“Fecero scempio di cose vere”: le poesie di Egle Marini
Poesia
Blu Temperini
Gli dèi dell’anagrafe l’hanno preso di mira, rosi da invidia, forse. Fatto sta che fino a un florilegio di mesi fa di Giuseppe Conte ce n’era soltanto uno. Lui. Il poeta. L’avventuriero culturale. Il romanziere tradotto in lungo e in largo, per il mondo. Ora la misera ricerca sul web – che tiene conto di tutto tranne dell’unico, il genio – sancisce l’altro, quello che sta in Parlamento, come il noto, il famoso, Giuseppe Conte. Pare un incubo borgesiano da cui il poeta “europeo”, come di lui diceva Yves Bonnefoy, ligure di nascita, traduttore degli anglofoni – tra gli altri, in una costellazione che è già un manifesto di poetica: Shelley, D.H. Lawrence, William Blake, Walt Whitman – si libera esagerando la sfida nell’unico campo che conta, quello dell’arte. A quarant’anni dalla pubblicazione de L’ultimo aprile bianco – raccolta edita da Guanda, che fu folgorante, insieme a quell’altra, L’Oceano e il ragazzo, del 1983 – Conte torna alla peripezia romanzesca con I senza cuore (Giunti, 2019). Pur tenendo sul banco le poesie di Conte – semplificando: l’Oscar Mondadori del 2015, curato da Giorgio Ficara – occorre ricordare che il poeta ha anima sdoppiata, anzi, decuplicata – è saggista e scrittore per il teatro, pure –, che si arma al romanzo molti anni fa – Primavera incendiata è stampato da Feltrinelli nel 1980, la considerazione critica è sempre più vasta da Il terzo ufficiale, Longanesi, 2002. In questo caso, il romanzo, che scatta da Cesarea, “30 agosto del 1101”, ruota intorno alla figura di Guglielmo Embriaco – ma i personaggi che fugaci abbagliano le pagine sono molti, messi in lista in calce al romanzo – robusto cavaliere genovese, che insieme a Goffredo di Buglione prese Gerusalemme, portando nella sua città il Sacro Catino, il piatto su cui Gesù avrebbe spezzato il pane durante l’Ultima Cena (“Il Santo Sepolcro era un pretesto, tutti noi arrivati in Terrasanta pensavamo non alle piaghe e alla crocefissione, alla morte e alla resurrezione di Cristo, che sia benedetto il suo nome, ma alle nostre tasche da riempire, se eravamo poveri, e al potere sul mondo da conquistare, quelli che erano già ricchi, patriarchi, principi… ed eravamo pronti a far scorrere fiumi di sangue per raggiungere i nostri scopi”, ammette il “mastro d’ascia” Giuseppe Pietrabruna, lieto alter ego dell’autore). Conte, con violenta verve, ci porta dall’Oriente screziato alla Cornovaglia, dal Sepolcro all’isola bretone di Ys, giocando alto con la contraffazione – il testo spurio Historia vasis e smaragdo, doverosamente restaurato, che costituisce l’osso mistico del romanzo. C’è, come sempre in Conte, qualcosa di innocente e di intellettuale, di bambino e di savio, di candido e di feroce. A tratti si tratta di far memoria di Umberto Eco, piuttosto, io vi vedo certi fuochi di Robert Graves – di certo, ci s’imbarca nella decisa, indecente cerca della verità. Delinea destini desunti da sfida e oblio, Conte – la vera utopia sarebbe ammirare la sua traslucida esigenza di vero, di bello, lì dove, senza cautela né cura, si governa. (d.b.)
Da che ispirazione arriva “I senza cuore”, qual è stato il là, lo scatto, la nota iniziale che ha dato avvio alla vicenda, fantasmagorica?
