25 Gennaio 2023

L’industria della cultura. Una conversazione di Giovanni Testori

Visitando una mostra a Casa Testori, “Testori ritrovato. Dipinti, acquerelli, disegni” (in atto fino al 28 gennaio), Alessandro Burrone ha scoperto un fascicolo di particolare interesse, ribattuto per i lettori di “Pangea”. Si tratta di una conversazione tenuta da Giovanni Testori il 23 maggio del 1978 a Milano, presso il Gruppo Lombardo dell’U.C.I.D. (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti). Vi si ritrovano, in forma sintetica, i temi cari a Testori: la cultura come “coscienza della vita quand’essa giunge alla sua pienezza”, la cultura come vita. Il grande scrittore – che all’epoca, per intenderci, aveva appena pubblicato “Edipus” e “Conversazione con la morte” –,  rintraccia il dramma, la crisi, in una cultura sempre più specializzata, divisa, divisiva, e nello scisma tra cultura e lavoro. Il lavoro è vita e dunque cultura, è forma; una cultura ridotta a ‘tempo libero’ non resta che ‘divertimento’, diversione, eversione dal vero, spettacolo, intrattenimento, show. Cioè, incultura.

Il 23 febbraio, sempre negli spazi di Casa Testori, sarà in atto, “in occasione del centenario di Giovanni Testori”, la mostra “Fotoromanzo Testori. Immagini di una vita” (fino al 28 maggio). Le fotografie che corredano il testo, gentilmente concesse, sono di Michele Alberto Sereni.

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Giovanni Testori. “L’industria può essere cultura?”

Conversazione tenuta a Milano il 23 maggio 1978

U.C.I.D Gruppo Lombardo, Milano

Credo che raramente nella storia s’è scritto e discusso intorno alla parola «cultura» come in questi ultimi anni; nello stesso tempo credo che raramente la cultura ha mostrato, come in questi stessi anni, d’aver perduto la sua funzione, la sua identità e persino i termini del suo proprio significato; forse perché, invece d’essere, invece d’esistere, ha preferito parlarsi e, parlandosi, s’è frantumata; ha rotto la sua unità; ha scomposto il tessuto di cui è fatta e di cui vive; un tessuto che è anzi tutto costruito di rapporti e di relazioni e, per chi vive dentro lo spirito religioso, di fratellanza e d’amore.

A questo punto bisognerebbe forse ritentare della cultura una definizione, la più larga ma insieme la più precisa possibile. Così si potrebbe dire che la cultura è la forma che prende, di tempo in tempo, la coscienza della vita quand’essa giunge alla sua pienezza; una coscienza che rapporta la vita al suo significato primario e assoluto; che lo rapporta a quel disegno da cui la vita viene e a cui la vita, dolorosamente, ritorna. La cultura è dunque la forma che assume l’intervallo tra la luce da cui l’uomo parte e la luce a cui l’uomo riapproda. Quest’intervallo è la storia; ma una storia riferita alla metastoria; cioè a dire, a quella verità, a quella luce.

Poiché il disegno da cui l’uomo proviene e a cui si riporta è totale unità e totale armonia, sembra naturale che anche ciò che dà forma al passaggio storico dell’uomo, e cioè la cultura, deve di necessità tendere alla unità e all’armonia; ancorché pei limiti stessi del nostro trascorrere sulla terra, quell’unità e quell’armonia siano impossibili da realizzare totalmente; restano tuttavia possibilissimi come speranze e come tensioni.

Una cultura troppo specializzata com’è l’attuale, una cultura a compartimenti divisi, una cultura separata, è già da sé una cultura non cristiana; non solo perché non intende riflettere, almeno come aspirazione, l’unità del disegno divino, ma perché è una cultura che invita a dividere. Ora nulla è più lontano dalla religione di Cristo che la divisione. Questo non significa che la cultura debba essere mancanza di tensioni dialettiche; anzi quelle tensioni la cultura le implica, le esige; ma proprio in quanto risultano le linee di forza che, dialogando di continuo e senza posa tra di loro, arrivano a comporne il tessuto, la forma.

In questo senso mi sembra improprio il privilegio che, dentro il tessuto multiplo e ricchissimo, dentro il gran paesaggio della cultura (dove ci son cime, monti, piani, laghi, città, paesi, boschi, campi e valli) s’è voluto dare a ciò che raggruppa le espressioni della filosofia, delle scienze, delle lettere, della musica e dell’arte. Ora è ben vero che queste espressioni rappresentano della cultura le forme che coagulano, di volta in volta, i suoi punti totali; coaguli splendidi, anche perché portano l’atto culturale verso l’imitazione o la fusione di ciò che è la qualità e dono di Dio: cioè a dire la bellezza.

