
“Ciechi come le bestie appena nate”. Su Rilke & Cézanne
Arte
Isabella Bignozzi
Amelia Rosselli nei suoi versi dichiara, irriverente e amara, la necessità di «stabilire se in questo aldilà della realtà» vi sia un «altro aldilà: che stinge e corrode questo fraseggiare ignobile».
Un’alterità del vero dal soggetto, che richieda uno sforzo interpretativo schietto, muscolare, un puro ascolto, lontano da vezzi e vanità di forma, perché il poeta trovi il messaggio cifrato insito in ciò che lo circonda. Un sistema di segnali impressi nella natura a tal punto che, «le cose stesse» ribadiva Rosselli «seminano il mio cuore di luce».
Quale sia il prezzo da pagare, per il cantore, perché questo avvenga, lo troviamo inciso a chiare lettere nella biografia terrena di molte anime che la poesia attraversò dolorosamente, additando loro arcani rovinosi e urgenti, investendole con furore, perdendole alle persone care e a loro stesse.
«Dovette accadere nella mia vita qualcosa di silenzioso – non so quando, non so cosa – perché osassi chiedere un luogo in cui ospitare dei versi, scrutare leggi e fattezze, la simultaneità di un contenuto con il timbro della sua musica». Con queste parole aggraziate la compianta Giovanna Sicari descriveva la sua poiesis, senza svelare fino in fondo – lo farà nei suoi versi, con chiarezza – il tragico e splendente mandato che ebbe tatuato sotto la pelle: l’investitura che la portò a scandagliare il reale con rigore drammatico, finché la sua indagine arrivò ad assumere i ritmi e la fisionomia di un sacrificio divinatorio, lontano dalle sponde radiose e quiete di una bonaria fatica letteraria o di un’agevole avventura estetica: «Di marmo era l’assenza sulle ali / imperiose di un condor, / in queste condizioni, per una presa di / potere che non m’interessava / camminavo sull’orlo tra le rotaie».
Leggendo i versi di Sicari si rimane immobili, davanti a un flusso di immagini e sintagmi che si avvicendano in modo analogico, prescindendo dai legami grammaticali, ma trasducendo il senso in modo violento, denso, privo di filtri. La razionalità del messaggio – deve aver presagito la poeta – e una parola eccessivamente disciplinata, che si elevi in archi e navate ben calcolate, e usi marchingegni linguistici spianati e lustri (che tanta poesia persegue e vanta), scivolano in un’oggettivazione che isola e separa il cantore dalla realtà.
Sicari si lascia abitare da una vocazione percettiva ancestrale e torrida, che trasfigura in immagini incoercibili, riportate nel verso con fedeltà sacerdotale; la concitazione del percepito viene resa in una lingua traboccante e gremita, franta, che, con l’accumulo di coreografie reiterate e interrotte, sale come un’onda oceanica e si si snoda potentissima.
Così Milo De Angelis (in una nota a Sigillo, riedito Da Donzelli nel 2019) illustre poeta e compagno di vita di Giovanna: «Ecco, sentire il dominio della visione, venire comandati, non potersi sottrarre, essere inchiodati al compito della scrittura poetica, sentire che questa è l’unica strada possibile, che non sono date altre vie espressive. E davvero la poesia era per lei una strada obbligata. Era il luogo in cui confluivano sul foglio passato e futuro, memoria e profezia, adolescenza e sogno civile».
In questo senso il verseggiare di Sicari è intimamente politico, in quanto la poeta si presta a fare da centro di rotazione di quel maelström che è l’esperienza percettiva, in cui gli elementi ruotano e si riaggregano secondo nuove suggestioni e criteri, distanti dalla logica; Giovanna presta la propria corporeità e il proprio tragitto esistenziale come laboratori di osservazione, e offre la pagina vergata come luogo d’incontro e comunione con gli altri esseri umani.
Nella poesia di Sicari dal fondo febbricitante della rivelazione avviene una genesi: la parole dapprima irregolare, raggrumata, si distende poi sul foglio grazie al sacrificio della Sibilla, come lei stessa si definiva: un’opera di divinazione, che prorompeva in una forma linguistica non pienamente governata, ma vigorosa, profonda, autarchica e finanche spaventosa nel veicolare il messaggio: «…io nuda senza ritorno / in cerca di lava sotto il vulcano, fra le sue mappe, / cosmico luogo per camminare ai bordi, in verticale».
È una necessità e a un tempo una «rivolta» questo «labirinto onirico» che abita il poeta, il quale desidera e teme il suo compito, tra necessità e desiderio, tra ardore e timore di inadeguatezza: «Vorrei cantare e scuotermi in urlo / tenebre risorte, germoglio di pianta / inefficiente per la mia tribù, […] vorrei cantare scuotendomi in tarlo / un avvenire sottratto al guscio di ottobre / ai mesi infiniti rotanti a battito sordo».
