E dunque: ascesi e catabasi, ritorno e fuga, concilio e fuga sono parte dello stesso anello, della stessa danza, che implode in abbraccio per disgiungersi. A leggere l’originale del Libretto rozzo dei CCCP e CSI, uscito da Giunti nel 1998, lo si credeva – credetti – una specie di Van Gogh il suicidato della società, manifesto testamentario di Antonin Artaud, una poetica, dunque una pratica – “è l’azione di aprirsi un varco attraverso un invisibile muro di ferro”, scrive Vincent a misura di Antonin – che attesta il politico: “Le istituzioni si disgregano e la medicina, che dichiara van Gogh pazzo, appare come un cadavere inutilizzabile e marcescente”.

Si diceva, lì, di anime fiammeggianti, di “giovani europei non allineati, detti per comodità punk, affiancati a un Islam disincantato”, di “osare l’impossibile osare perdere”, andando “sulle tracce dei lupi che fuggono le guerre degli umani”. Patchwork, spiritismo siderurgico, mistica dell’annientare e del dilaniare, apocatastasi soviet. Come si sa, i CCCP, estro spinato che unisce l’Emilia a Berlino a Leningrado – e ritorno presso le poppe del Po – nascono nel 1982, per sodalizio fonico, patto ortodosso tra Massimo Zamboni e Giovanni Lindo Ferretti. Al tempo, per dire, Franco Battiato era uscito con La voce del padrone, De André con Fabrizio De André (ergo: L’indiano), Carmelo Bene leggeva Dante a Bologna, recitava Majakovskij ovunque, scriveva Sono apparso alla Madonna a Forte dei Marmi; i Pink Floyd preparavano The Final Cut e a Cesena, poco più in là di Reggio Emilia, nasceva la Socìetas Raffaello Sanzio dei fratelli Castellucci.

Da allora a ora, quanta ortodossia raffinata nel crogiolo delle stagioni, vaghe felicitazioni, successi crestati, l’inutile di stare sulla cresta, dischi, per i più, memorabili: 1964-1985 Affinità-divergente fra il compagno Togliatti e noi; Socialismo e barbarie; Epica Etica Etnica Pathos; e poi, risorti in CSI, Ko de modo, Linea Gotica, Tabula rasa elettrificataOra che Il Libretto Rozzo dei CCCP e CSI, ‘di culto’, breviario per la sovversione quotidiana, è tornato (per le edizioni GOG), senza reflui nostalgici, chiodando ciò che fu – “Lo sbalordimento per le prime parole bellicose scritte su foglietti spiegazzati, sul retro delle Rizla, sul margine dei tovaglioli…”, scrive Zamboni – per spianare ciò che è, risaia, alcova, incubatrice di incubi – “Il mio sguardo, il mio cuore, ad Oriente che/ l’Occidente si fotte, in diretta, al tg”, scrive GL Ferretti –, l’estrema giovinezza di cui Artaud è icona e coltelleria si è sgravata, la lotta precisata. E leggendoli, ora, quei testi, senza timor mistico, pare di vivere il verbo di Giovanni il Solitario, apocrifo asceta di Apamea, Siria, quando dice della “preghiera spirituale” che “è all’interno della lingua, più interna e profonda delle labbra, più interna delle parole, al di sopra del canto”. Un dire, cioè, nell’ambone dell’indicibile, del mai-da-dire, che “tramonta alla parola e si tiene nel luogo degli esseri spirituali e degli angeli, senza parole”. Eccolo l’atto politico, sovrano, sovreccitato!

D’altronde, brulica di cavalli questo libro – spiccava pure in copertina, nella versione originaria –, che si chiude con l’immagine del “giovane mongolo, il suo cavallo”. “Sognare un cavallo bianco, in Germania o in Inghilterra, era considerato presagio di morte” (Juan Eduardo Cirlot). Nella grande Brhadaranyaka Upanishad, il cavallo, vita mordente, ovunque, è il cosmo, scotennato per gratificare il creato, morte che vivifica, “L’aurora è il capo del cavallo sacrificale, il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l’anno il suo corpo”. Così, opera tesa a silenziarsi, lento lavorio di scalpo e di coltello – “scorteccio le parole/ schegge secche adatte al fuoco” – ecco che i CCCP, dicendosi, dicono l’estinzione, l’uscita da sé, la morte del sé, spettacolare, spettrale – “non fare di me un idolo/ lo brucerò/ se divento megafono mi incepperò” –, il riparo. Esito di rubedo è un nome, nuovo perché antico.

Dunque, ho raggiunto Giovanni Lindo Ferretti.

Massimo Zamboni scrive di “devozione”; GL Ferretti di “tempo”, di “anni impavidi”. Dunque, che cos’è poi il tempo, questo temporale di tempi sovrapposti, inclinati, inchinati? Bene. Vi chiedo una riflessione – da catari a tutto – sul ritorno, il vostro singolare nostos, la riunione, la riconciliazione, questa eucarestia del tempo.

