“Prego Dio che mi liberi da Dio”. Dialogo con Marco Vannini sul nostro desiderio di sacro
Dialoghi
Dejanira Bada
Me lo immagino: corpo oblungo verticalizzato; i tratti del viso marcati; lo sguardo serio, calmo, penetrante; una barba lunga, incolta. Coperto da una cocolla, un saio, sta seduto al suo tavolo. Il fuoco di una candela illumina la penombra, un samovar forse bolle sul fuoco e vaporizza la stanza. Fuori le montagne, il silenzio. Poi inizia a muoversi. È lento, sinuoso: sembra una mantide. Allunga le mani a una ciotola posta sul tavolo, avvicina il contenuto della ciotola alla bocca, lo mette in bocca e mastica, piano, assorto.
Sembra che preghi. Sta mangiando dell’uva. Per quello “di Dalyatha” (in siriaco: “uva”): a quanto pare, leggenda vuole, si cibava di quello, solo di quello. L’uva (o “more” in realtà) le trovava sui monti Dalyatha (sempre Dalyatha), su cui si era ritirato abbandonando Ardamout, suo villaggio di origine, nella regione del Beth Nuhadra.
Se provo a cercare questi luoghi sulle mappe non trovo nulla, so solo che sono da qualche parte a nord-est di Mossul, nelle montagne del Kurdistan. Comunque, prima che quei luoghi e quel cibo segnassero per sempre il modo in cui la storia ce lo ha tramandato, lui era Giovanni, solo Giovanni. Ma anche quando è solo Giovanni il suo destino sembra già segnato perché fin da piccolo riceve l’istruzione riservata a coloro che intendevano vivere un percorso di vita religiosa: studia i salmi, i vangeli, le lettere di Paolo. E poi Efrem, Teodoro di Mopsuestia, Antonio del deserto, Evagrio Pontico. Sono queste, del resto, le coordinate dell’ascetismo che porteranno al fiorire quell’incredibile fenomeno che fu la mistica siro-orientale, di cui Giovanni, appunto, fa parte.
La mistica siro-orientale nacque in seno alla chiesa cristiana siriaca, chiesa compresa tra Iraq, est della Turchia, Siria, Iran e penisola arabica. Parlano, appunto, il siriaco, una variante dell’aramaico utilizzato in Palestina al tempo di Gesù. È questa la lingua e la cultura di Giovanni. Lui nacque nel VII secolo in una città nella piana di Ninive. È “piana” ma in realtà è circondata da montagne. È in queste montagne che il novizio fa le sue prime esperienze monacali. Vuole essere come i suoi predecessori: anche lui monaco, anche lui asceta, guerriero. Ma la guerra dei suoi eroi è fatta in silenzio, senza l’impugno di armi, e il ring è il deserto (o, come in questo caso, le montagne). Questi sono i guerrieri dell’ascesi, la loro jihad (“guerra” appunto) è interiore, è tutta dentro al loro cuore la strada da percorrere. Sanno che si tratta della parte più preziosa di sé.
La loro tecnica poi non è combattere: è, piuttosto, deporre le armi. In realtà non vogliono vincere ma esser sconfitti. O meglio vogliono che qualcosa di sé venga sconfitto, piegato, ribaltato. Vogliono spogliarsi della propria volontà per rivestirsi di quella di Cristo. È con queste idee in testa, con questo fuoco nel cuore, che Giovanni lascia tutto.
Come in tutte le mistiche anche in quella siro-orientale l’accento è posto sull’interiorità: c’è qualcosa nel cuore dell’uomo che è come ricoperto, e che si deve dissotterrare. Giovanni lo presentisce, per quello si allontana dal mondo: per mettersi a scavare. La sua è una en-stasi, una discesa. È dentro il tesoro, non fuori. Al fondo del cuore infatti vi è come uno specchio, così ne parla Giovanni, come altri prima di lui. In questo specchio vi si riflettono quotidianamente le cose del mondo, e lo opacizzano. L’uomo diviene cieco, sordo: la testa ed il cuore assediati da schiere di demoni, pensieri, il caos. È il mondo che ha risucchiato l’uomo nella sua nevrosi e lo ha allontanato da Dio. Cristo ci aveva avvisato: “siete nel mondo ma non siete del mondo” (Gv 15, 18-19). L’asceta cerca di ricordarsi del monito, vuole ripulire lo specchio, vedere l’immagine delle immagini.
In effetti il mistico si ricorda ciò che al metafisico sembra sfuggire: Dio non sta nell’alto dei cieli, nelle formule, sotto ai sassi, ma nel cuore dell’uomo. Giovanni lo ripete fino allo sfinimento nelle sue lettere, sa che è il punto focale:
“Il cielo e la terra non contengono Dio, ma egli abita l’intelletto che custodisce la purezza e egli si mostra”.
