Giuseppe Casa ha uno strano dono: riesce sempre a sconvolgere. Il linguaggio, le trame, i personaggi: ogni aspetto, in ciò che scrive, spiazza. Armato di una capacità di indagine dell’abisso molto rara, l’autore è capace di calarsi nei panni dei personaggi più disparati, sviscerarne le inquietudini, dare sostanza letteraria alle loro morbosità. Speed, il suo ultimo lavoro appena uscito per Castelvecchi, è la storia di un ex tossicodipendente che cerca di intraprendere un’esistenza normale, farsi una famiglia. La sua antica passione autodistruttiva, però, tornerà a farsi sentire e a contendersi la scena con i deliri di una mente che non riesce mai fino in fondo a distinguere tra i propri incubi e la realtà.
Giuseppe, i tuoi libri sono tutti caratterizzati da un io narrante in prima persona. Ciò ti ha portato a calarti di volta in volta nei panni di uno skinhead, un assassino e, in Speed, in quelli di un drogato – e mi pare che ci sia riuscito sempre in modo encomiabile. Come fai a entrare, ogni volta, nell’ottica altrui e quanto è importante l’immedesimazione?
La capacità di immedesimazione penso sia una capacità da bambini, ma anche una caratteristica che gli scrittori hanno o che dovrebbero avere. Presuppone un gioco alterno che chiama inevitabilmente in causa categorie di tempo, memoria e oblio. Kafka ce l’aveva molto spiccata questa capacità, pensiamo ai tanti racconti di animali che alcuni hanno definito metafore vicine al mondo ebraico. Io, che mi sento lontano pure dal mondo cattolico, penso che gli esseri umani (quindi i miei personaggi che ne sono una rappresentazione) abbiano grossi problemi di connessione tra la vita organica e la riflessione. Per dirla meglio, identifico nella vita dell’essere umano un qualcosa di immediatamente vicino alla vita degli animali. In questa prospettiva, tra umano e animale c’è poca distanza: nella vita ‘immediata’ gli esseri umani esprimono quegli stessi atteggiamenti di protezione, di gioco, di socialità, di paura, di obbedienza, che sono espressi dagli animali privi di ragione. E io trovo che questo aspetto è insito nella natura umana tanto quanto lo è la razionalità. Poi, per dirla con Flaubert, “Madame Bovary, c’est moi!”.
Come ti è venuta l’idea per Speed?
Il romanzo è stato concepito a Milano nel 2011, mentre ero ospite di un infermiere professionale, che mi ha subaffittato una stanza. Il testo ha preso l’abbrivio grazie alla convivenza con quell’infermiere e la sua coltivazione di marijuana da appartamento che, in modo indiretto, attraverso il pagamento della bolletta elettrica, ho contribuito a produrre. Grazie all’uso e all’abuso dell’erba da parte dell’infermiere ho potuto attingere liberamente e spudoratamente ai suoi pensieri, brillantemente esposti durante tutto il mio soggiorno. Sono partito da questa ‘costruzione’. Poi, il romanzo ha cominciato a sfuggirmi da tutte le parti. Non capivo neanche io dove volessi andare a parare. Non intendevo scrivere un altro libro sui tossici alla Welsh e simili. Ci è voluto del tempo, per riabbracciarlo e farlo mio. Non scrivo nulla che non sia in rapporto con me stesso.
Io direi – ma correggimi se sbaglio – che genericamente, nella tua opera, indaghi l’oscurità, l’abisso del quotidiano. Persone normali, come il professore di Io non sono mai stato qui, rivelano il rovescio perverso del loro essere (nel suo caso, la passione per l’assassinio e la tortura). In Speed, vediamo invece un infermiere professionale alle prese con problemi di droga e l’incapacità di distinguere il reale dalle proiezioni della sua mente distorta. Ciò che vorrei domandarti, però, è il motivo di questa passione per il morboso. È perché esso è sempre in agguato dietro le rassicuranti – si fa per dire – apparenze, oppure è solo il sovvertimento della condizione di normalità a interessarti?
