La stanza è bianca e le grida dei gabbiani la restringono, insieme al traffico delle automobili, da qui sembrano pesci grigi. Devo impaginare la puntata del romanzo di Giorgio Anelli e visto che cita Caravaggio, per caso – mi affascina la bianca tristezza di Gesù e l’uomo alle sue spalle che urla e pietrifica l’aria – scelgo di educare il ‘pezzo’ intorno alla Cattura di Cristo. Leggo le scarne informazioni. Realizzato nel 1602, è custodito alla National Gallery of Ireland, Dublino. Sono a Dublino. Scalcio. La camera è larga quanto l’apertura alare delle mie braccia. Sbraccio. Caravaggio a Dublino. L’idiozia mi soffoca.
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L’uomo con la lanterna, in fondo, vuole vedere il Figlio dell’Uomo, ma il mantello, alto, segno della Passione e della Provvidenza – che sono tutt’uno – ostacola gli occhi, tentacolari. Giuda tiene stretto a sé Gesù, è sempre il più devoto dei discepoli – gli altri hanno sviato dalla preghiera, vertiginosi al sonno. Vorrebbe salvarlo – in una ultima, tardiva redenzione – dal soldato in corazza rinascimentale, di cui non vediamo il viso, è un semplice esecutore, la legge lo ha reso sfacciato, scartavetrata la faccia. Le mani di Gesù, in basso, sono pazzesche – le dita sono come strappate e ricomposte alla rinfusa, forse formano una cifra, un salmeggio – è la rassegnazione, la rabbia spaccata, il dubbio a censire quelle mani? Sappiamo che quelle mani sono già state crocefisse, che sono lì, prova di un amore disumano. All’altro lato del quadro, le mani spalancate del discepolo, rotto all’urlo: sembrano radici incardinate nell’aria.
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Che il quadro sia stato ‘ritrovato’ nei Novanta, a Dublino, dà a questa ‘cattura’ – così malinconica – un significato duplice, che va avvicinato a palmi aperti.
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Poco prima, a Graystones, sulla costa. Panchine di pietra rivolte al mare – le scogliere scandiscono l’audacia dei cormorani. Ogni panchina è dedicata a una famiglia, a un defunto. Una è dedicata allo scrittore Patrick McGrath. Qui i morti non muoiono mai. Ti siedi a guardare il mare ed è come se fossi in groppa a un morto – dal mare vengono gli avvisi degli andati. Per questo, anche il suicidio di Giuda ha bisogno di cura.
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Dún Laoghaire si chiama come un re leggendario irlandese – dicono che qui James Joyce abbia scritto un pezzo dell’Ulisse – un museo ricorda il memorabile evento. C’è il porto, una sfilata di quartieri con case basse, graziose, molto curate. Per strada, non c’è nessuno – come se l’umanità fosse scomparsa, all’improvviso. Guardo dentro le case, invento la vita. Gli irlandesi seppelliscono il loro cuore nel giardino di casa, poi vivono, come tutti, quel che bisogna vivere.
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Se si osserva senza cautela, capisci che è in atto una battaglia epocale tra gabbiani e corvi. I gabbiani urlano in faccia ai corvi, sgraziati – i corvi vincono in virtù di una scaltrezza superiore. L’esito della battaglia determinerà il vero padrone d’Irlanda.
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Strade di Dublino: vagabondi a frotte. Uno, seduto, ha i rasta, avrà 25 anni, batte contro una ciotola, impegna un rito buddhista. Dunque sono io quello che, davvero, non ha casa al mondo, né virtù né scopo.
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Intorno alla statua di James Joyce in Earl Street accade un po’ di tutto: bisognerebbe scriverci un romanzo. Prima vedo quattro anziani, rigurgito tardivo dei Dubliners, forse, frutto di un pensiero di JJ. Più tardi, intorno alla statua, una breve processione di cinesi. Tra gli stendardi che ostentano mi colpisce quello che dice: “Lo spettro demoniaco del Comunismo governa il nostro mondo”. Mi informo. Quel manipolo di cinesi sono adepti del Falun Gong, una pratica semplificata di buddhismo, che propone esercizi in grado di bilanciare corpo e mente. Nel pamphlet che mi offrono spiccano tre parole: “Verità Compassione Tolleranza”. Dal 20 luglio del 1999, a causa del crescente successo, il Falun Gong viene sistematicamente represso dal Partito Comunista Cinese. “Milioni di cinesi sono stati costretti a rifiutare la pratica, sono stati imprigionati, torturati, espulsi dalle scuole, licenziati o costretti a vivere in esilio a causa della loro adesione alla pratica del Falun Gong”, leggo. “In centinaia sono stati uccisi”.