L’ispirazione, concetto in cui credo fermamente e che fui uno dei primi in Italia a rimettere in circolazione sin dagli anni Ottanta del secolo scorso, non senza attirarmi antipatie e sospetti, ha per me modalità e fasi diverse quando scrivo una poesia rispetto a quando scrivo un romanzo. L’ispirazione per una poesia mi arriva improvvisa e veloce, inchiodandomi a una parola o a una immagine: mi prende quasi fisicamente, con una tensione che sento spesso somatizzarsi in un dolore alla nuca. Spesso è il coniugarsi anomalo di un suono e un senso, di una visione e di un pensiero. Per il romanzo, l’ispirazione può avere la forma di una folgorazione iniziale, ma poi non procede per scatti brucianti: piuttosto si muove per passi lenti, a volte tortuosi, e richiede una lunga, difficile fedeltà mentre il progetto man mano si viene formando. Per I senza cuore è stato così: all’inizio la vista del Sacro Catino, il vaso di vetro color smeraldo seminascosto nel Tesoro di San Lorenzo, nei sotterranei della omonima chiesa genovese, arrivato lì dalla Terrasanta dopo la Prima Crociata. E poi, per accumulo: la nascita della potenza economica e marinara di Genova, la figura di Guglielmo Embriaco, che Jacopo da Varagine chiama Guglielmo il Malo, la sua gloria (cui fa riferimento anche Tasso nella Gerusalemme liberata) e il suo sparire nel nulla nelle cronache del suo tempo. Quando ho letto che dopo il 1112 il nome del grande condottiero, navigatore, inventore, console della città e fondatore della sua potenza navale e economica non ricorre più in nessun documento, e non si sa niente della sua fine, mi sono sentito legittimato e spinto a immaginare il suo viaggio in direzione opposta a quella dell’Oriente, a cercare la verità proprio su quel Sacro Catino. La storia si travasa nel mito e del fantastico. Nello stesso modo in cui la nostra vita, la nostra esperienza individuale ha sempre a che fare con il mistero. E sono riemerse le leggende bretoni, il re Gradlon, la città sommersa di Ys, rimaste fondamentali, non so come e perché, nella formazione del mio immaginario. Un altro elemento di ispirazione, questo comune alla poesia, è il mare. Il viaggio per mare, la sfida alle onde, la libertà del mare e tutto il dolore che contiene. Era stata simile l’ispirazione, scattata durante un mio lungo soggiorno in Bretagna, per scrivere Il terzo ufficiale (2002) che ha dovuto attendere l’edizione francese e quella greca per avere attenzioni critiche importanti (in Italia era liquidato come un gioco). In realtà, io non gioco con quello che scrivo. L’ispirazione per me ha sempre qualcosa di esistenziale, necessario e inevitabilmente spirituale, nasce da un’ansia metafisica di ricerca e di conoscenza.
Come lavori? Intendo. In questo libro fai sfoggio, per dare autenticità alla vicenda, a una vasta mole di conoscenze, dai miti di Bretagna alle tradizioni arabe, dagli arabeschi a Gerusalemme alla cerca del vaso di smeraldo a Nord, ai termini, i modi, i materiali marinareschi. Quali sono le tue fonti e come la ricerca si fonde all’ispirazione, ecco.
La ricerca accompagna l’ispirazione. Quest’ultima può materializzarsi in un foglietto di poche righe, scritto d’impulso, per una necessità dell’immaginazione. Ma quando diventa chiaro il tempo in cui si svolge la vicenda e appaiono alla mia mente un po’ come fantasmi i personaggi che la vivono, quella esigenza di “verosimile” di cui parla Aristotele nella sua Poetica mi spinge alla documentazione. Sembra una parte noiosa del lavoro romanzesco, invece per me è un momento di scoperta e di arricchimento dell’immaginazione. Per I senza cuore ho letto molto sulla Genova del tempo, su Guglielmo Embriaco, sia documenti coevi sia studi contemporanei, sulla Prima Crociata, sulla navigazione e sulle navi, sui particolari della vita quotidiana a terra e su una galea. Ho preso appunti riempiendo un quaderno più spesso del libro stampato. Su ogni personaggio ho steso ritratti comprendenti l’aspetto fisico, il carattere, i tic linguistici, che crescevano su se stessi: anche soltanto per trovarne i nomi ho compulsato decine e decine di pagine delle cronache medievali. Ho passato tante ore dentro la galea riprodotta su scala naturale e contenuta in quel meraviglioso Museo che è il Galata Museo del Mare a Genova. Non potevo esimermi dall’usare i termini di misura, peso e capacità del tempo: e poi i termini marinareschi, indispensabili in un contesto come quello de I senza cuore. Ho scritto nel mio studio (la mia poesia nasce spesso su taccuini in viaggio) che è ormai un antro stracolmo di libri e fogli accatastati, assistito da cinque cartelli: su uno i nomi dei singoli membri dell’equipaggio della Grifona, sull’altro l’itinerario da Genova alla Cornovaglia bretone, su un altro ancora il calendario degli eventi, poi quello con i termini di misura , infine un abborracciato disegno (ma sono un pessimo disegnatore) di una galea con tutte le sue parti specificamente indicate.