“Lui non ti apparirà infatti al di fuori della tua anima”.
“Non è lontano da te Colui per il quale ti stanchi e ti affatichi ogni tuo giorno: è in te, anche se ‘dormendo’, in attesa che ti svegli e che lo svegli, per tirarti fuori dalle onde che ti annegano!”.
E in effetti è un bene che sia così: se Dio fosse visibile agli occhi ma fuori del cuore probabilmente non sapremmo che farcene. A quel punto sì, sarebbe ridotto a icona, gingillo. Un Dio soprammobile, un Dio stoviglia, un Dio morto, buono da appendere al muro. È in questo che sta, forse, la chiave di tutta la mistica. Anche Giuseppe Hazzaya, altro monaco siriaco, lo ripete con eloquenza:
“Una la porta del cielo e quella del cuore. Se dunque apriamo il nostro cuore mediante l’osservanza dei comandamenti, ci si aprirà la porta del cielo, poiché colui che dimora nel cuore è colui che dimora nel cielo. Se veniamo privati della visione di colui che dimora in noi, allora veniamo privati anche della visione di colui che è nei cieli. Poiché uno è lui, in tutto quel che gli appartiene”.
Giuseppe Hazzaya, Centurie 2,73
E poi, cinque secoli dopo e in tutt’altri luoghi, un’altra mistica sente lo stesso richiamo del cuore:
“Ecco, è ormai chiaro che per la grazia di Dio la più degna tra le creature, l’anima dell’uomo fedele, è più grande del cielo, poiché i cieli con tutte le creature non possono contenere il Creatore, mentre la sola anima fedele è sua dimora e sede”.
Chiara D’Assisi, Lettere 3, 21-22
Sta tutta qui allora la missione di Giovanni: andare “fuori da tutto, in Colui che è celato a tutto” (Lettere 14.1), stranieri al mondo per entrare nella casa di Dio:
“E con confidenza nei riguardi di Dio, con fiducia e verità, dico che quando la mente si spoglia del mondo riveste Cristo; quando abbandona le preoccupazioni per le faccende mondane incontra Dio; quando l’anima recide da sé le frequentazioni mondane, lo spirito inizia a cantare in lei i suoi ineffabili misteri”.
Lettere 5.2
E esorta gli altri a fare lo stesso:
“Fratello mio, vuoi che Cristo ti si manifesti durante la preghiera come a un suo amico? Desideri che l’amore fiammeggi continuamente nella tua anima? Allontana da essa l’amore per il mondo! Aneli a che la tua dimora sia nel luogo senza luogo, ossia in Dio? Esci dal mondo come un neonato dal ventre e allora vedrai il vero mondo, infatti Cristo non può abitare con questo mondo. Ti prego, prestagli ascolto quando apparendoti dice: “Io non sono del mondo e non posso abitare con esso perché mi odia”. E tuttavia lui continuamente stende la sua ombra sull’anima – se libera dal mondo – e la visita, per abitare con lei”.
Lettere 5.1
A questo punto un chiarimento, forse, sarebbe d’obbligo. Infatti, messe così le parole del monaco possono suonare trite, segnate da una religiosità quasi morbosa, perversa. Invece che sciogliere fanno indurire; invece che edificare distruggono. Lo confesso: con le lettere di Giovanni ho un rapporto altalenante. A tratti mi folgorano, mi commuovono, come se ne venissi trafitta da parte a parte. Più spesso invece le trovo stucchevoli, nauseanti. Non credo però onestamente che sia un problema delle lettere quanto piuttosto di una certa postura in chi legge. Le lettere, di per sé, possono essere tanto belle quanto altrettanto insignificanti. La stessa differenza di giudizio mi accade quando non sono in grado di apprezzare una bella poesia, mentre invece, se ho una buona postura, se “l’anima è accesa”, anche la lista della spesa suona poetica. Questo “cambio di postura” è quel che si sforza di fare Giovanni. Si tratta però di un’esperienza che fanno tutti, più o meno quotidianamente. Ogni tanto anche noi, come Giovanni, siamo asceti, sembriamo uscire dall’imbroglio del mondo. Sono momenti sacri: per un attimo il mondo sembra fermarsi, gli oggetti hanno più nitore, sono più affilati; l’aria è più fresca, più chiara, i colori più vividi, i suoni più acuti. È un’attenzione, un silenzio dell’anima. Giovanni ha consacrato tutta la vita a questa attenzione ma in realtà tutti ne facciamo esperienza. A me capita, ad esempio, quando resto assorta nella lettura; quando faccio lunghe passeggiate in silenzio; quando, dopo aver fatto yoga, mi inchino appoggiando la fronte a terra per il saluto finale; quando cucino; quando lavo i piatti; quando torno a casa dalla mia famiglia; quando è mattina presto e la cucina si impregna dell’odore di caffè caldo; quando fuori è inverno e grigio e freddo; quando arriva l’estate e l’odore dei gelsomini; quando si dorme abbracciati, quando ci si sente amati, fecondi, abbandonati. In quei momenti è come se qualcosa, dentro di sé, si impreziosisse.
