31 Marzo 2022

“Intossicati dal sudicio veleno del potere”. Gor’kij: lo scrittore impegnato e la libertà di stampa

La chiusura di “Novaja Gazeta”, il periodico moscovita sostenuto da Michail Gorbačëv, guidato da Dmitrij Muratov, recente Nobel per la pace, indigna per eccesso di cecità, di cieca ferocia: ogni potere, per giustificarsi, ha bisogno di un nemico interno. Non è questione di democrazia, ma di strategia. Nell’universo russo, tuttavia, pare che ogni contrasto debba essere spianato, ogni contrario mutilato. Il provvedimento partorito dal governo di Putin, infatti, ha una storia, per così dire, ‘gloriosa’.

Uno dei primi atti compiuti dal governo rivoluzionario di Lenin, una settimana dopo il suo insediamento, il 16 novembre del 1917, è l’emanazione del “Decreto sulla stampa”: “Nell’ora seria e decisiva della Rivoluzione e nei giorni che la seguirono immediatamente, il Comitato Rivoluzionario è stato costretto ad adottare severe misure verso la stampa controrivoluzionaria di tutte le tendenze. Immediatamente da tutte le parti si è gridato che la nuova autorità socialista violava i principi essenziali del proprio programma con questo attentato conto la libertà di stampa… Tutti sanno che la stampa borghese è una delle armi più potenti della borghesia. Specialmente in questi critici momenti, in cui l’autorità degli operai e dei contadini è in periodo di consolidamento, è impossibile lasciare tale arma nelle mani dell’avversario e in un tempo in cui non è meno pericolosa delle bombe e delle mitragliatrici”.

Così attacca il decreto, che promette “temporanee e straordinarie misure con lo scopo di arrestare l’ondata di immondizie e calunnie della stampa controrivoluzionaria”. Naturalmente, gli avversari del governo al potere pubblicano soltanto calunnie, sono, appunto, nemici del popolo, del progresso. In realtà, le misure saranno destinate a perfezionarsi: con seguente decreto vengono soffocate le case editrici private, fino a disintegrarle. Nel 1919 nascono le edizioni di Stato, Gosizdat, con compiti squisitamente censori.

In particolare, il “Decreto sulla stampa” stabiliva che “Saranno sottoposte al sequestro le seguenti categorie di giornali: a. quelli che incitano all’aperta resistenza o alla disobbedienza al Governo degli Operai e dei Contadini; b. quelli che portano la confusione travisando chiaramente e deliberatamente le notizie; c. quelli che incitano ad azioni di carattere criminale punibili per legge”. La vasta vaghezza del proclama consentiva, in sostanza, di chiudere, per capriccio politico, qualsiasi giornale. Nel luglio del 1918, così, Lenin sceglie di chiudere “Novaja Žizn’”, “La Nuova Vita”, il periodico fondato da Maksim Gor’kij, un amico: giocavano, anni prima, a scacchi, a Capri, bestemmiando l’impero zarista; si erano conosciuti nella redazione di un giornale. “È necessario chiudere ‘La Nuova Vita’… con l’urgenza di portare l’intero paese a difendere la rivoluzione, ogni forma di pessimismo intellettuale è oltremodo nociva”, specifica Lenin. Era il periodo in cui Gor’kij, romanziere di fama ‘mondiale’, guardava in obliquo l’Ottobre rivoluzionario: a suo avviso la rivolta politica sarebbe sfociata in “ferocia asiatica”; folle scaltrezza dimostravano i mandarini di Lenin cullando “l’idea che i lavoratori russi siano l’incarnazione della gentilezza spirituale”. Aveva ragione lui.

Riparato a Berlino nel 1921, Gor’kij rientrò in Russia dal 1928, divenendo il cantore del ‘realismo socialista’, il prototipo dello scrittore ‘impegnato’, l’aedo del destino sovietico incarnato da Iosif Stalin. Il quale – dotato di un indiscusso talento per i colpi di teatro e per aizzare cospirazioni – pare abbia ordinato di ucciderlo, nel 1936. Da tempo sotto osservazione dell’NKVD, alieno all’era che aveva contribuito a costruire – “Mi hanno circondato… assediato… non posso né avanzare né indietreggiare”, confessa a un amico, nel 1935 –, dicono che morì per l’aggravarsi di una polmonite. La morte mutò lo scrittore in mito, l’“iniziatore della letteratura sovietica”, come dicevano i manuali; un tempo, si leggeva molto anche in Italia.