Non sei nuovo alla narrativa, anzi. Nei tuoi romanzi la lingua è fresca, agile, qualcuno direbbe troppo ‘facile’, rispetto alla tensione dei versi. In che misura il poeta si travasa nel narratore e quali sono – se ci sono – i tuoi modelli letterari quando scrivi in prosa, le tue ossessioni gemellari?
No, non sono nuovo se si pensa che il mio primo romanzo, Primavera incendiata, è del 1980, un anno dopo L’ultimo aprile bianco e tre prima dell’Oceano e il Ragazzo. Diffiderei di un poeta che passasse alla narrativa in tarda età. L’ispirazione, torniamo a quella, è sorgiva e necessaria, non può attendere tanto a manifestarsi. Così come diffido in genere di chi, raggiunto un risultato in una diversa e redditizia professione, si mette a scrivere romanzi, come tanti fanno oggi. Oggi tutto è possibile perché niente vale niente. Per il novanta per cento i romanzi che escono oggi non hanno niente a che fare con la letteratura, con una idea del linguaggio, dello stile, del mondo. Io ho sempre sentito il bisogno di “raccontare”, intendendo il racconto come “mito” nel senso greco del termine. Questo bisogno si esprime in un linguaggio diverso da quello della poesia. Non amo né il romanzo in versi né la prosa poetica: mi sembrano troppo garbati ossimori. Non amo la bella pagina. Con la quale già Palazzeschi diceva che si sarebbe pulito il culo. A me interessa il procedere orizzontale del racconto, la sua fluidità, la sua disposizione sinfonica e architettonica. La poesia in un romanzo non è solo nel linguaggio, è nella tensione epica, nella grammatica della immaginazione mitica. Almeno per me. I miei modelli, quando scrivo romanzi, sono D. H, Lawrence per il rapporto tra personaggio e archetipo mitico, Scott Fitzgerald e Truman Capote per l’eleganza musicale della malinconia nella loro scrittura, Henry Miller per la visionarietà erotica, beffarda e mistica. E poi Melville, Stevenson, Kipling, Conrad per la grande metafora del mare. Tra gli italiani, la prosa che prediligo è quella di Calvino e Soldati: amo la loro chiarezza immune da espressionismo e manierismo, ho avuto la fortuna di essere amico di entrambi, e di aver ricevuto da loro consigli e giudizi molto significativi. Per I senza cuore, ci sono anche influenze diverse e lontane: Manzoni e Dickens, ma soprattutto Victor Hugo. Qualcuno ha già notato che nell’impianto il romanzo richiama Il nome della rosa di Eco. Libro che a suo tempo chiusi dopo 30 pagine, e che solo recentemente ho letto tutto con molto diletto. Non condivido affatto le tesi teoriche di Eco. Ma neppure il giudizio apocalittico su Eco romanziere dato da certi miei coetanei come Berardinelli e Cordelli. Il rapporto con la narrativa di genere e popolare non mi sembra un delitto, anzi. Però io continuo a pensare che una trama narrativa ben costruita non possa prescindere dal poetico inteso come il “meraviglioso”, dal senso del mistero e del destino. Eco sì, ma corretto da Calvino e Borges.
Che visione etica – e quindi estetica – traluce dalle tue pagine, anche in un romanzo ‘d’avventura’ come questo?
