“Tutti soffriamo, ma gli artisti non possono mai voltarsi dall’altra parte: il loro lavoro sta lì, nella comprensione della sofferenza”. Dialogo con Giulio Neri
Non si può e non si dovrebbe mai scrivere di un amico. Non si può perché è difficile essere obiettivi parlando di una persona con cui si sono condivisi il vino e la tavola, i segreti e le delusioni. Meno che mai, poi, quando si sono anche festeggiati insieme i successi… Sempre che non si sia proprio spregiudicati e senza peli sulla lingua, capaci per natura di scindere. Insomma, stronzi – almeno il tanto che basta. E Giulio Neri, l’autore sardo, sa che io lo sono. Quando mi dà i suoi scritti, lo sento andare in ansia come chi si reca dal medico con la paura che gli possa essere diagnosticato un male incurabile. Ma è proprio per questo che ci tiene al mio parere, perché ok le bevute in allegria e i commenti sulle tizie che passano, ma io ci metto poco a tirargli due ceffoni e dirgli “Ma che cazzo hai scritto?!”. E più di una volta, non per niente, come si suol dire a Cagliari, la nostra città, l’ho cazziato. In questo caso, però, sono felice di spendere una buona parola sul mio amico che, a febbraio, esce con ben due testi per la storica casa editrice Il Maestrale di Nuoro – un punto di riferimento per tutti noi lettori forti della Sardegna. Il quattro, in contemporanea, sono approdati in libreria la ristampa, nelle edizioni tascabili, di A tie solu bramo, il suo libro uscito lo scorso anno, e Portoro, la nuova fatica. Se non è un successo strepitoso questo, si tratta comunque di un considerevole traguardo. Un traguardo meritatissimo, sia detto per inciso. Per poter scrivere in pace, prima di recarsi al lavoro alle otto, Giulio, ogni mattina, si fa una levataccia alle quattro e inizia il suo secondo lavoro. E di fronte a una simile dedizione, le cose sono due: o è semplicemente pazzo a non dormire, oppure ci crede davvero. Io propenderei per la seconda ipotesi. Del resto, la scrittura è una cosa seria, una missione. Lo si fa perché non potrebbe essere altrimenti e si inventa anche il tempo per portarla avanti nel migliore dei modi. Ci dicevamo così, l’altro giorno, quando gli ho fatto questa intervista, di fronte a un paio di bottiglie. Poi, tornando verso casa barcollanti, mentre parlava, per poco non prendeva un palo. L’ho dovuto salvare dal successo… postumo, nel caso.
Il tuo primo libro uscito per “Il Maestrale”, A tie solu bramo, dopo un anno viene pubblicato anche nella versione tascabile. Una bella soddisfazione!
Sì, non me lo aspettavo, o almeno non così presto… Sono grato al Maestrale che mi ha dimostrato fin dall’inizio convinzione e piena fiducia. Quando A tie solu bramo è uscito, a fine settembre 2018, come narratore ero pressoché sconosciuto, persino a Cagliari, la mia città. Ho fatto diverse presentazioni in giro per la Sardegna, con ottimi riscontri di pubblico. Il romanzo, nel complesso, è stato apprezzato. Lo hanno recensito critici letterari di prim’ordine: Manuela Arca su “L’Unione Sarda”, Luca Mirarchi su “Blow Up”, Alessandro Marongiu su “La Nuova Sardegna”, il compianto Benedetto Vecchi su “Il Manifesto”. Ora mi auguro che l’edizione tascabile possa contribuire in termini di sconfinamento. Insomma, aiutarmi a trovare nuovi lettori oltremare.
In un universo diviso tra mondialismo e sovranismo, la tua storia si muove tra la Sardegna e l’Europa. Ma, dunque, cosa ti rende uno scrittore sardo? Insomma, dove risiede la tua identità letteraria?
