25 Ottobre 2020

“Siamo sempre soli, a parare la cera che cola… Eppure siamo ancora qui, trepidanti, aspettando che qualcuno, la notte, facendo gli straordinari, inventi lo straordinario per noi”

Se non ci fosse letteratura la vita sarebbe più pesante. Eppure la letteratura nasce da una fatica che bisogna essere in grado di portare; essa nasce dalla solitudine. Sul fatto che sia fatica o meno, esistono opinioni poi e pareri discordanti. Una cosa però è certa: solitudine è compagnia scomoda che ti si presenta sotto il naso fin da ragazzo, quando ancora non sai pronunciarne il nome, né, tanto meno, comprenderne il significato. Le conseguenze della sua nefasta presenza, tuttavia, si fanno sentire subito, proporzionate all’età del prescelto. È una condizione che non ti scegli. Inspiegabile. Ti è predestinata. E, chiunque tu sia, ci dovrai fare i conti finché campi. Se sarai scrittore, imparerai a fronteggiarla, nel tempo. Se sarai scrittore, dovrai stare solo, alla scrivania. Solo, in una stanza. Perché unicamente in tal maniera potrebbe accadere qualcosa. Quel miracolo di felicità chiamato creazione o concreazione.

Un’amica che sta in Svizzera mi ha illuminato tempo fa, sull’argomento. Non ci sarei mica arrivato. O forse me n’ero bell’e dimenticato. Siamo soli, mi diceva. Comunque. Certo, troveremo sempre qualche amico disposto a spendersi per bere qualcosa insieme; ma per il resto del tempo siamo soli. Nonostante la famiglia. E l’unico antidoto alla condizione di agio o disagio, che ci può salvare, è proprio quando si scrive: quella mirabolante avventura chiamata Letteratura.

Quando si crea, ci si illumina! Occorre stare dietro a una porta, per entrare in altri luoghi. Sentire il gelo della scrivania, il silenzio ottuso dei muri. Provare la paura di non riuscire a scrivere un bel niente. Azzardare l’incontro della vita.

Paradossalmente la letteratura nasce da un impaccio, è un impiccio; fiorisce da un impedimento nefasto che in realtà rivela quanto il gioco valga la candela. Se ci si pensa un attimo, si è soli quando si deve conquistare una bella donna. In ogni occasione che si rispetti nessuno si sostituirà a noi. Si è soli con il fato. Ma senza letteratura ci perderemo tutti; ci perderemmo.

La solitudine insegna la pazienza. È l’esperienza della disciplina. L’impossibile che attraversa gli anfratti ignoti. Ci insegna una parola buona da dire agli sconosciuti (soli come e quanto noi).

Solo le crisi ci portano alle rivoluzioni. E la solitudine ‒ crisi per eccellenza, crasi di vocali ‒ mi insegna a sovvertire il mondo semplicemente con una penna e un taccuino. Che rivoluzione… Vergare parole su un foglio bianco. Si può scrivere per raggiungere l’iperuranio, creando l’infinito.

Noi, poveri esseri umani, fatti di bellezza, cercatori di splendore e incanto, attendiamo affatto che qualcuno, sacrificandosi, scegliendo per la sua vita, ci doni scintille di portento: una poesia, un racconto. Storie. Ecco di cosa abbiamo bisogno. Di farci raccontare una splendida storia nata dalla fantasia di un essere solo. Talmente solo da credere di poter sfidare i propri limiti, abbattere muri, scrivere libri. Allora fare letteratura lo salva e ci salva. Scrivere abbatte l’attesa di un incontro, guarisce il lettore: è puro godimento (come disse una persona che stimo molto).

La letteratura ci scampa dai pericoli. Fa lo scalpo alla noia. Pare il cerino da accendere per far brillare la miccia. La letteratura infine ci dona ‒ perché è fatta di ‒ poesia.

Si è sempre soli, ad ogni buon conto. Pariamo cera che cola. Ma se non ci fosse una fiamma a scioglierci gli indugi, a scaldarci i cuori, o ad illuminare la stanza come un cammino, tutto sarebbe maledettamente perduto. Invece siamo ancora qui, trepidanti aspettando che qualcuno, la notte, facendo gli straordinari, inventi lo straordinario per noi.

Giorgio Anelli

*In copertina: Mikhail Nesterov, “La visione del giovane Bartolomeo”, 1890

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