“Io scappo con la faccia tra le mani”, Witold Gombrowicz
Ferdydurke è un libro inammissibile, a cominciare dal titolo. “Ferdydurke” infatti non è un personaggio, non è un luogo, non è una parola polacca, non c’entra niente con il romanzo di Witold Gombrowicz. Ferdydurke è un anagramma. Freddy Durke, altrimenti chiamato Mr. Mouse Man, è un personaggio che viene citato in un libro di Sinclair Lewis, Babbitt, alla fine del sesto capitolo, seppure per poche righe, e il titolo di Gombrowicz sembra provenire proprio da qui, da questo personaggio/fantasma che, tale un Godot beckettiano, non compare in Babbitt. Freddy Durke, quindi, cioè Ferdydurke, ovvero l’assenza del personaggio dal romanzo. Il capolavoro dell’immaturità di Gombrowicz porta in sé molti misteri, molti giochi nascosti, e l’apparentemente inspiegabile titolo, “Ferdydurke”, dal Ferdy Durke di Sinclair Lewis, è uno di questi.
Ferdydurke racconta della regressione allo stato infantile del protagonista, Gingio Kowalski, uno scrittore trentenne che poi è lo stesso Gombrowicz, fin dalle prime pagine, poiché autore del libro di esordio di Gombrowicz, Ricordi del periodo di maturazione, noto anche come Bacacay. Gingio è immaturo, o meglio incerto della propria maturità, irrealizzato, insicuro di sé e degli altri, tanto che di colpo si sveglia scolaro, di nuovo un bambino, alla mercé del professor Pimko, che lo riporterà a scuola. È un sogno, un incubo, o è la realtà? Anche Gombrowicz, l’autore, è un ragazzino, lo dice lui stesso; e scrive con il diletto incauto di un adolescente ribelle, sempre pronto a rivoltarsi al mondo degli adulti, degli altri, dei supposti scrittori che lo circondano e del mondo letterario che lo annoia o lo ripugna, che sia in Polonia o in Argentina o a Parigi. Fin dal primo capitolo Gombrowicz/Gingio ci mostra quali saranno il ritmo e il tono e il contenuto del libro, scrivendo: “La cultura mondiale è finita preda di un branco di donnette tutte culo e camicia con la letteratura, tutte pappa e ciccia con i valori spirituali e con l’estetica, quasi sempre sprovviste di idee e concetti personali…”. Ferdydurke si oppone a tutto questo, alla cultura e alle strutture predefinite dell’arte, però con immaturità, cercando la radice più profonda dell’espressione artistica, e quindi del superamento dell’espressione artistica, nell’infanzia, nell’istinto, in ciò che non sappiamo di sapere e che pure sentiamo, che pure possiamo creare, senza forme predefinite. Ferdydurke è un romanzo di invenzioni e di giochi, di regressioni al tempo stesso filosofiche e narrative, come nel celebre capitolo Filidor foderato d’infanzia, in cui la Sintesi e l’Analisi, cioè Filidor e Anti-Filidor (il professor P.T. Momsen), si sfidano a duello. “Signori” chiosa Gombrowicz, nella Premessa a Filidor foderato d’infanzia, “chi schiaffeggerà il sedere che osate mostrare alla gente quando vi inginocchiate all’altare dell’arte?” E ancora: “Venuto è il tempo, scoccata l’ora sull’orologio della Storia: cercate di superare la forma, liberatevi dalla forma! Smettetela di identificarvi con quel che vi limita. Artisti, resistete alla tentazione di esprimervi. Diffidate delle vostre parole. State in guardia dalla vostra fede e non credete ai sentimenti. Liberatevi della vostra apparenza esteriore, temete l’esteriorizzazione come l’uccello che trema di paura davanti al serpente”.
