“La tua vita è la tua vita”. Discorso sul “cuore” (con Charles Bukowski)
Poesia
Giorgio Anelli
In una data imprecisata, vicino Firenze, allungato su un letto, un giovane uomo trema nel buio sotto Il ragazzo morso da ramarro di Caravaggio. Per un qualche singolare trasferimento, quella puntura acuta su un brano di carne dipinto tre secoli prima sembra trasferirsi al corpo del ragazzo. Nella stanza c’è un silenzio quasi parossistico. Da pochi minuti il giovane ha chiuso un libro che rimarrà in lui come un feroce marchio d’amore nel sangue.
Il libro è Officina ferrarese dello storico dell’arte Roberto Longhi, il giovane è Giovanni Testori che presto esordirà su “Paragone”, la rivista fondata dal maestro, con uno scritto sul pittore secentesco Francesco Cairo. È un esordio sfolgorante che forse non sarebbe stato tanto memorabile senza quella notte da Innominato. Che cosa tolse il sonno all’ancora sconosciuto Testori? Fu la scoperta di una scrittura d’arte potente come un magnete radioattivo. La prosa di Longhi è come una puntura di rettile: “Sì, potenza di moto negli uomini negli alberi nelle rocce, ma che, nel materiale immaginario dei minerali più incorruttibili, non può che torcersi e serrarsi, quasi in turbini impietrati. Una natura stalagmitica; un’umanità di smalto e di avorio con giunture di cristallo”, e ancora: “Sui celi di lapisazzurro incrinano figure smeraldine o arrubinate agli orli; i tramonti sono di croco ossificato. Come un astrologo il Tura escogita forme, predilige oggetti che sian simboli pregnanti del suo sogno stilistico. Conchiglie, buccine, perle, tritoni, gracole, draghi, grotte, origlieri sono alcuni di questi suoi stemmi”.
Fin dalla giovinezza dei suoi esordi, Giovanni Testori ha percorso senza sosta queste due “zone di confine”, la letteratura e la storia dell’arte, e i suoi passi si sono mantenuti fedeli a queste forme espressive fino alla soglia estrema della vecchiaia. La lingua espressiva di Testori è costantemente votata al dialogo tra le arti; il suo lessico è sempre una tavolozza interlinguistica per il modo in cui ha saputo coniugare linguaggio critico e linguaggio figurativo. Da questo sostrato di poetica deriva il suo carattere composito e quasi spurio, a più registri stilistici, ricco di spasmi e slogature sintattiche, punteggiato di neologismi e di immagini-metafore animate da una forte volontà interpretante. È il caso di questo testo dedicato ad una delle opere più celebri di Francis Bacon: la rivisitazione dell’Innocenzo X di Velázquez, che, nel caso del pittore, non fu solo un prolifico nucleo ossessivo, ma si incarnò in una vera e propria attività di svisceramento critico svolto coi mezzi della pittura, un caso cioè di critica d’arte figurativa. Il brano testoriano fa parte di un ciclo suddiviso in due parti, a mo’ di dittico (quasi a mimare una struttura spesso utilizzata dallo stesso pittore) che Testori ha dedicato alle figure di Francis Bacon. Testori non si fermò alla traduzione in versi di Bacon.
Nel caso specifico della “suite” lirico-figurativa su Bacon, la cifra distintiva è questa lingua screziata e difficile, che, simile ad un punteruolo, si inventra come scheggia nel buio della carne dell’opera d’arte che intende restituirci, come già Testori fece con il testo sul Cristo di Grunewald, tutto giocato su una proliferazione vertiginosa di metafore lignee e vegetali. Una lingua che è qualcosa di assolutamente unico nella nostra letteratura, al confronto ben più misurata e “petrarchesca”. Per trovare un equivalente della lingua testoriana forse bisogna rifarsi al Dante infernale, a Villon, a Baudelaire, a Céline, forse a certe pagine di Gadda. Quando leggiamo la “suite” ekphrastica dedicata a Bacon, e teniamo fermo nella mente il rictus stravolto di Innocenzo stampigliato a fuoco sulla tela, non possiamo non cogliere nella traduzione verbale di Testori un certo espressionismo linguistico esacerbato, che reca in sé, incorporato, un impasto di dialetto alto-lombardo, un innesto di latinismi maccheronici, fino a elementi della migliore tradizione letteraria intervallata da neologismi. Il risultato sulla pagina è una sorta di estremo all’interno del medesimo coro cui appartengono anche Gadda, Mastronardi, Bianciardi, Arbasino. L’andamento è quello di un feroce espressionismo dai toni spesso stridenti, con echi di decadimento fisico (frequente il richiamo alla paralisi, insieme fisica e gnoseologica, come dato primario della condizione umana); ma anche l’insistenza sui campi semantici del divoramento, dell’urlo, dell’autodistruzione e della morte. Come nel caso di Bacon, o, altrove, della Zattera della Medusa di Gericault o del trittico dedicato al bue squartato di Vitali, il riferimento esplicito all’opera figurativa da cui i componimenti prendono le mosse viene confermato dal titolo, ma spesso l’ekphrasis viene ampliata col ricorso ad immagini di tipo analogico, in grado non solo di riprodurre le strutture visuali e formali del dipinto, ma anche le reazioni di tipo emotivo scaturite nell’osservatore.
