greco antico del termine, in cui la volontà occupa un ruolo totalmente illusorio e non è altro che una delle sue manifestazioni. Dostoevskij, nell’epilogo de Il giocatore ne rivitalizza il senso e ce ne offre una magistrale rappresentazione. Se al destino nulla si può chiedere, perché esso può solo consumarsi, Gozzano ha forse visto nel suo ritrarsi la manifestazione di quella forza irrespingibile? Ne ha poi ammorbidito il gusto in quello di una “bella felicità” solo perché tratto da Amalia in una nuova esperienza?

Così continua la lunga lettera del 30 marzo:

“E quale felicità, Amica mia! Il nostro amore che sarebbe fiorito con tutti i fiori della primavera torinese! (così dolce per l’esule che ritorna!) anche la stagione sarebbe stata propizia alla nostra follia! E quanti mesi di serenità, di sole, di profumo! E quanti sogni! Avremmo voluto pellegrinare la nostra passione in tutti i dintorni favorevoli al sentimento: quanti sogni! Io li ho già sognati tutti e t’ho già vista in tutti: con a sfondo i paesi sconosciuti, le viuzze di provincia dove si sarebbe delineata al mio fianco la tua svelta parigina figura primaverile. Io non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione taciturna: una compagna ben più crudele della tua malinconia… Perché non confessartelo, mia buona sorella? L’ambizione da qualche tempo mi artiglia in un modo atroce. […] Per me, camminando dritto, con l’occhio fisso alla mia meta lontana (o quanto!) tutto è secondario e trascurabile, gioie e dolori: tutto, perfino la tua bellezza sulla quale mi sono chinato un istante, come su un fiore, al margine del sentiero, ma dalla quale mi separo tosto, perché arresterebbe di troppo il mio passo tranquillo […]Tu hai ancora l’avidità di cogliere fiori e di godere l’ora che passa: per me anche la lusinga del piacere mi è intollerabile come un ostacolo sul mio sentiero.

Amalia, mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non fossi giovine e bella! Ma hai degli occhi luminosi ed una bocca tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una crestaia od una cortigiana qualunque…Ho rilette queste sei pagine, amica mia: oimé! Parlo, parlo, e, sopra tutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami!”

Qui il genio sembra afflitto da un eccesso di personalità, un peccato di orgoglio che lo allontana definitivamente dalla porta dell’amore: varco sorvegliato da guardiani severi, che in cambio del salvacondotto esigono – prima – la disaffezione all’identità, l’abbandono dell’intangibilità del sé, la disfatta d’ogni brama di autonomia. Solo a fronte di quel passo indietro concedono il diritto di partecipare ad un gioco a quattro mani, nel quale la doppia firma è una precondizione e in cui non esiste né solitaria vanagloria, né fama, ma solo la reciproca contemplazione del proprio capolavoro di geometria sentimentale. Si può essere dannati nell’amore, ma uniti anche dopo la morte, come Paolo e Francesca; oppure dannati già in terra, da vivi, per l’essersene allontanati troppo. A tratti Guido pare esserne consapevole: tenta di correre ai ripari quando rimanda o disdice all’ultimo le occasioni di incontro. Amalia lo aspetta, soffre, si sfoga, lo teme; i ruoli si invertono e quasi più non si comprende chi sia a condurre le danze.

Un trasparente velo di impotenza e di ingiustizia aleggia tra le pagine, a tratti anche autoironiche; un recondito senso di inesorabilità che ci spinge verso Amalia, costretta a camminare quando vorrebbe correre, a fermarsi quando vorrebbe perlomeno camminare… Aleggia prepotente il senso di una sorte del tutto anteposta alle scelte, che governa ciò che deve e ciò che non deve essere. Di fronte a quell’onnipotente tumulto, ogni cosa è travolta, i respingimenti di lui e le preghiere di lei assumono le sembianze di una lotta: quella tra chi preme per sfidare un nemico invincibile, tentando di invertire la sorte e chi, diversamente, spinge per arrendervisi, accettandola e assecondandola. All’apparenza è lei la più forte, pronta a reggere incontri e conseguenze, spontanea e propositiva; si piega ma non si spezza:

“Ma non è possibile che partiate così. Verrete mercoledì: non mi chiederete perdono, non ci daremo delle spiegazioni, non ci diremo niente. Lasceremo solo le nostre anime un poco vicine e le nostre mani un poco congiunte prima di lasciarci per tanto tempo. Sarà una piccola tregua di sogno per Voi e per me. Dimenticheremo che ci sono le cose e gli uomini e le donne. Ci parrà d’essere soli nel mondo, o d’essere fuori del mondo. Se vorrete vegliare ci guarderemo in silenzio, se vorrete dormire poserete la testa sulla mia spalla. E poi ci diremo addio. Venite”.