Ma è altresì vero che, dentro l’ordito e la trama, dentro il mosaico della cultura, ogni filo e ogni tessera hanno la loro parte e il loro peso; parte e peso non secondi a nessuno; così come nessuno v’è primo ad altri. O vorremmo misurare il valore d’un gesto umano e della coscienza che ne deriva, dunque della sua espressione culturale solo dalla forza estetica del suo risultato o dalla forza della sua durata temporale?
In ogni gesto dell’uomo esiste un peso terreno e insieme un peso supremo; esiste un peso, un valore, un senso per cui chi entra in una fabbrica, sia per dirigerla, sia per timbrarvi il cartellino e lavorare, ha eguale grandezza di chi dipinge la Sistina o di chi scrive l’Amleto; questo, non solo religiosamente, ma anche culturalmente. Che poi la Sistina o l’Amleto abbiano requisiti per restare nella storia apparente della civiltà più di chi entra nella fabbrica per dirigere o essere diretto, è vero; ma badiamo bene, si tratta pur sempre d’una storia apparente. Nella storia profonda e reale, nella storia che si riferisce alla metastoria, non si dà Cappella Sistina o Amleto senza gli infiniti uomini che hanno compiuto e compiono operazioni analoghe a quella di entrare in un’industria per dirigere o essere diretti. Questo è, mi pare, il riconoscimento basilare su cui solo può edificarsi una concezione cristiana, dunque paritaria e sociale o, per dire una parola che preferisco, una concezione plenaria e totale della cultura.
Come vedete, la domanda che s’è posta a titolo di questo incontro era ed è puramente retorica: ci serviva da stimolo.

L’industria non solo può essere cultura, ma è in proprio e nella molteplicità del tessuto umano, assolutamente «cultura». Anzi, atteso il punto che la storia dell’uomo attraversa, direi che oggi ne sia una delle componenti determinanti; tanto per la sua vastità, quanto per le innumeri implicazioni che essa trascina con sé.

Se è vero, come è vero, che sull’industria poggia gran parte della vita d’oggi è altrettanto vero che sull’industria, nel caso specifico sull’industriale dirigente (poiché è a voi che, qui, stasera io parlo) poggia gran parte della qualità o della non-qualità, io direi della natura della cultura odierna. Se una cultura è laica piuttosto che cristiana, la responsabilità non sarà «in primis» del laicismo di chi l’industria dirige?
Ma in che modo, voi vi chiederete, l’industria è cultura?

Se cultura è, come abbiamo detto, la forma che prende la coscienza della vita, sembra a me che la realtà-industria risulti oggi strettissimamente legata al nascere, al formarsi e al crescere di quella coscienza e dunque della forma che l’esprime.

Chissà, forse qualcuno pensa ancora che non vi sia niente di più lontano dalla cultura del fondare, del dirigere e del mandare innanzi una fabbrica. O che sia cultura infinitamente minore nei confronti di chi scrive un trattato scientifico, un romanzo, un poema o una tragedia! E invece no; è cultura nella stessissima misura; con la stessissima importanza; con la stessissima dignità; e, se permettete, con al stessissima responsabilità. Come pensare infatti che la vita di un uomo abbia una sua forma e una sua espressione culturale solo la sera, quando, finito il lavoro e tornato a casa, discute coi familiari, accende il televisore, apre le pagine d’un giornale o d’un libro, entra in un cinema o in un teatro, e non l’abbia per tutte le altre ore del giorno che pure ne formano la più parte? Che uomo sarebbe mai? Un uomo dimezzato; un uomo deturpato.

Ma se tutto è cultura, cultura è soprattutto ciò che nella vita dell’uomo occupa il maggior arco di tempo e, a conti fatti, l’arco maggiore della sua esistenza. Il problema dunque, è solo di come un lavoro e un’attività, nel caso specifico un lavoro e un’attività industriale, diventino cultura; di come riescano a essere forma della coscienza della vita; di come, essendo una parte (e quale) della vita, giungano a condensare in sé il significato di tutta e intera la vita, e del suo reale, definitivo destino. Anzi prima ancora che a condensarlo, a verificarlo e a incarnarlo.