Tendo a ridurre qualsiasi concetto ad una dimensione quotidiana, personale e non è un favore all’ego – non ce ne sarebbe motivo – è la necessità di restare con i piedi ben piantati per terra: sono affascinato dal mistero della vita, il dono del vivere. Ne accetto i presupposti: si nasce in virtù di un contratto di cui si ignorano le regole di ingaggio. Si vive, in campo aperto – c’è spazio per anni impavidi e molto altro – ma determinato, non tutto ci è concesso e non esistono pari opportunità. C’è rischio e pericolo, niente di garantito. Qualche privilegio nessun diritto alcuni doveri. Si muore. Si può morire per propria scelta, anzitempo, recidendo il contratto di cui sopra, ma potrebbe rivelarsi spiacevole illusione. Si muore perché il proprio tempo è giunto a termine e dovrebbero/potrebbero svelarsi i termini del proprio contratto. Molto interessante comunque. Tempo e spazio sono le due sole coordinate disponibili e il ritorno è il proprio riequilibrarsi. Per procedere fino a morirne.

Berlino, Istanbul; Fellegara, Mosca; Cerreto, Ulan Bator. Che cos’è l’Occidente – ha ancora senso, non lo ha, esita, esiste, brama, bramisce?, che cosa si va a fare, ancora, in Oriente?

Occidente luogo da cui non giunge suono, luogo perduto… cantavo al tempo dei CSI – triste constatazione –  poi ho provato ad indagarne possibilità e necessità mentre con l’implosione del socialismo reale collassava un ciclo storico e l’insorgere del terrorismo islamico rendeva obsolete le categorie politiche della modernità. Nel contempo un Occidente disorientato decretava la fine della storia e un Oriente accidentato la rinvigoriva con la geografia.

La guerra che compare materiale nel cuore d’Occidente – modalità solite e racconto fantasmagorico – mi induce a credere che la dicotomia sia oggi in atto disancorata dalla dimensione geografica. Noi siamo già Oriente che scalza Occidente, lo siamo da che abbiamo rigettato le radici cristiane della civiltà europea ed è curioso, la storia sa esserlo, si chiude un cerchio che originato nel vicino Oriente ha fatto dell’Europa l’Occidente. La Russia è per qualche verso ancora Occidente che argina Oriente e qui siamo nel sarcasmo divino. Va ricordato che Oriente/Occidente è una dicotomia che si esprime ed ha senso pieno nel solo continente euroasiatico.

Nel quotidiano Oriente è il sole che nasce, un nuovo giorno; Occidente è il tramonto, la fine del giorno. Una polarità inscindibile e vitale. Nel tempo Oriente è l’eterno, Occidente il contingente. Nello spazio Oriente è il vuoto, il vasto, l’immobile, Occidente il cumulato cangiante.

La Cina è la vera sorpresa del nuovo millennio vanificando in sé Oriente ed Occidente. L’Impero di Mezzo rinvigorito dall’innesto comunista è luogo del timore e del pericolo per tutti coloro che Cinesi non sono. Vedi Tibetani, Iuguri, mongoli… la lista si affolla, il Pireo un buon approdo.

Che cos’è, oggi, il ‘politico’?

Resta una necessità impossibile nelle forme canoniche: ideologia e organizzazione. Improponibile nel panorama italiano per totale inconsistenza della classe dirigente. Non mi pare vada molto meglio tra i nostri cugini europei ma almeno la Germania ha beneficiato di cure materne. Sconta una sostanziale inutilità determinata dalla finanza che ha avocato a sé il governo della realtà relegando la politica alle forme dell’apparire, la trasformazione del popolo in platea televisiva e i social media ne hanno vanificato i modi e i luoghi dell’organizzazione. Costretti da mancanza ad un arrabattarsi anarchico, di reazione. È in atto una mutazione antropologica, i presupposti su cui si fonda sono labili, non garantibili e distruttivi. Tutto ribolle, le cose vanno allo scontro.

Dove sta di casa, oggi – dove ne disseppellisci, mangi, mordi, abiti, obliteri, avvii all’oblio –, il sacro, quel vuoto, quel mostro, quel nostro?

Sta negli incubi dei singoli e delle società che hanno rinnegato il divino. Molte strutture religiose lo hanno rimpiazzato con un umanitaresimo autoportante che ne è negazione. Sta nel mio cuore per quanto io ne sia indegno. Sta nella liturgia, nei sacramenti, se ci si riconosce cellule viventi della tradizione cattolica o ortodossa ma ogni tradizione religiosa lo contiene e ne è determinata.

Fortunato chi, di questi tempi, ha nel proprio orizzonte un monastero a protezione.

*Martedì 5 luglio 2022, dalle ore 20.30, a Roma, presso il Complesso Monumentale del Pio Sodalizio dei Piceni situato in Piazza San Salvatore in Lauro 15, Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni si incontreranno in pubblico, in occasione della nuova edizione del “Libretto Rozzo”

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