Mi è capitato qualche volta di trovarmi tra scrittori italiani che parlando in pubblico davano per scontato che tutti – viviamo nel tempo del pensiero unico e del conformismo più atroce – dessero per scontato come loro: 1) che la verità non esiste. 2) Che tra bene e male non c’è differenza. Ho sempre preso la parola per dire che io non sono affatto d’accordo. La verità va cercata con tutte le nostre forze: anche se non sarà possibile trovarla, il dovere dell’uomo è interrogarsi su di essa, seguirne le tracce. Per il protagonista de I senza cuore, la verità sul vaso di smeraldo è più importante del potere, del denaro, della conquista. È una conquista spirituale, l’unica che conta alla fine. Per il mastro d’ascia Pietrabruna la verità è nel misticismo Sufi. Per lo scrivano Oberto da Noli è nella scrittura, nei modelli di Virgilio e Seneca, e più tardi in quelli di Thomas d’Inghilterra, Beroul, Chretien de Troyes, da cui nascono i romanzi del ciclo bretone e l’immaginario romanzesco occidentale. Verità e immaginazione, verità e bellezza, piano etico e piano estetico si fondono. Anche in un romanzo d’avventura, che una lettura superficiale può prendere per un romanzo di puro intrattenimento, ci sono temi etici che pongono bene e male in contrasto, anche se, come tra il torto e la ragione, è difficile individuare subito bene i confini di uno e dell’altro. Guglielmo il Malo e Giannetta Centurione, protagonista nascosta ma forse centrale nel romanzo, vivono il male e il bene con la massima intensità. Rosso da Porto Venere è dalla parte del bene, o è anche lui un assassino? Il tesoriere Bernardo Malocello è l’incarnazione dello spirito severo, egoista, razionale e crudele del capitalismo allo stadio nascente, e il cappellano don Rubaldo Pelle della indulgenza carnale, allegra, gaudente di certo cristianesimo medievale. Non riuscirei a pensare a un romanzo che non si ponesse problemi etici, che non si interrogasse sul destino, sul sacro, sull’eroismo, sulla ricerca di verità. Non sarà à la page, ma non me ne frega niente. Non sono mai stato di moda, perciò non sono neanche mai passato di moda. In una società che io trovo abietta, dominata dall’effimero, dal nichilismo materialista, dal fenomeno schifoso degli influencer (i veri schifosi cantori del predominio assoluto del mercato e del materialismo economico, veri pervertitori delle anime), continuo a lavorare come se dovessi continuare a sfidare il mondo in nome di una idea antagonista della letteratura, di un sogno utopico di rinnovamento della potenza creativa della lingua italiana e dell’immaginario dell’Occidente.
T’importa la narrativa odierna? Intendo: ti senti di più uno scrittore italiano, europeo, occidentale, globale?
Leggo molta narrativa, anche italiana, anche di quegli autori che preferirebbero impiccarsi piuttosto che leggere me. Ho letto Scurati, Piperno, Affinati, Missiroli, quelli che ho seguito un po’ di più, tra i più giovani. Ma non mi sento legato a nessuno. Tra i contemporanei ho sentito vicini Le Clézio e ultimamente anche Houellebecq, e sui temi del viaggio Crichton e Chatwin. Leggo con interesse anche Valerio Massimo Manfredi. Non mi piace la narrativa tutta piena di storie di coppia, di famiglia, di minime crisi esistenziali: una narrativa senza soffio mitico e senza metafisica. Mi piacciono donne che scrivono come gli uomini, e uomini che lasciano emergere la propria parte femminile. Ultimamente, ho letto Conversazione su Tiresia di Camilleri come un pamphlet mitomodernista, e mi ha deliziato Il violino di Mussolini, scritto da Mario Baudino con impagabile grazia ironica e sentimentale. Sto affrontando M di Scurati. Carofiglio, Manzini, De Giovanni hanno un linguaggio che non mi attira, quando addirittura non mi fa cadere il libro di mano. In ogni modo, rispetto al romanzo italiano, mi sento un corpo estraneo. Ho scritto libri usciti in edizione bilingue, italiano e francese e italiano e inglese, mi sento un autore europeo: così, e almeno così, aggiungendo un aggettivo che sarebbe inelegante citare, mi presentò al Collège de France Yves Bonnefoy quando mi invitò a tenervi una lezione (in compenso certi mediocri giornalisti radiofonici romani se la sono cavata con “un poeta ligure”). Ultimamente, mie poesie tradotte in turco, arabo e cinese mi hanno fatto pensare che, come sostiene il mio grande amico e maestro Adonis, la poesia è l’unica forma buona di globalizzazione.
Cosa ne pensi del tuo omonimo in Parlamento? Allargo lo sguardo: da poeta ‘impegnato’ e che non parla mai per caso, cosa t’interessa della politica di oggi, che giudizio hai su questa Europa?