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Irlanda, terra dove perseguitati e minoranze sono accolti. Poco dopo la processione dei cinesi, si alterna un gruppo di evangelisti. Propongono “un rosario per l’Irlanda”. Nei pub, in pieno pomeriggio, non c’è uno che non dialoghi con la propria pinta – d’altronde, dicono i cartelli, “Non correre, prenditi il tempo per una Guinness!” – mentre i Burger King rigurgitano di italiani.
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Piuttosto, è quando sorvolo le Alpi, in quelle conche bianche, che riconosco Samuel Beckett e la sua incessante ricerca di un verbo che disarticoli il silenzio.
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Cantano ovunque. Una ragazza mi sembra bravissima, canta Leonard Cohen – mi spreme le viscere, la guardo, ma non so andare oltre la sua anima di vetro. Le attenzioni della via sono per una quindicenne che canta con spavalda sicurezza: un uomo, forse il padre, le fa un video e Dublino fiorisce di applausi per il prodigio. Io prediligo, però, l’altra, di cui nessuno si accorge, che ha petali tra le vocali.
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Tuttavia, desta ancora impressione. In Irlanda si sa che se una casa esiste è perché un poeta ha seppellito un verbo tra quelle pietre – l’Irlanda stessa, probabilmente, sa di essere l’esito di un canto, il suono crudo di una elegia campestre, il soffio di un sonetto. All’aeroporto sei accolto dai faccioni e dai versi di William B. Yeats e di Oscar Wilde. Soltanto in Irlanda, credo, l’enorme edificio di una banca è prestato per farvi abitare un poeta. Presso la Bank of Ireland, elefantiaca struttura in Westmoreland, detta, con agio accademico, “Cultural & Heritage Centre”, una mostra onora Seamus Heaney, che quest’anno ne farebbe 80. La mostra, “Seamus Heaney: Listen Now Again”, organizzata dalla National Library of Ireland, non è un semplice omaggio: è una rassegna ‘mostruosa’ di documenti, di lettere, di manoscritti, di materiali video. La costruzione ‘scenica’ e tematica sfocia nelle ultime parole del poeta dettate alla moglie, dalla chiatta di Caronte, Noli timere, non aver paura. Che il poeta sia leggenda, ipotesi di una identità astrale, parola che scorre come il sangue e la galassia commuove, è inevitabile. C’è quindi una giuntura tra il raspare dei gabbiani e l’ubriaco che cammina sghembo su Pearse Street, tra l’icona di San Giorgio che con erotica eleganza fiocina il drago alla National Gallery e la pietra angolare che ha dato avvio al Trinity College, tra la mia parola e la tua risposta – lo zenit è il poeta, che nella sua cellula di miele e di aghi accarezza i denti della Storia. Finché un popolo, una nazione si riconosce nel suo poeta, dico, senza gargarismi agiografici ma con la sontuosa semplicità del pane, del sale, c’è vita.
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Di sera, a Dún Laoghaire, l’incontro. Nel candido giardino di una villa, che ne fiancheggia altre, altrettanto candide, vedo una volpe. Lei mi vede, si blocca. Magra, lunga, bellissima. All’inizio penso che sia una visione: l’incontro con la bestia in uno spazio educato dall’uomo è come un respiro d’angelo. Sbatto le palpebre. La volpe è sparita. Mi nascondo dietro il cespuglio di una villa, con il rischio di farmi prendere per ladro – e relativo rondò di botte irlandesi. La volpe sbuca dal cespuglio di fronte. Mi vede. Mi fissa. Ha un viso umano, sarà venuta qui, dalle basse colline, a danzare tra i rifiuti. La sua eleganza mi affascina. Giochiamo un po’ a nascondino. Poi lei, più intelligente, si tuffa in un altro cespuglio, non la vedrò più. Dicono sia la messaggera dei morti, la volpe; vorrei poterla cavalcare, ma questo è un pregio concesso ai bambini, un premio pattuito con il sonno.
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Dell’uomo, capisco, mi importa l’attimo in cui è corvo e potrebbe essere volpe; e le mani, che possono essere ogni cosa. (Davide Brullo)
*In copertina: una miniatura del “Book of Kells” custodito al Trinity College di Dublino