A questo punto, senza voler stabilire gerarchie, bisognerà pur stabilire ordini di dovere. Più un uomo si trova in una posizione, non di privilegio, bensì di responsabilità, più deve chiarire il valore culturale di quella sua posizione; il che significa chiarire il senso e il significato di quella sua responsabilità. E quando in tale posizione, poiché così Dio ha voluto, si trova un cristiano, la chiarificazione di tale senso e di tale significato diventa irrimediabile. Così, non per mettervi troppi pesi sulle spalle, ma per cercare di illuminare i pesi che obiettivamente sulle spalle avete, la parte che nella formazione d’una cultura cristiana gli imprenditori cristiani hanno è enorme. Io non so se fin qui sia mai stata ben chiarita: m’auguro che sia stata ben vissuta (che sarebbe già molto, se non tutto); vorrei, tuttavia, anzi vorremmo che fosse sempre più vissuta e che sempre più, vivendola venisse chiarita.

C’è un dato di fondo talmente cristiano nel fatto che la industria sia cultura, che dovrebbe lasciarci senza fiato; esso consiste in questo: che l’industria rappresenta oggi uno dei massimi, se non già il massimo di fatica che l’uomo compie nel suo percorso sulla terra; essa tiene il posto che fu un tempo dell’agricoltura e dei campi. L’industria si trova a incarnare oggi, nella forma più completa, il precetto testamentario: «guadagnerai il pane col sudore della tua fronte». Che è quanto dire che, proprio nei luoghi dell’industria, l’uomo ha modo e possibilità di pagare lo scotto del peccato e, dunque, di redimersi. Ma redimersi dal peccato significa anche darsi una forma, cioè a dire darsi una cultura e in tal modo liberarsi.

Accade così che proprio il momento più duro della vita dell’uomo sia oggi il momento in cui più profondamente gli è concessione di trovare la sua redenzione, la sua forma, la sua cultura e, dunque, la sua liberazione. Il luogo dell’industria diventa così, per il nostro tempo, il luogo della massima santificazione: ciò che pare più condizionato, materialistico, più cieco e brutale, finisce col dispensare della massima possibilità di salvezza, di catarsi e di luce.

Se una prova si voleva che com’è stato scritto «tutto à grazia», questa la si ha nella possibilità che il momento e il luogo dell’industria, cioè a dire della più grande fatica, diventino momento e luogo della più grande coscienza culturale, dunque della più grande elevazione. Tutto questo contempla, naturalmente, anche il contrario: cioè che il momento e il luogo dell’industria diventino momento e luogo della degradazione e della distruzione totale dell’uomo; momento e luogo cioè della sua totale incultura.

Così spessissimo accade: tanto per chi dirige, quanto per chi è diretto. Ma paradossalmente, questo è potuto accadere e tuttavia accade proprio perché s’è creduto e si crede che l’industria non sia un atto della cultura dell’uomo, bensì solo un atto della sua pratica ed economica sussistenza.

Come se poi l’economia non fosse anch’essa cultura! Tutto, torno a dirlo, nella vita dell’uomo è cultura: o non lo è niente. Non è leggendo un libro in più che si risolve il problema. Il problema va affrontato in questa che è la sua vera, inscindibile radice e totalità. Come vedete il discorso torna su di sé come in un cerchio. Arrivati ​​a questo punto non resta che riportarsi alle stigmate e al segno che muovono, motivano e tengono la vita. Se questo segno è il segno di Cristo, l’industria sarà un momento e un luogo della cultura di Cristo: se questo segno è il segno del laico, l’industria sarà un momento e un luogo della cultura del non-Dio, della cultura del non-Cristo.

Credo che il nodo vero e reale sia questo. Ma nessuno, dirigente o operaio che sia, può pensare di poter essere culturalmente cristiano fino al momento in cui entra nella fabbrica e altra cosa quando, varcata quella soglia, comincia a lavorare. Se fare cultura significa dare un forma alla coscienza della vita, un cristiano che sia imprenditore non può dare forma alla sua coscienze di imprenditore che nell’ordine amplissimo, umanissimo, ma severissimo del suo essere cristiano.

Per questa via un imprenditore cristiano che non attui la sua opera d’industriale come atto di cultura cristiana collabora pesantemente affinché la più parte della giornata terrena della più parte degli uomini sia culturalmente non cristiana. Quanto si fa usciti dalla fabbrica o prima d’entrarvi può e deve essere preparazione e coronamento; ma poiché il più, voi imprenditori, lo passate lì, in fabbrica, è sul più che siete chiamati a dare la prova della vostra cultura, del vostro essere culturalmente cristiani; una prova che può certo risultare difficile e dolorosa, ma che per la luce che riceve e per quella che può emanare su tutta e intera la vita può essere parimenti grandemente amorosa e umilmente gloriosa.

Giovanni Testori

Gruppo MAGOG