Il compito sovrasta e domina il poeta-vate, investendolo di un potere che lo solleva sopra le cose, e lo rende una divinità illimitata, simultaneamente privandolo di tutto: «…nessun temporale mi spense / e io ero viva oltre la diga e la nevicata / come se tutto mi avessero detto / come se niente mi avessero dato».
In Sicari la sacralità del vincolo poetico si fonde a un’esigenza di lealtà, che è tensione dolorosa a testimoniare il male esistente, ma anche a perseguire un bene che sia elevato, partecipato, diffuso: «Potrei chiedere alla Sibilla / di una sera tenera e infantile / quando dolce bolle l’acqua / del pozzo ma la sibilla / sono io, allora dico tutto, / delle sevizie e degli abbandoni, / […] La maga dice: la legge incombe / la legge vuole, domani ti darà / la sua acqua. Cammino / in diagonale, ho mire e tuffi, – dammi la forza, dammi il bene –».
L’invocazione al bene è una costante in Sicari, tanto da divenire unica grandezza fisica a compartimentare il reale, strutturandolo in sequenze: «Persino improtetta, facendo ricorso / alla massa di luce del cielo, qualcosa / si accendeva ribelle alla fine del male. / Si scartava il tempo di una giornata / piovosa, il resto pioveva magnifico / fra le piante e il ponte. Questo / costituiva il tempo, l’unità del tempo».
Questo sentire che riunisce metaforicamente l’acqua al bene e al tempo, richiama fortemente Josif Brodskij: «Penso, molto semplicemente, che l’acqua sia l’immagine del tempo» diceva il poeta (Fondamenta degli Incurabili, Adelphi) e altrove chiamava la pioggia come una medicazione, a rammendare «bene gli strappi nel logoro paesaggio». L’acqua è il luogo dove il tempo fisico perde la sua linearità e diviene entità metafisica, verticale, introspettiva: auto percezione e conato di redenzione dell’individuo.
Ma nella ricerca del bene in Sicari non c’è nulla di melenso o programmatico, piuttosto un vegliare ostinato, solerte sul dolore universale: «Gettata nei tombini è l’anima delle prime strade. / Nelle sere ramate si distendono rugiada e fango. / A migliaia le stragi, in assenza di facce» e ancora : «…i giorni sono avari di labbra, ruotano congelati / in un’epoca immobile pieni di sangue».
A questo fa amaro riscontro l’innegabile stato di primigenia separazione degli umani: «…questo dovere infinito di essere soli, finiti, scolpiti», e un atteggiamento intensamente religioso e politico del donarsi: «Qualcosa sarà dentro la memoria: / culla e croce / a mano armata o a mani giunte / con il respiro dei perduti».
Sintesi emotiva di queste condizioni è una adesione all’altro tenera e seria, un’intensità affettuosa nell’invocare, per ognuno, il dovuto amore: «Per chi non è amato, meraviglia, / ricompensa e meraviglia a chi è soave, a chi sente gli umani / e con la voce lo sguardo porge la parola come una preghiera».
Incessante nei versi di Giovanna è l’espressione della più violenta tenerezza – di chiara matrice pasoliniana – nella ricerca di una giustizia alta, che vada oltre le ripartizioni sociali, oltre le cadute e le incurie, gli abbandoni: «È senza il tempo di una storia / ogni giorno una prostituta mi guarda / ha come me una fascetta sul braccio / anch’io della sua razza randagia irosa in cammino», e vi è onnipresente una partecipata testimonianza della nobiltà dei perduti, soggetti umani tra i più autentici, degni di voce e indagine, latori di verità: «oh viene quel segno perduto del tempo / viene il tempo con la rotta voce dei figli offesi e innocenti, / dei corpi impietriti nel fosso, di tutti / i corpi del mondo che non hanno accesso nel giorno», e ancora «…per tutta la pietà / del mondo trafitto […] ci vedrai alla fermata come fossimo sacre puttane / che a tutti danno insolitamente tavola ordinata e stufa accesa / e tutti guarderanno negli occhi quel punto più puro e / nascosto di ognuno. Luce, luce per chi non si sente degno».
Un atteggiamento che gronda amore, vissuto e tragico, sullo scenario di una Roma epica, eletto scenario mitico della battaglia umana contro sconcerto, desolazione e sofferenza: «La notte romana getta nell’acqua della madre dopo le madri / ma la cosa è ugualmente fragile e orfana: / i fiori, le statue di giugno, i giorni / caldi gravi di Via Merulana / dove solo qui si è poveri in pace […] Lì il bambino cinese, Ahmed / o Mustafà raccolgono fiori e fortuna di derelitti / senza ritorno come abbandonati pellegrini / a cui nessuno chiede veramente se importa morire / rapiti e rapinati immersi in un sonno lieve straniero».
