23 Marzo 2023

“Cri! Crerà! Sacrà!”. Giovanni Testori: un caso di eugenetica editoriale

Il libro di Alessandro Gnocchi, Testori corsaro (La nave di Teseo, 2023), indaga “l’editorialista di quotidiani e settimanali”, consegnandoci qualcosa di indiscreto sull’opera di Testori. Testori vive l’allucinata attualità dell’uomo per cui tutto è sacro – e tutto dunque va dissacrato per ostensione d’amore. Anche la parola – l’indiscriminata, l’indisciplinata – è sacra: perciò, l’opera creativa è conseguenza di quella giornalistica; quella giornalistica s’aggancia a quella creativa. Testori è un tutt’uno – marmorea Pietà – fino all’insopportabile. Non c’è atto che non sia attuale, cronaca che non sia cronica crisi dell’uomo d’oggi, che fu, di sempre.

Per un po’ – dal 1977 al 1981 – Testori “occupa stabilmente la prima pagina del Corriere della Sera”; per un po’ scrive sul Sabato. Naturale la coincidenza con Pier Paolo Pasolini, di seggio giornalistico e di opera di genio, d’alto grado morale (mai moralista), fino all’erompere nello schianto. Per entrambi, il corpo – perciò il corpus – è uno e santo, la vita è putrefatta e la vita, l’indifesa, va difesa con indefettibile potenza. Putrida, perciò superba. A questi due titani il mondo così com’è, come l’uomo l’ha fatto, non piace: uno scava fino all’infimo inferno, l’altro lo prende a pugni perché nel sangue si dimostri un fiotto di luce. Dal sesso, poi, s’intuisce l’angelico canto.

Dei legami tra Pasolini e Testori – che di Pasolini scrisse la morte, in un articolo uscito sull’Espresso il 9 novembre del 1975: “Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l’inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l’altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca” – vengono deliberate le assonanze, le distanze, che Geno Pampaloni sintetizzava così:

“Pasolini inventava giorno per giorno la propria fede; per il Testori la fede è invece potente e rocciosa, incombe su di lui e sugli uomini come salvezza ma anche come tremenda pietra di paragone”.

Più che altro, scrive Gnocchi, scordatevi “un Pasolini o un Testori in prima pagina”, ma neppure un Leonardo Sciascia, oggi. “I loro articoli spaccavano in due il pubblico e facevano discutere l’Italia intera”: oggi regna l’acquiescenza o la bassa violenza da talk; un cretino desiderio di fama supera la fame, superna. Le idee sono sopraffatte dalla chiacchiera, dall’insulto o dall’inchino. Dal politicamente corretto e dal suo gemello egualmente inquietante: la scorrettezza del poseur, che ha bisogno di alzare lo share più che limare, fino all’esatto punto del dolore, la propria intelligenza. Morale della favola:

“Dietro al culto del pop, della cultura per tutti, dell’università di massa si nasconde il disprezzo per la vera cultura, che è sempre alta, anche quando assume un tono felicemente divulgativo. Se non è alta, non è cultura, ma intrattenimento”.

Il punto di giunzione tra la folgore giornalistica e l’opera creativa di Testori è Factum est. Giovanni Testori si schiera, sui giornali, contro l’aborto (“In una società dove s’è tanto fatto per esaltare l’aborto, perché stupirsi se non ci si ferma davanti a un grembo, qualunque esso sia, che porta in sé un’altra vita e, dunque, un’altra, seppur difficile speranza”, Corriere della Sera, 11 ottobre 1978) e a salvaguardia della vita, dunque scrive un testo teatrale, Factum est, per un giovane attore della Compagnia dell’Arca, Andrea Soffiantini. Il testo andò in scena la prima volta l’11 maggio del 1981, presso la basilica del Carmine, a Firenze. In febbraio era stato pubblicato da Rizzoli: in copertina, il particolare del Bimbo dipinto da Masaccio. Così la quarta:

“In Factum est, Testori ha dato voce a una creatura appena concepita per farle reclamare un diritto alla vita che il padre vuole negarle, e la madre acconsente a toglierle… Chi leggerà questo testo dovrà riconoscervi lo sbocco naturale di una riflessione che si è venuta tutta centrando attorno al tema della sacralità della vita. Sacralità, per Testori cristiani, anche della vita solo concepita, della vita appena iniziata”.  