Diffidate delle vostre parole, non credete ai sentimenti. Ferdydurke è un libro rivoluzionario, benché Gingio e lo stesso Gombrowicz si ribellerebbero a questa definizione, essendo la rivoluzione, ogni rivoluzione artistica, a sua volta un’apparenza, ossia una struttura come un’altra, sempre artificiosa. Dunque Ferdydurke è un libro antiartistico, che si ribella a ogni possibile struttura predefinita, che sia narrativa o teorica o meramente estetica. Gombrowicz cerca una nuova via per il romanzo, pur sapendo che tale via non c’è se non nel suo stesso romanzare o teorizzare, creandosi strada facendo, scrivendo, rivoltandosi alla Forma e agli Altri, prendendo il Lettore per il bavero della storia e scuotendolo, liberandolo dalla fissità della struttura, della trama, della ragione, della cultura. Così Filidor foderato d’infanzia è una parodia di Kant, mentre la scena sotto la finestra e nella stanza della Liceale, nel capitolo Sgambettamento orgiastico e nuova cattura, con due pretendenti/innamorati (il professor Pimko e Kopyrda, entrambi illusi da una falsa lettera di Gingio) e la Liceale (la Giovanotti, forse amata anche da Gingio) e un osservatore nascosto, che guarda dal buco della serratura (il narratore Gingio/Gombrowicz), può essere una rivisitazione comica delle narrazioni à la Shakespeare, à la Romeo e Giulietta, una caricatura del romanticismo artistico/poetico che finisce nel caos e nel dibattersi degli indomi personaggi.
Ferdydurke è uno dei libri maggiori di Witold Gombrowicz, un punto di inizio e di svolta nella sua opera, a cui ritorna anche nei romanzi seguenti, soprattutto in Pornografia. Lo pubblica a trentatré anni, in Polonia, anche se il libro verrà letto e “capito” soltanto negli anni successivi, quando sarà in Argentina. Nel 1939 Gombrowicz parte infatti per Buenos Aires, dove rimane oltre vent’anni e dove scrive gran parte delle sue opere, a cominciare dal Diario, pubblicato “a puntate” su “Kultura”, un mensile stampato a Parigi, per gli emigrati polacchi. Il primo testo che invia a “Kultura” è il combattivo Contro i poeti, un saggio tratto da una conferenza in cui se la prende con la “forma” della poesia e quindi con la poesia stessa, con i vizi dei poeti, con la loro astrazione dalla realtà e dalla verità e di conseguenza dall’Uomo, dal lettore. Il discorso comprende anche la prosa; Gombrowicz cita Joyce e Broch e persino Kafka, spiegando che i loro libri ci appaiono distanti, inaccessibili, perché “sono stati scritti in ginocchio, con la mente rivolta non al lettore bensì all’Arte o a qualche altro concetto astratto” – e qui ci ricolleghiamo alla domanda/provocazione di Ferdydurke: “Signori, chi schiaffeggerà il sedere che osate mostrare alla gente quando vi inginocchiate all’altare dell’arte?”
Il Gombrowicz del Diario sembra un prosieguo al Gombrowicz delle opere, di Ferdydurke, capace di schiaffeggiare Kafka o Joyce o Broch o persino Dante (“Se Dante mi annoia e se mi considero superiore a lui, lo affermo senza paura: è un mio diritto” dirà in seguito) o di criticare e sbeffeggiare il mondo letterario argentino, che fa capo a Jorge Luis Borges e soprattutto alla tanto disprezzata Victoria Ocampo, che per Gombrowicz è il simbolo delle alte sfere della società buenosairense, dell’“Argentina intellettuale, estetizzante e filosofante”, come scrive cenando con la sorella Silvina Ocampo e con Adolfo Bioy Casares e con lo stesso Borges – mentre lui è affascinato dagli strati inferiori del paese, dalle “tenebre del Retiro”, soggiunge, e dalla strada.