In Sicari ritroviamo a tratti il dettato compatto e frammentato di Rosselli, a tratti versi ad ampio respiro, dove la metrica è soverchiata dall’urgenza di un’espressione viscerale, ricca di emotività, incalzante come un affanno del respiro. Persiste la ricerca di una parola che sia tutt’uno con la prosodia, che riproduca il pulsare immedicabile del cosmo: dove lemmi e ritmi siano virtualmente un’unica entità, che tenda con sforzo agonistico a decriptare la materia, inesauribile e oscura. Perché in essa sono contenuti matrice e alfabeto di quelle verità ai più negate, che giacciono acquattate e roventi, e invadono soltanto gli eletti scagliandoli al proprio ufficio, senza preavvisi, senza ripensamenti: la poesia si fa tracciato cardiologico dell’umano, si fa sismografo del percepibile, si fa carne sull’altare del pianto.
Capita che alcuni commentatori rilevino con acredine che Sicari venga citata soprattutto come compagna di vita di Milo De Angelis, uno dei più grandi poeti italiani viventi; a volte viene messa in evidenza l’inadeguatezza di tale definizione, rivendicando a Giovanna un’autonomia poetica che nessuno in realtà le potrebbe contestare. Se ciò che è evidente, nella ricerca dell’essenziale, non va detto, allora al contrario, distaccandosi da minuterie di genere o rivendicazioni afone e irrilevanti, si può invece sottolineare come Milo sia presente e pervasivo nell’esperienza poetica di Sicari, come è vero anche il contrario, entrambi essendo stati fondanti del sentire e percepire dell’altro, alleati e giocosi rivali nella durezza del compito, compagni d’arme. Così, Sicari: «Assolvimi, per quanto vecchi rissosi / sono questi anni. Complice fino allo spasimo / ti rendo calco d’amore, bianco amore mio / trave che tiene».
Milo è controcanto continuo, come tenero enigma carnale e spirituale, invocato come intelletto e cuore gemello da una donna potente, che ha vissuto in poesia ogni suo lacerto di anima senziente: «Abbiamo ambedue una ragione di fuoco / uguale tempesta, uguale partitura». E così l’amore, il sesso, l’inquietudine del tempo, la tensione religiosa al bene, il canto tragico dell’umano patire e divenire, si distendono in un territorio comune, che è campo di battaglia, e a un tempo sponda e rifugio: «…la bellezza che scorre fra le nostre carte / gara che pur ti sembra poco, / qui dentro le mura proteggersi / lavarsi, incantarsi. Fuori le mura / i lessici stranieri, fuori dalle mura / sanguina l’autunno / guerreggiare sordo e insolente».
«SMORTO SUONO, scorticato / dal profondo: / non parola, non cosa, / ma di entrambe unico nome» diceva Celan, poeta dell’indicibile, anch’egli trafitto da quel dono che rivela e condanna: «Nello specchio è domenica / nel sogno si dorme, / la bocca fa profezia». Tentava così anch’egli di valicare l’inadeguatezza della parola, braccando l’inesprimibile. Ma poi aggiungeva: «Il mio occhio scende al sesso dell’amata: / noi ci guardiamo, / noi ci diciamo cose oscure, / noi ci amiamo come papavero e memoria, / noi dormiamo come vino nelle conchiglie, / come il mare nel raggio sanguigno della luna».
In ogni viaggio siamo soli, certamente; ma alcune epifanie ci vengono incontro quando abbiamo accanto un’anima affine, suggellando un’alleanza sacra, un’unione custodita dall’imprescindibile.
Non è necessario dunque pretendere Giovanna separata da Milo, togliere a questo quadro grandioso alcuna particella, ma anzi è bene lasciarlo esplodere in tutta la sua potenza umana, cercando di coglierne il messaggio con la stessa umile apertura con cui la poeta accoglieva in sé il reale, serbandone intatta la purezza: «…i bimbi non sanno / non vedono e hanno la selvaggia preghiera in bocca, / i bimbi nuotano forte, i bimbi dentro la nostra pace».
E ancora sarebbe inutile ricordare la dignità intera della poeta, salda di fronte a sofferenza e malattia, il suo benedire ogni giorno la vita con la parola, anche nel momento delle ombre lunghe, anche al cospetto della sua personale dose di ignoto; perché questo nulla aggiungerebbe alla testimonianza di una vita, che ha saputo elevarsi al di sopra della propria esistenza individuale, nello sforzo ostinato, mai arreso, di una poesia del dono: «né miseria, né carni, né questioni private / solo quella melodia, qualcuno che infantile / scova lentamente»; e rispondere al proprio mandato pronta, aperta, con celeste e splendente consapevolezza: «Gli eroi, gli dei, quando chiamano sanno / cos’è il sangue, la semina, l’eterno».
Isabella Bignozzi
* Tutti i versi citati sono tratti da Giovanna Sicari, Poesie 1984-2003, a cura di Roberto Deidier, Roma, Empirìa, 2006; in copertina: Giovanna Sicari in un ritratto fotografico di Dino Ignani