In scena non si ‘rappresenta’ un bel niente – si presenta l’osceno. L’atto scenico è sempre liturgico, la ‘messa in scena’ la scena di una messa, il messaggio assente: non si posa ma si assume una postura, la verità non ha direzione di massa, fine da raggiungere, magnete a cui obbedire; è ovunque, ti è addosso, ti indossa, scalcia, prendine il piccolo cappotto passerotto: fanne tesoro o tonsura, oppure decapita, crepita. Il teatro – nell’arcata testoriana – è sempre polemico, dunque politico; esprime sempre una poetica. Che sia il théatron greco – paradosso: il luogo del vedere adempie l’invisibile –, sodalizio catartico-democratico – si mostra ciò che non va fatto, l’imperio del dio-caos che sfocia in patto con l’ordine – o il deserto ebraico, dove si esibisce, davanti alle scenografiche mura del palazzo, il profeta biblico (oppure il re danza intonando parola sacra intorno all’Arca), è sempre atto sacro, balbuzie, lingua sbullonata, bulbo del verbo sradicato. Il blaterio testoriano di maniaca potenza rispetto alla poltiglia di blabla in piano americano, per teleutenti, sul tema, epocale, madornale, del vivere & del morire, è maestoso per innocenza:

“Senza mani
senza voce,
senza peso.
Puoi schiacciarmi
puoi pestarmi,
soffocarmi.
Puoi strozzarmi”

“Madre, no,
non ascoltare!
Madre, no,
non accettare!
Devi amare,
me formare.
Madre,
guarda:
già son fatto,
sono atto,
volontà non tua,
ma Sua;
pietra eterna
già impietrata,
già inombrata,
t’ho impregnata”.

S’è mai visto il feto sul palco? Dunque, è questo che va fatto: estorcere l’oscuro per stagliarlo sotto i riflettori. Sviscerare, di questo mondo, l’immondo; dal principato, il principio; dall’ammasso, il masso primo. Factum est è filastrocca che intontisce, monotonia che sfinisce, lamento di barbarica luce.

Dieci anni fa, a memoria di Testori – che di anni ne avrebbe fatti 90, che da 20 era morto –, mobilitato da un gruppo di liceali, pretesi dal Comune di Rimini di rifare Factum est. Invitammo l’attore di allora, Soffiantini. I politici – inflessibilmente di sinistra, a Rimini – diedero in assenso. Imposi che l’atto scenico fosse a ingresso gratuito; così accadde: era il novembre del 2013. Il teatro rigurgitava gente. Fu bellissimo; risorgemmo beati di vita fino all’ebetudine. Il giorno dopo, per glaciare la gloria, il Comune aveva messo in programma l’esibizione di un comico. Che idioti.

Voglio dire. Infine, nell’orbita del centenario testoriano, Giovanni Testori resta autore illeggibile, indegno, indecente. Sarebbe felice di resistere tormento, ché lo scandalo ha un suo torpore, il tubare delle anime sante, sapore di altri mondo. Se vai a vedere, in fondo, Factum est dalla festa editoriale alienato è – a meno che non te lo compri nel pantano internettiano. Feltrinelli pubblica ciò che fa comodo e canone: il ciclo dei “Segreti di Milano” e la “Trilogia degli Scarrozzanti”, per dire. Gad Lerner ha letto La Maria Brasca come l’epica di “una ribellione femminile”, in un’epoca che “deve fare i conti con i tabù sessuali ancora imperanti”. Nessuno osa pubblicare in versione economica le Opere di Testori, di cui per altro esiste, in catalogo Bompiani, soltanto il terzo tomo (lasso 1977-1993): mancano, scomparsi tra le spire dell’incuria, i primi due. È vero, leggere Testori fa pensare, fa gridare; Testori lo vuoi divorare e lo vuoi eliminare; spacchi le finestre coi libri di Testori, che l’editoria italiana vuole abortire, peggio, addomesticare, stampo questo ma non quell’altro, scrittore in vitro, sotto teca, roba da eugenetica culturale. Così, dov’è finito La Cattedrale (1974), romanzo di bronzea bellezza, tra i grandi di Testori; dov’è l’impossibile Passio laetitiae et felicitatis, libro torbido, corrotto, consenziente allo spregio, analogo a Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (entrambi del 1975)? E la poesia di questo scrittore totalmente poeta, poesia “inconfondibile, che ne rende assolutamente unici, imparagonabili, gli esiti” (così la quarta di Factum est), pubblicata con pallida pazienza, per lo più agnostica, in anonima anemia, per non inimicarsi i paladini del buon gusto lirico, dov’è? Dove sono I Trionfi, le Suite per Francis Bacon, Dies Illa?

Bah. Esistesse demenza al posto di questa burocratica incoscienza, la bulimia dell’ovvio.

Va sussurrata – sussunta nel sussulto – la prima pagina di Factum est, invece, esempio di linguaggio glossolalico d’alto lignaggio:

“Cri, va
criverà,
tracrà, jeserà.
Cri! Crerà! Sacrà!
Cri! Estoscrì!
La parò… Cri!
Anacrì. Matacrì! Stasacrì.
Strascarì! Jesecrì!
Scrigerè…
Dà la pa! Fescristò!”

Non più come anatema, ma come antidoto, pronunciarla. Che del feto ne mangino, gli Erodi di questo babilonico imbottimento di beoti. Testé Testori.

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