La cifra vincente di Testori è stata quella di aver saputo innestare sull’espressionismo gaddiano la lezione, sempre espressionista, del giovane Longhi ai tempi de La Voce, degli scritti sul Futurismo e della Breve ma veridica storia della pittura italiana che certo Testori aveva presente, assieme al lessico geologico e lapideo dell’Officina ferrarese. Su questi testi, condotti con stile e lessico fatti di falsetti, ironia e asperità, Testori ha letteralmente imparato a scrivere e ha piegato l’espressionismo letterario verso la sua ossessione per la carne, la ferita, la caduta, l’urlo, ma, a mio parere, non tanto declinati come autodistruzione e morte dell’uomo, bensì come batailleana comunicazione attraverso l’apertura della ferita dell’essere. Per tutto questo sostrato, il movimento lirico-ermeneutico N° 8 delle “Suite per Francis Bacon” di Giovanni Testori rimane una delle più belle liriche ecfrastiche della poesia italiana novecentesca:
Urla,
Innocenzo;
graffia
l’insulsa paternità dei secoli;
batti le nocche,
gli zoccoli di capra
contro la lastra immobile,
il cristallo che t’approssima
e allontana;
ansimando
la larva episcopale
riaffondi per secoli
e millenni;
tarme sataniche
sui lustri dei velluti,
denti di rospo,
avori.
Il dentifricio t’impasta;
ti sdoppia il fotogramma
guance e mani.
Dietro di te
trema il verbo derelitto
– anima dei cristiani,
amore cieco, sanguinante,
chi t’ha deviato,
in quale cisterna
sei crollato?
Il dominio ha stroncato
le palme egiziache di viola;
attorno alla sedia gestatoria
pende la carcassa umana,
ventre divaricato,
vano.
Urla:
trapassa dall’immemore del tempo
all’ardente, irrisolvibile presente;
getta
dal Sigillo, ancora chiuso
l’ancora dell’unica follia
nel viscere lurido,
demente.
Quell’“Urla” incipitario, tenuto in punta di verso, isolato da una virgola tra il silenzio bianco e il successivo grappolo di versi, d’acchito s’impone come un’alta sigla iconica: è tutta lì la smorfia sonora delle bocche di Bacon che si spalancano come voragini contro le aggrondate capsule geometriche degli sfondi dipinti. Il Papa, che Velázquez aveva chiuso in una plastica immagine di potere, tre secoli dopo, nella mente di Bacon diventa una “larva episcopale”, un urlatore di ascendenza munchiana in bilico tra la frana della follia e la demenza del “viscere lurido”, come ben condensa Testori in un verso marmoreo. È questa la sfida della parola letteraria rispetto alla perfezione autonoma del segno visivo. È vero, essi sono due sistemi opposti, ma possono convergere.
Ogni volta, ci sembra di assistere ad una feroce battaglia tra sistemi di segni opposti per costituzione: da un lato, si dispiegano le insegne del linguaggio formale proprio dell’oggetto d’arte, scaturito da un processo eminentemente visivo, e, dall’altro, sotto fogge diverse scintillano le armi della parola: le infinite astuzie e tensioni espressive elaborate, lungo i secoli, della retorica e dalla poesia. L’incontro-scontro tra parola e ciò che parola non è attraversa tutta la storia della letteratura e si situa, come ben ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, in una “zona di confine” nella quale il desiderio verbale di carpire l’essenza dell’oggetto figurativo riunisce, fino a fonderli in un impasto potente e creativo, tensioni divergenti come la furia della lotta per il possesso e la nostalgia della sua fatale inafferrabilità. Ogni poeta e scrittore che, lungo il suo percorso, si rivolge all’opera d’arte figurativa per descriverla fa esperienza di questo fallimento; percepisce cioè che nessuna trama verbale, per quanto finemente tessuta, è capace di fissare per sempre il senso di compiutezza che rende la forma figurativa così perfetta nella sua lingua. Ma vale la pena raccogliere la sfida, provarci, soprattutto se gli esiti di scrittura lasciano sul lettore il bruciante formicolio di un morso di rettile.
Davide Pugnana