22 Dicembre 2020

Apocalisse planetaria

Una profezia, per stile, è inaccettata, incredibile. La vita è un giogo di dadi: le cifre confabulano tra loro, evocando fraintesi. Il 1623 sembra un anno fausto: Heminge&Condell pubblicano la prima raccolta delle opere complete di Shakespeare – ma la moglie del Bardo spira, in agosto –, Galileo pubblica Il Saggiatore, Blaise Pascal viene al mondo. Quell’anno, Giove & Saturno si allineano fino a formare un unico astro. L’evento astronomico sfoga in leggenda: pare che l’unione degli astri, d’incredibile luminosità, abbia guidato due millenni fa i Magi verso la fatidica culla. Una voragine, quella mangiatoia.

Leggo qua e là, a partire dal sito della Nasa. L’incrocio tra Giove e Saturno non è raro. Accade più o meno ogni vent’anni. È rarissimo, piuttosto, il geometrico allineamento con la Terra. Ieri sera, tra le 17 e le 19, si è verificato lo stesso episodio astronomico del 16 luglio 1623: i due pianeti, sovrapposti, hanno formato un bolide di luce impressionante.

Quando gli astri si incrociano la mia mente apocalittica s’insospettisce. La didascalia con cui sigillano l’evento, Great Conjunction, grande congiunzione, sembra natalizia, ma a me suona bellica. Porto impresso il memorabile quadro di Goya, Saturno che divora i suoi figli, con il gigante dagli occhi folli, i capelli come un pianto e la bocca abissale che inghiotte brandelli di un corpo in sangue. “Kronos dai torti pensieri”: così Esiodo nomina Crono/Saturno. “Il più tremendo dei figli” di Urano, che “con forza, con la falce terribile, grande, tagliò i genitali del padre e li gettò”. Che meraviglia tremenda il mito: Esiodo racconta che le Erinni, patrone della vendetta, nascono dal sangue del membro evirato di Urano. Sarà l’altro figlio, Zeus/Giove, a detronizzare il padre – in questa sequela di generazioni cannibali – dopo una guerra estasiante contro i Titani. Anche il regno di Zeus/Giove, per placida decadenza, infine, si spegne.

Secondo la superficiale tradizione, Saturno è il pianeta connesso alla vecchiaia, all’oscurità, alla riflessione, alla tristezza; Giove, invece, è la fortuna, la prosperità, la luce. Della nostra galassia, Giove è il pianeta più grande, Saturno quello più elegante: gli anelli che lo accerchiano, formati da merletti di ghiaccio, sono di candida bellezza. Le lettere sono nodi che legano la vita transitoria dell’uomo a quella del cosmo: per l’alfabeto ebraico Saturno è resh, “la prima forma, la prima luce, il trono di gloria, il primo posto del regno… la forza di questa lettera nasconde il segreto arcano di un mondo superiore” (cosi il Sefer ha-Temunah), mentre Giove è taw, “la forza che prevale sulla parola Dio… l’ultima lettera, a significare che il fine dell’uomo è morire” (Alfa beta de rabbi Aqiva). Dante conficca nel cielo di Giove (sesto del Paradiso) i grandi re, assisi intorno alla forma dell’aquila: Davide, Traiano, Costantino. Giove è il cielo della regalità e della giustizia, mentre Saturno è formato dagli spiriti contemplanti, da san Pier Damiani, da Macario e Benedetto da Norcia. Il cielo di Saturno è supremo rispetto a Giove, è il settimo cielo.

L’arte astronomica, relegata a quiz o a rubrica da giornale, è per sapienti: razziando riferimenti non faccio che alzare zanzare, una polveriera di contrasti. Nulla, nel mito, è ciò che sembra: i versi vanno scostolati perché del detto occorre sanzionare l’ombra, studiare il non-detto, valicare il nascosto. I Saturnali, ad esempio, sono le feste, ‘natalizie’ – si svolgevano in questi giorni –, dedicate a Saturno. “Nella Roma repubblicana, durante i Saturnalia, la festa invernale precristiana, tutte le restrizioni sociali venivano temporaneamente abbandonate in memoria del regno dell’oro di Crono”, mi insegna Robert Graves ne La Dea Bianca. Saturno, allora, domina il fool, il santo folle, la sacra follia in cui, a rovescio, il padrone è sbeffeggiato e lo schiavo piglia a fare il re. Giocando con le etimologie, Graves fa risalire Crono al greco korone e al latino coronix, “cornacchia”, “uccello spesso consultato dagli àuguri… emblema di longevità”. In uno dei micidiali aforismi di Zürau, Kafka scrive: “Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è indubbio, ma non prova nulla contro il cielo, poiché i cieli significano appunto: impossibilità di cornacchie”. La cornacchia è classificata da Linneo come Corvus, che la Bibbia celebra in ricorrenze tali da forgiare una silloge ellittica. Dio dice ad Elia che “i corvi per mio comando ti porteranno da mangiare” (1 Re 17, 4); Dio ricorda a Giobbe, con domanda retorica, “Chi prepara al corvo il suo pasto,/ quando i piccoli gridano a Dio/ e vagano ovunque senza cibo?” (Gb 38, 41); Gesù rammente “Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre” (Lc 12, 24). Un corvo, sacro, si aggira nel testo, benché la tradizione volgare lo ritenga uccello di malaugurio.

Passare da Saturno al corvo, dal cosmo al testo, confonde. Ogni narrazione è una tela di ragno che unisce il nostro misero regno alla galassia, questa sedia agli anelli del grande astro oscuro. Forse la Grande Congiunzione sarà una grande guerra, forse il segno è funesto, morte e vita si danno appuntamento per una lotta senza quartiere. Ci vorrebbe un poeta come Yeats, abile a scrutare i segni in obliquo. Di certo, non è accaduto nulla. Per ora – l’ora dell’uomo non pareggia quella del cosmo. Qualcosa di spaventoso regge l’armonia cosmica; una bellezza letale nell’arena galattica.

So, però, che con gli astri non si scherza: più di un binocolo valgono le mani giunte e il petto vasto. Ogni sera vado al mare, mi accorgo della sua natura ferina. Una settimana fa l’acqua cercava di assediare le cabine, vuote, la casa del bagnino. Ieri Adriatico era arretrato di almeno venti metri, più cauto, felino, mi viene da dire. Attento. Prima reagiva – ora contempla. Sulla sabbia, per effetto di questa apparente cautela, restano le incisioni di mille pitoni. Sembra proprio una bestia, il mare – e di sera l’acqua pare più dura, più solida. Dicono che per ammirare la Grande Congiunzione bisogna volgersi verso occidente. Il cosmo ha ancora un sussurro che ci riguarda, una confessione. Dall’acqua, va da sé, non ho visto altro che lo stesso sfolgorio celeste, quello che non smette di bruciarmi. Dicono che un simile allineamento accadrà nel 2417, che qualcosa di analogo si osserverà nel 2080. Penso a queste date pacificato: non ci sarò più. Mi attrae, con forza inalterata, il grumo scuro che c’è in fondo al mare. Sembra la schiena di un gigante. Nuoto. (d.b.)

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