Terzina: tre versi endecasillabi.
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È l’alba di sabato3 agosto del 2019 e l’azione si svolge da Rimini verso Firenze, tra le curve del “Muraglione”, quelle in cui tre persone sono in viaggio per raggiungere un luogo infernale. Per ascoltare, attraverso i piedi, una manciata di versi abbastanza celebri.
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È l’alba di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300 e l’azione si svolge nel terzo girone del settimo cerchio, quello in cui sono punti i violenti contro Dio, contro la natura e contro l’arte.
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“Come quel fiume c’ha proprio cammino / prima dal Monte Viso ‘nver’ levante, / da la sinistra costa d’Apennino, / che si chiama Acquacheta suso, avante / che si divalli giù nel basso letto, / e a Forlì di quel nome è vacante, / rimbomba là sovra San Benedetto / de l’Alpe per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto; / così, giù ‘una ripa discoscesa, / trovammo risonar quell’acqua tinta, / sì che ‘n poc’ora avria l’orecchia offesa”. Dante Alighieri, “Divina Commedia”. Inferno, canto XVI. I versi non li ricordo, forse attorno al cento, o poco prima.
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Non occorre aver studiato il Divino Poeta: ben più potè il caldo ai libri quando, nonostante l’arrivo di agosto, le temperature sono ancora alte. Nel dubbio però, o meglio, nello zaino, una versione tascabile dell’Inferno è sempre utile. Pesa poco, nonostante lo spessore delle sue parole, un menhir di straordinario volume e dimensione, con ogni probabilità la più grande opera della letteratura italiana di sempre.
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“Devo dire che io, dopo aver letto giovanissimo la Commedia, l’ho lasciata poi da parte per parecchio tempo […]. Certamente la sua lettura, sedimentata in me, ha avuto, per vie che è difficile definire, degli influssi”. Eugenio Montale.
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La strada più immediata è quella che parte da San Benedetto in Alpe: un nome, per chi viene dalle Alpi venete, che è più di una promessa. Un nome familiare, al femminile, che rassomiglia alle raccomandazioni che ti fa la mamma prima di uscire all’aria aperta.
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La macchina trova ristoro e riposo a San Benedetto in Alpe dopo aver colmato la distanza che separa Rimini dagli Appennino. In testa gira un canto, quello dell’acqua che incontra la roccia. Tra noi e la cascata ci sono circa quattro o cinque chilometri di cammino all’ombra: il sentiero è tutto sottobosco, senza particolari strappi, se la memoria tiene ancora. Scarpe da trekking, zaino in spalla, dentro i ricambi, sempre necessari quando si va in montagna quindi maglietta di cotone a maniche corte e una più coprente, impermeabile.
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Si parte da quota 499 metri sul livello del mare. I primi due chilometri sono semplici: dislivello contenuto, forse 50 metri in tutto. Si costeggia il corso del fiume e quando lo si abbandona si ode il suo canto rassicurante. Ca’ del Rospo è il primo avamposto umanizzato: una struttura di sassi piccola e ben tenuta. All’interno un caminetto, qualche bottiglia vuota, un accendino. In caso di pioggia, un ottimo rifugio per riempire la pancia. Si prosegue in direzione del molino dei Romiti e dallo specchio d’acqua che gli sorride: luce e trasparenze, con il sole che trafigge i rami e disegna gli incanti della letteratura “Fantasy”. Dopo il molino si diventa traghettatori di anime, o grimpeur di montagna, senza pedali e senza biciclette: la salita di sassi si fa dura, aspra, una tagliola per le gambe.
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L’Acquacheta appare dopo circa un’ora e quaranta minuti di cammino di passo tranquillo: qualche sosta per tirare il fiato per annusare le bacche di ginepro, qualche fotografia, qualche estraniamento visivo o olfattivo. La cascata è misera: l’arsura si fa sentire anche qui e la “portata dei salti” assomiglia a un antipasto di un ristorante stellato Michelin: un accenno, o poco più. Si prosegue in direzione del fosso “Ca’ del vento”, che ospita una bella cascata. Qui faremo la pausa pranzo. Laura tira il fiato mentre Johnny guada il fiumiciattolo e osserva. Laura mi guarda: “Pieno di famiglie con i cani” mi dice. “I cani hanno sostituito i figli”. Le accenno un articolo che ho scritto su Pangea su questo fenomeno sociale: in fondo ha ragione, si figlia di meno oggi, meno pugnette.
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Bagno i piedi, poi mi accuccio e immergo le braccia sino ai gomiti. Me lo ha insegnato il nonno, l’acqua fredda dei ruscelli di montagna crea ristoro e piacere ma non si può bere perché non sai se alla fonte o più in alto ci sono animali morti che la potrebbero inquinare.
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Johnny propone di completare l’anello. Ci si rimette in cammino: il panorama cambia, si sale e si va di crinale, su e ancora su, sino a quota 990 metri. Abbandoniamo il fiume per incontrare – e farci superare – da altri camminatori. Sono quattro giovanissimi, quattro ragazze. Una ha i capelli alla Bob Marley e un paio di ciabatte, un’altra è scalza. Ci superano di slancio, le perdiamo. O sono diventate ninfee…
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Il sole è caldo e crea un effetto balsamico sui fiori. Johnny, gamba formata tra una vita negli scout e un discreto cammino verso Santiago di Compostela, sale come uno stambecco. Noi a ruota, ma a distanza. “Il sodaccio” è una catapecchia costruita a quota 768 mt slm: un cartello la segnala, ci dice che lì è passata qualche forma di vita umana. Poco dopo l’indicazione della distanza che ci separa da San Benedetto: due ore. Lungo il cammino appaiono il Massiccio del Falterona, il Monte Massicaia e il Passo del Muraglione. Case Monte di Londa è quasi il punto più alto: 957 metri. Arriveremo a 990, a Prato Andreaccio. Da San Benedetto il dislivello complessivo è di quasi 500 metri.
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La discesa verso gli inferi è una trappola per le articolazioni. Si scende a zigzag e le gambe si fanno dure. Scendere è più difficile rispetto alla salita perché nella testa ti sembra che si faccia meno fatica. Sbagliato: gambe più stanche e disattenzioni o leggerezza possono essere micidiali.
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San Benedetto appare dopo essere scesi verticalmente. Il rito pagano del bagno dei polsi nel fiume è il mio saluto e il mio ringraziamento alla natura: subito dopo entriamo nel bar e prendiamo i succhi di frutta e l’acqua.
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Con la postfazione del poderoso Davide Brullo, nel 2016 De Piante Editore ha messo alle stampe un libro su Eugenio Montale che si intitola così: “Non posseggo nemmeno una Divina Commedia”.
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“Come quel fiume, che ha per primo il proprio corso partendo dal Monviso verso levante, dalla pendice destra dell’Appennino, che in alto si chiama Acquacheta prima di scendere in pianura e a Forlì cambia nome (in Montone), rimbomba sopra San Benedetto dell’Alpe per cadere in una sola cascata là dove dovrebbe essere ricevuto in mille cascatelle; così vedemmo che quel fiume rosso (il Flegetonte) ricadeva giù per un burrone scosceso, facendo tanto rumore che in poco tempo avrebbe danneggiato l’udito”.
Alessandro Carli