Certi periodi poi, certe giornate, sono più gravide di altre, sicuramente. È richiesta una grossa componente di passività per raggiungere quei momenti. È come se non si potesse volerli: non appena li si vuole, questi scompaiono. Del resto ciò che li accomuna è il fatto che sono esperienze di amore, e l’amore non si può prendere, afferrare. Lo si deve attendere, sperare; lo si deve piangere, chiedere, implorare. Bisogna lamentarsi come fa il levita esiliato nel salmo 42-43:
Come la cerva anela ai corsi d’acqua,
così l’anima mia anela a te, o Dio.
L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente:
quando verrò e vedrò il volto di Dio?Le lacrime sono mio pane giorno e notte,
mentre mi dicono sempre: «Dov’è il tuo Dio?».
L’amore lo si riceve per grazia, non per volontà; è dono, non bottino; tregua e non battaglia. Vero, indubbiamente. Vero è anche, però, quel che diceva con sapienza magistrale Simone Weil, ossia che non appena fai il vuoto in te lo spirito lo riempie. Anche il monaco sembra saperlo bene: c’è una concorrenza dell’individuo nello spogliarsi del mondo. Poi, dopo che si è rimasti nudi, c’è la possibilità che qualcuno possa rivestirci. È un’attività di cura, è un’attesa ordinata, paziente. Giovanni lo dice bene con una metafora:
“Il nostro intelletto è stato edificato come dimora per il Costruttore, a condizione che non lo profaniamo con le passioni, sicché lui ne aborrisca. Viene infatti reso impuro da tutte le immagini mondane, idoli morti che vi si imprimono. Ti do per paragone una casa sensibile, cerca di capire: per le passioni lussuriose vi abbiamo ammassato cadaveri di morti umani; per la gola l’abbiamo riempita di un fetore tale da far vomitare ogni cibo; per la nostra ira e collera vi abbiamo raccolto e ammassato cadaveri di vipere e di ogni rettile velenoso. Per la brama di denaro l’abbiamo profanata con cadaveri di bestie, di fiere, di uccelli, e abbiamo profanato la casa, dimora del Santissimo; per l’amore della lode l’abbiamo spogliata degli ornamenti di cui il Sapiente l’aveva rivestita, e l’abbiamo rivestita con stracci esecrabili per il nostro Signore […]. Non desistiamo dalla nostra corsa fino a che non avremo purificato la casa come quando lui l’ha acquistata. E quando la vedrà sceverata da tutte quelle nefandezze, rimasta nuda, coprendola la rivestirà, e non permetterà a stranieri di accostarsi al suo luogo. In verità noi siamo la sua casa, noi che siamo stati edificati per le opere buone e non per quelle malvagie”.
Lettere 15.5
Al nostro ultimo colloquio un mio professore mi ha detto che per lui la fede non si scontrava tanto contro il dubbio, contro il baratro della non credenza, quanto piuttosto contro l’indifferenza, contro l’accidia dei giorni. In quei momenti è come se ci si impigliasse nel mondo, ci si dimenticasse di sé, ci si raffreddasse, indurisse. Credo sia la cosa peggiore che possa succedere a un essere umano, significa perdere ciò che di sé è più prezioso. La fede è, si potrebbe dire, un’attenzione per quelle parti del cuore, qualsiasi nome gli si voglia assegnare. Ci si deve insomma allenare alla vigilanza, a stare attenti a se stessi, al proprio cuore. Ci si deve sorvegliare di continuo. Poi, forse, una volta trovato quel gancio, anche le lettere di Giovanni non suoneranno più come un delirio morboso. Leggete piano, con calma, senza giudizio. A quel punto forse, nella quiete dal mondo, non sarà più la mente ma il cuore a leggere, aderire:
“Beato colui che ti ha abbracciato, e giacendo con te ha aspirato il suo fragrante profumo; beato chi si è assiso e ha visto le tue irradiazioni che lo hanno unito a te, come i raggi del sole al disco solare; beato colui che ha visto il suo nutrimento cambiato a sua somiglianza, l’ha assaporato con il suo palato, e si è trasformato per lui nella delizia della tua dolcezza; beato chi ti ha veduto mescolato con la sua bevanda, ha bevuto ed esultato per il tuo amore; beato chi, entrato in sé, ha visto te, visione sconcertante, ed è rimasto ammirato per la bellezza dei tuoi mirabili misteri che sgorgano dalla sua interiorità! […] Rafforza la tua anima rilassata come la mia; ecco, ancora un po’ e viene la sera, per dormire e riposare dalla nostra fatica, e ci rialzeremo, nel mattino della gioia”.
Bianca Cesari