Che la normalità sia noiosa non occorre sia io a dirlo. In un modo o nell’altro, tutti aspiriamo alla normalità. Poi, ci accorgiamo che questa agognata normalità è fatta di dinamiche feroci, rapporti di potere, violenza sotterranea che vira verso la crudeltà e l’autodistruzione. L’assurdo, oggi, passa per normalità: politica, televisione, cinema, musica, arte, cultura, social network, premi letterari, adozioni. Di eroine ambientaliste e di gente che vuole salvare il mondo ne abbiamo piene le palle. I miei libri contengono attacchi feroci al sistema, ma io me ne frego di sensibilizzare l’opinione pubblica. Mi pare pure troppo sensibilizzata. Alla gente non piace sentirsi dire che due più due fa quattro. Più l’uomo è limitato mentalmente più è felice. La tragedia della banalità, prodotta da circostanze comuni, così resa ancora più ineluttabile, è ancora da scrivere. Comunque, ‘gli attacchi’ in Speed non sono il soggetto principale del libro, ma solo un elemento di sfondo. I miei personaggi sono prodotti della fantasia (una fantasia molto vicina alla realtà), che in qualche modo cercano di reagire all’assurdo, come Meursault nel romanzo di Albert Camus che, “come non ha potuto decidere la sua nascita, allo stesso modo non potrà decidere la sua morte”. È la condizione esistenziale. Non credo nella possibilità di raggiungere una felice armonia tra la dimensione materiale e quella intellettuale dell’essere umano: nessun evento redentivo, nel quale il carnale e lo spirituale si compenetrino e si concilino, può salvare l’uomo da uno stato nel quale egli si trova sospeso tra l’appartenenza a una vita di passioni e l’appartenenza a un mondo di sottigliezze argomentate e astratte costruzioni mentali. Nessuna astratta mediazione teorica può sanare l’opposizione tra questi due lati della condizione umana. Ivan Gravina, il personaggio narrante di Speed, vorrebbe essere normale ma, per sua fortuna, non ce la fa, altrimenti non starebbe in un mio libro.
Questo romanzo sembra, molto più dei precedenti, dipendere dalla dimensione dell’intreccio. La riflessione appare meno diffusa, più saltuaria. Insomma, Speed si allontana più che mai dalla cosiddetta narrativa di contenuti e lo fa più che nei tuoi precedenti lavori. Come mai questa volta hai voluto dare tanta importanza alla storia?
Non so se ho capito la domanda. Speed è in primo luogo un romanzo d’amore, ma non so se ho saputo raccontare una ‘storia d’amore’. In verità, non so nemmeno raccontare, figuriamoci creare una trama, una storia. Sono un narratore poco affidabile. Spesso, per esempio, inizio a scrivere a ritroso, dal finale. ‘Bello questo finale’, mi dico. Peccato che manchi la storia. Credo che la trama sia una cosa da letteratura poliziesca: Montalbano che alla fine arresta il ladro o l’assassino; l’ispettore Coliandro che balla, tocca il culo a qualcuna e sconfigge il male, tra risate e figaggine. Oppure si tratta di storie ‘edificanti’ di vite vissute, a casa, con la famiglia, le nonne, le zie (spesso queste storie vincono premi letterari importanti). La conoscenza del mondo esteriore è destinata a rimanerci estranea e quindi addirittura ostile. La conoscenza sfuggente della realtà, si traduce di fatto in impossibilità di vita e nella mancata sistemazione del mondo esteriore nella nostra coscienza. L’Occidente, in cui noi viviamo, non è fatto per la vita umana. La vita umana si è ridotta a valori d’uso. Io, più che altro, sono a caccia di ‘costruzioni’. Andare a caccia di costruzioni equivale a stare in agguato presso l’ingresso di una tana, come l’animale che spera di acchiappare sé stesso o il misterioso nemico che non si sa se provenga da fuori o da dentro la tana stessa. Spesso è un gioco di specchi, metafore di lotte interiori che ingaggiamo con noi stessi, della solitudine, della disperazione, cose così. Il predatore che si fa preda o viceversa. Detto diversamente, di come gli uomini si trasformano in mostri. Per me la lotta è anche con la scrittura, con lo stile. I personaggi dei miei romanzi sono ‘condannati’ a oscillare senza requie tra i poli di una scissione insanabile: tra la professione (allevatore di cani da combattimento, modello per artisti, ricercatore, insegnante, infermiere) e la sfera della fantasia e dell’assoluto.
Matteo Fais