(2 dicembre 1907)

Si danno del voi, poi del tu, poi ancora del voi. Guido scopre di essere ammalato di tubercolosi proprio nel 1907; soggiorna sovente in campagna o al mare per curarsi. Tra la trama e l’ordito di complessità in cui non è lecito entrare, non possiamo trascurare il peso della malattia (cui Guido allude di frequente), forse la principale ragione che lo induce a fuggire. Nessuno sfugge all’inversione di rapporti cui costringe l’ammalarsi del corpo, al singulto inatteso che la natura attiva quando, per la prima volta, sussurra all’orecchio la verità sulla finitezza di un ciclo, trasformando le prospettive e sottraendo significato alle passioni. La divaricazione di atteggiamenti e la consapevolezza del poeta risuona potente nelle parole:

“Tu hai ancora l’avidità di cogliere fiori e di godere l’ora che passa: per me anche la lusinga del piacere mi è intollerabile come un ostacolo sul mio sentiero”.

Ma Amalia, ancora allucinata da quell’assenzio che è la giovinezza, così prodiga di veridiche lusinghe e così credibile nell’ebbrezza che regala, ancora relegata in quell’antro di concessioni illusorie che un corpo sano dispensa allo spirito, non demorde, lo tallona, lo promuove nell’ambiente letterario, lo incoraggia anche sul fronte della salute, non senza ingenuità, le armi spuntate.

“Chi sa […] quanti sogni di dolcezza e di tristezza trarrete dalla vostra sensibilità fatta più sottile e squisita dal vostro male”.

(16 giugno 1907)

Anche quando la penna tace, si ode da lontano il lavorio che feconderà nuove parole acuminate. È di nuovo alla lunga lettera di Guido del 30 marzo 1908 che bisogna tornare: “Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità”.

Tanti guizzi emotivi trasudano dalle lettere e suggeriscono l’esatto contrario: pare che il poeta abbia completamente invertito il paradigma “mi vieto di amare, usando la ragione”. Ma l’impeto e l’istinto prevalgono. La fermezza di quella presa di posizione pretende una complementare reazione. Quello stesso giorno, Amalia verga poche, incisive parole che recano in sé la chiave del suo sentimento:

“Non rispondetemi se vi pesa, ricordate solo ch’io v’aspetterò con intenso desiderio, e che vi prego di venire. Stamane io scrivevo questo mentre tu forse aggiungevi per me tristezza a tristezza nelle otto pagine della tua lettera. Non distruggo e non disdico il mio biglietto. Ho troppa sete di te per saziarmi delle tue parole amare”.

La potenza del verbo disegna plasticamente il senso della rinuncia all’orgoglio e all’identità in nome di un bene superiore, di un dono supremo che, nella visione della donna, giustifica il sacrificio e l’ammissione della disfatta.

Giunti al cuore dell’epistolario, vien da credere che forse si può davvero sopravvivere senza cibo, ma non senza l’acqua, elemento vitale per eccellenza. Amalia prende inequivocabilmente posizione: è l’uomo Gozzano a vincere in lei: ha sete di lui – al di là del suo inganno esistenziale – poi della sua parola.

Le montagne russe proseguono fino al 1910. Un paio d’anni dopo compare l’ultima lettera: Guido la scrive al suo ritorno dall’India, ultimo esilio di cura. Ancora una voce di richiamo, ancora una rincorsa. “Agliè, 4 ottobre 1912. Sosterò a Torino dal 5 a tutt’ottobre. Ci sarete? Ci vedremo?”. Non pagine e pagine, ma un’unica, concreta domanda. Forse l’ammissione del suo autoinganno: il mancato coraggio dell’amore? Non lo possiamo sapere: le lettere manoscritte dell’epistolario sono purtroppo andate perdute… Sappiamo solo che il 9 agosto 1916 Amalia tenterà invano di recargli l’estremo saluto sul letto di morte.

Riccardo Peratoner e Marilena Garis

Gruppo MAGOG