Maksim Gor’kij con Anton Čechov

Di Maksim Gor’kij, vita da film americano – orfano a sette anni, decine di lavori, rinvigorito dal dolore e dalla fame, scrittore “dei vagabondi e dei diseredati” (Ettore Lo Gatto) –, appassiona l’istinto per la contraddizione. Nel 1900 viene riconosciuto, ‘benedetto’ da Lev Tolstoj – “Mi è piaciuto: Gor’kij è un vero uomo del popolo” –, a cui dedica un delicato, eccellente libro che registra gli incontri avuti con lui; eppure, pochi anni dopo, stordito dagli eccitanti rivoluzionari lo accusa di fare “letteratura della mediocrità piccolo-borghese”. Allo stesso modo, in un discorso pubblico, attacca Dostoevskij, “è un inquisitore medioevale… ha dipinto con vivida perfezione il tipo dell’egocentrico, del degenerato sociale”, ma lo difende dalla protervia censoria stalinista. Soprattutto, scrive un magnetico elogio di Lenin (“Lo scopo fondamentale della vita di Lenin è la felicità degli uomini… La sua vita privata è tale che in un’epoca di grande fervore religioso lo si sarebbe considerato un santo”), ma nelle lettere ne condanna l’azione, “è un imbroglione a sangue freddo che non risparmia l’onore e la vita del proletariato, di cui non conosce nulla”. In un saggio stigmatizza l’operato di Lenin e di Trockij, “intossicati dal sudicio veleno del potere”, i quali “credono plausibile ogni sorta di crimine, compresi gli arresti insensati e l’abolizione per decreto della libertà di parola”.

Dei suoi romanzi – La madre, Infanzia, Storia di un uomo inutile – non resta che un nebuloso ricordo: più che le accuse di Aleksandr Solženicyn (in Arcipelago Gulag racconta che la messianica gita di Gor’kij nei campi di lavoro forzato per riferire che “i detenuti ci vivono benissimo e si emendano meglio”) o le opere editoriali patetiche per ideologia (la fatidica “storia della costruzione del canale tra il Mar Bianco e il Baltico”, edita nel 1934, libro collettivo di un nugolo di scrittori sovietici, teso ad esaltare le opere pie dello stalinismo), è il ritratto di Vladislav Chodasevič, poeta timidamente antibolscevico, espatriato, maestro di Nabokov, raccolto in Necropoli (in Italia: Adelphi, 1985), a decrittare le ambiguità di Gor’kij. Ne viene fuori il piglio di un uomo generoso fino al parossismo – “La cerchia di persone che viveva a suo carico era assai vasta, non meno di una quindicina, in Russia e all’estero… Famiglie intere vivevano a sue spese molto più largamente di lui stesso” –, coltissimo perché autodidatta – “Aveva letto una quantità colossale di libri e ricordava tutto” –, modesto – “Era straordinariamente modesto, perfino quando era soddisfatto di sé. Era una modestia autentica”. I caratteri dell’‘arrivato’ si fondevano, in Gor’kij, con quelli dell’eterno scontento, per cui la vita, tara d’infanzia, è sempre insaporita di chiodi; il talento letterario con la certezza che l’arte è inutile; l’ottimismo connaturato con la scaltrezza acquisita nei bassifondi, il sospetto verso ogni forma di potere, che sempre divora. “Inquieta e affascina il ricercatore non solo il diapason assai ampio del destino letterario e umano dello scrittore, non solo quel suo quasi mezzo secolo d’attività e vita, ma la qualità della sua epoca, la materia storica dentro la quale si stampa la traiettoria del suo moto lungo, variato”, ha scritto di lui Vittorio Strada, in un articolo pubblicato su “l’Unità” il 10 agosto del 1963.

Sono due i dettagli che incatenano la personalità di Gor’kij, secondo Chodasevič. Intanto, il banditismo, idolatrato. “Gli piacevano tutte, decisamente tutte le persone che portavano nel mondo l’elemento della rivolta, o anche della monelleria – fino ai piromani”. E poi, l’odio per la verità, per chi crede di poter propalare l’annuncio della verità come una rivelazione. “Tutta la sua vita è attraversata da un sentimentalistico amore per ogni forma di menzogna e da un tenace, coerente odio per la verità. ‘Io’, scriveva a E. D. Kuskova nel 1929, ‘odio la verità nel modo più schietto fermo’”. Per questo, Gor’kij, consapevole che ogni potere mente affermandosi come vero e che solo la rivolta, in sé, esaurisce il destino dell’uomo, nello spasmo, è l’autentico araldo della Rivoluzione – e il suo anatema. Per essere un intellettuale ‘impegnato’ in Russia, d’altronde, bisognava spararsi nel cuore, come fece Majakovskij, oppure subire la lenta abulia, l’agonia macabra, il cappio in testa, come capitò a Gor’kij.

Nell’aprile del 1928, Pasternak, che apprezzava il romanziere Gor’kij ma era turbato da ogni legame con il potere, gli aveva scritto, “Io sono ad alcune migliaia di verste da lei. Io posso pensare e ripensare. Io posso scrivere una parola e cancellarla… Che la barbara missione del lavoro per tutti sia tolta a lei e lei possa dare libertà alla propria impeccabile immaginazione, dispensato dalla necessità di correggere gli errori altrui. Ecco in allusione, il mio profondissimo augurio”. Gor’kij faceva gli anni – Pasternak si illudeva di poter vivere fuori dal mondo.

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