Gombrowicz deve sempre rivoltarsi a qualcosa o a qualcuno per esprimere la sua arte, che nasce dal dileggio o dal disprezzo estetico o artistico. Come se la prende con Kafka e con Joyce, per esempio, attacca anche Sartre, pur definendo Ferdydurke un’opera sartriana ante litteram, un libro esistenzialista prima dell’avvento dell’esistenzialismo; e tuttavia Sartre, afferma Gombrowicz in Corso di Filosofia in sei ore e un quarto, è un “triste ometto”, un marxista esistenzialista costretto a scendere a patti con le mode filosofiche parigine, per vigliaccheria, per l’impossibilità di riconoscere davvero l’esistenza dell’Altro, a differenza sua, di Gombrowicz, del suo pensiero e della sua arte – che pure, bisogna aggiungere, ha qualcosa di inconcluso, di imperfetto, da Ferdydurke a Gli indemoniati a Trans-Atlantico a Pornografia a Cosmo, perché Gombrowicz è un grande scrittore del Caos, un artista caotico, mai realizzato del tutto, forse proprio a causa dell’immaturità da lui tanto amata. D’altra parte è Gombrowicz stesso a notarlo, in Testamento: “L’intima certezza che l’imperfezione fosse superiore (in quanto più creativa) alla perfezione è stata una delle intuizioni fondamentali di Ferdydurke”. Oppure, introducendo Pornografia: “Essere un uomo vuol dire non essere mai se stesso”. Così le sue strutture sono imperfette, improvvisate, cercando di negare l’idea stessa di struttura, di arte predefinita intellettualmente, scomponendo ogni artificio narrativo fra capitoli parodistici o discorsivi, sempre ribelli, per una “trama” (posto che possa definirsi tale: trama) che si crea nel momento della scrittura, attraverso il libero muoversi e parlare e rivoltarsi dei personaggi e dell’autore che si sovrappone a loro, di Gombrowicz che racconta o che teorizza e che comunque si esprime – “nel terrore della critica, nell’odio della critica e nella speranza di sfuggirle”, spiega nel Diario.
Gombrowicz è inammissibile perché si avvicina alla frantumazione del romanzo pur romanzando, non frantumandolo del tutto e anzi liberando i propri personaggi nella finzione del romanzesco, che è, nel suo caso, sregolata, una finzione senza paraocchi intellettuali o strutturali o filosofici, distante anni luce dai romanzi “teorici” o “sperimentali” in voga negli anni Sessanta e Settanta, dal cosiddetto nouveau roman (avversato anche da Romain Gary, che non a caso era un grande estimatore di Gombrowicz) o dalle opere di Sartre, di Moravia, di Calvino, eccetera. Gombrowicz è un rivoluzionario dell’Io, non solo nei romanzi ma anche nel Diario, a cominciare dal celebre incipit: “Lunedì: Io; Martedì: Io; Mercoledì: Io; Giovedì: Io…”. Non c’è altro che “Io”, per Gombrowicz, ma è il povero “Io” di chiunque, da esibire o da ribaltare scrivendone, un “Io” immaturo e universale che si fa posa nel diario o narrazione e derisione nei romanzi. Il Lettore, noi, complice o succube di Gombrowicz, della sua frenesia e delle sue ribellioni, dei suoi insulti e delle sue opinioni, non può che chiudere il libro e insultarlo e dimenticarlo oppure farsi beffe del mondo insieme a lui, schernire la goffa serietà dell’Arte e dei cosiddetti adulti, contro la poesia, contro la letteratura, contro la maturità, contro il pensiero, contro Gombrowicz stesso, e seguirlo, magari proprio rileggendo l’intollerabile Ferdydurke. “Corretemi pure dietro, se volete” dice Gingio Kowalski, cioè Gombrowicz. “Io scappo con la faccia tra le mani…”. E noi, scappando insieme a lui, coprendoci la faccia insieme a lui, non credendo ai sentimenti e diffidando di ogni parola – noi lo rincorriamo.
Edoardo Pisani