Per essere sincero, ne penso tutto il male possibile. O meglio penso tutto il male possibile di un contratto di governo dove i contraenti mettono a mezzo un avvocato garante che vive barcamenandosi tra i due come Arlecchino tra due padroni, non senza pendere dalla parte del padrone che lo ha chiamato a una carica così rilevante tirandolo fuori dall’anonimato, dal nulla, dall’inesperienza politica totale, come non era mai successo nella storia repubblicana. Nessuno conosceva il professor Conte, neppure gli utenti di Wikipedia, ma io sì, almeno la sua faccia, perché digitando su google il mio nome, tra cento mie foto ne trovavo sempre una sua da imbucato, che segnalavo come impropria. Ora si è vendicato ampiamente, quanto a gloria mediatica. Ma gloria politica zero. Cultura zero. Prendere ordini da Di Maio e Casalino, ci vuole stomaco. Il mio omonimo mi sembra un tipo furbo e duttile, opportunista e carrierista, dal pessimo linguaggio burocratico: insomma, mi è del tutto simile nel nome, ma nella sostanza è perfettamente il mio opposto. Della politica oggi mi interessa la lotta contro il predominio dell’economia e della finanza globale, che impongono una scala di valori in cui all’ultimo posto vengono l’uomo, il lavoro, il sacro, la bellezza: in una parola, l’umano nella pienezza del suo senso. Sono stato in passato vicino ai Verdi, oggi in Francia e in Germania hanno risultati di primo piano, dall’Italia sono pressoché scomparsi: eppure la lotta per la salvezza del pianeta Terra è già e lo sarà sempre più nel futuro uno dei massimi temi politici all’orizzonte. Ma attenzione: l’ecologia non può ridursi a qualche aggiustamento sul tema dei rifiuti, non può accontentarsi di soluzioni unicamente tecnologiche. L’ecologia riguarda anche lo spirito. La bellezza della natura. Le fonti dell’umano. L’ecologia deve rimettere con determinazione la persona umana, la vita, la morte, la sofferenza, la felicità al centro delle cose. Francesco è l’unico che ha dato indicazioni importanti in tal senso. Ecologia deve essere anche sacro e bellezza. Almeno per me. Già nell’Ottocento Victor Hugo, genio infinito, viaggiando sul Reno prefigurava gli Stati Uniti d’Europa. Non vedo altra soluzione. Francia, Germania, Italia al centro di una Europa accogliente e forte, con la coscienza della propria grandezza, con la propria letteratura, la propria arte, la propria musica, le proprie radici cristiane, il proprio illuminismo coniugato con la propria passione romantica: banditrice dei diritti dell’uomo non meno che dei diritti dell’anima (di essi parla ancora l’autore dei Miserabili). In prima fila nella lotta per la salvezza della Terra, per un nuovo assetto economico della società, più equilibrato e giusto. Per una Europa così vale la pena di lottare. Ci pensavo passeggiando per Francoforte e parlando alla Goethe Universitat. Per quella dell’euro, della burocrazia, delle banche …
Senti, ma, quando il Giuseppe Conte narratore torna a fare il poeta? Insomma, su cosa applichi i tuoi sguardi, ora?
Come ho cercato di dirti, non mi allontano mai dalla poesia. Ultimamente ho scritto un saggio di più di 70 pagine su Baudelaire. Tra le poesie, poche, distillate lentamente, che ho scritto negli ultimi anni, ce n’è una intitolata “Non c’è un’Itaca” e un’altra “Odisseo internauta”. Mi sono reso conto che tutte le mie ultime poesie avevano come tema di fondo il mare, così la nuova raccolta si chiamerà Non finirò di scrivere sul mare, uscirà a novembre. Credo di non avere mai smesso né finito di scrivere, che è la cosa che importa di più, di non aver mai tradito il fondo poetico e mitico della mia ispirazione, a dispetto di tante difficoltà, incomprensioni, disillusioni, dolori. La poesia, il mito, sono il cuore di tutto: e I senza cuore, che ho voluto epico, corale, tutto traversato dalla luce e dalla tenebra del mare e dell’anima, è qui a dimostrarlo.
*In copertina: Giuseppe Conte nel ritratto fotografico di Dino Ignani