Ma, sai, di base non c’è l’esigenza di raccontare dei luoghi specifici. A tie solu bramo si apre in un paese del Sud Sardegna, il primo capitolo di Portoro è ambientato a Cagliari – ma poi, in entrambi i casi, cominciano gli spostamenti. Questo perché, in fondo, non ho una geografia natia da mitizzare, né oasi felici. Non ho quelli che tanti chiamano luoghi dell’anima. Sono ricettivo quando si tratta di esistenze problematiche, di relazioni “a trappola”, di idee fisse. Della scena, in linea di massima, mi occupo meno. Penso che ogni scrittore abbia un focus di argomenti e una certa peculiarità linguistica per affrontarlo: è questo, credo, a determinare l’identità letteraria.
Questo testo è denso di riferimenti letterari, anche particolarmente espliciti (penso, per esempio ad Albert Camus). Esiste dunque una letteratura da cui non si può prescindere se si vuole scrivere?
In generale, ritengo di no: non ci sono testi sacri su cui formarsi. Non c’è – credo – una lista valida per tutti. Ma è pur vero che una personalità letteraria si nutre anche di esempi, di affinità e risonanze stilistiche. Io ho trovato sponda in autori diversissimi. Penso a Salvatore Satta o a Vitaliano Brancati, giusto per citarne un paio. Non sono mai riuscito, però, a considerarli dei modelli. Uno scrittore cresce nella misura in cui si discosta da sentieri già tracciati e trova una propria strada. È un processo lento, talvolta penoso, e non c’è giudice che tenga se non l’autore stesso. Qui sta il dramma, ma anche – in certi casi – una via di facile auto-assoluzione. Vedo tanti scrittori contentissimi dei loro romanzi. A me, invece, ogni volta sembra di aver tirato un colpo a vuoto. Mi sento come un pugile che perde ai punti, ma che non ha nessuna intenzione di ritirarsi.
Sarà capitato anche a te – a me costantemente – che ti si chieda quanto ci sia di autobiografico nei tuoi testi. In Portoro è presente il tema della depressione, dell’assenza di lavoro, delle relazioni “liquide”. Quanto è importante aver vissuto certe situazioni per narrarle?
Il romanzo deve raccontare una verità, costruirla, usando sempre la bugia. La capacità di elaborare i propri drammi in un narratore deve essere molto alta. Il rischio, altrimenti, è una vacua autoreferenzialità che non aiuta nessuno. Tutti soffriamo, va da sé, ma gli artisti non possono mai voltarsi dall’altra parte, perché il loro lavoro sta anzitutto lì, nella comprensione della sofferenza. Questo a ricordare che arte e letteratura non sono affatto inutili: possono finanche salvarci. Io ho riversato in Portoro un po’ di anni disgraziati, e ho potuto farlo solo nel momento in cui il peggio era passato e, anzi, la mia vita si stava avvicinando alla felicità come mai prima d’allora. Ma non saprei dirti se il vissuto sia così decisivo. Anche una vita cheta, povera di accadimenti, se è vissuta da una sensibilità profonda e ricettiva può trasformarsi in letteratura.
In questo testo, molto più che nel precedente, anche il sesso entra in scena come elemento fondamentale. A tuo avviso, indagare la sessualità è davvero importante, come insegna Moravia, per capire il mondo e un determinato contesto storico?
La sessualità è spesso banalizzata nella descrizione di manovre e gesti, nella trattazione della meccanica. Fermo restando, in scrittura, la mia predilezione per il gioco di carambola (suggerire, alludere), con Portoro vorrei introdurre un distinguo tra pornografia e pornologia: mi sembra che una certa maniera di raccontare la sessualità e i suoi pervertimenti possa metterci in relazione – come nient’altro – con i nostri stereotipi, con la nostra vulnerabilità. Tutto comincia dalla debolezza, perciò credo che nel mio libro l’indagine sulla mascolinità sia fra gli aspetti più interessanti. Ho la sensazione che Carmelo Hayez, il protagonista, dica della psicologia maschile molto più di quanto non riescano certi seduttori raccontati in altri libri e in tanto cinema. Ma la mia, si capisce, è una considerazione di parte (ride).
Matteo Fais
* in copertina, Giulio Neri fotografato da Matteo Fais