Ovunque vado, perfino in ferie, c’è odor di follia, di sogno, profumo di ribellione, fetore di eresia. Ovunque passo ‒ sarà l’istinto del poeta, l’assenza della tigre ‒ accade qualcosa di strano: evviva la letteratura, evviva Riccardo Notarbartolo di Villarosa! Ric, come lo chiamo solo io, mi compare sotto il naso quale personaggio mitologico, leggenda a se stesso, re degli incompiuti. Eppure, il suo curriculum è vanto che impietrisce, diamante che graffia la guancia dell’invidia, ammonimento e smarrimento insieme. Sottotenente di vascello nella marina militare, corrispondente di guerra in Afghanistan, direttore di riviste di nautica, autore di libri di avventura in mare, pittore e marinaio in diverse regate oceaniche, ha collaborato con articoli di vela per il Corriere della Sera. Tutto vero. Ma, oltre tutto, ama gli oranghi sulle Alpi (come li chiama solo lui), ovvero i suoi pregiatissimi ometti di pietra, con i quali sta orgogliosamente riempiendo la valle nella quale si è rifugiato, conficcandosi in ateo silenzio ‒ come i grandi ‒ per scrivere il romanzo definitivo. Neanche a farlo apposta, lotta da anni con il Parkinson. Inutile dire, quindi, che ci siamo trovati per amore di Baudelaire, e per quella insana, irrefrenabile voglia di vivere, che fa di ogni eccesso un tornante ubriaco, un vanto in bilico, se non un dagherrotipo stampato in epoche lontane. La malattia che lo blocca, dovrebbe fare di lui un uomo finito. Tutt’altro. Non sarà mica uno stinco di santo, ma per me è un esempio beato. Pozzo di conoscenza, goffo d’irriverente esperienza, cosa ci fa veramente un lupo dei mari nel tempio del Monte Rosa?
*
Quando lo vado a scovare, suona il suo marranzano senza perdere mai di vista quell’humor inglese che ha sempre contraddistinto il suo finto ozio, armato a combattere una Milano da bere, da sniffare, e snobbare. Spacca pietre come un rinoceronte (i suoi ometti, in realtà, sono colossi), oppure cucina per me, ballando una danza pazza, e sciorinando mille proverbi di sua invenzione. Io, di conseguenza, mi adatto a chaperon dell’artista, maggiordomo dell’estro, autista del folle amico, col quale pisciare davanti al Castello della Regina Margherita di Savoia sotto gli occhi attoniti della crème de la crème italica, o dubitare delle sue inattese voglie di lolita. Del resto, chi mi ospita aprendomi la porta di casa o regalandomi senza alcun motivo giacche di pregio, diventa per me un fratello povero da aiutare nelle sere in cui le forze lo abbandonano. Per di più, chi mi faceva coraggio, urlandomi dietro e dicendomi che mi sarei dovuto svegliare da quella violenta depressione, soltanto per il fatto che lui mi avrebbe regalato quel pezzo di montagna, è magma pulsante e vitale sul ring della vita.
*
Il Notarbartolo è una sorpresa via l’altra, fa l’equilibrista reggendo sopra il cappello una grossa pietra da dieci chili, o intrattiene il turista beota assetato di stravaganze, ma che in realtà non sa chi c’è dietro veramente a quell’uomo, che mi ha portato a scoprire nuovi accordi di platino dall’ignoto. Voilà, giochiamo a carte scoperte: Vecchio mio, mi apostrofa ogni volta. Cavalluccio marino, perditempo, sciamano della forza di gravità, ossessionato dagli ometti di tutto il mondo, tanto da farli arrivare con la sola forza del pensiero fin quassù. Che oramai tu sia leggenda, è chiaro, quanto il dovere di parlarne all’universo intero. La parte migliore però riguarda la nostra amicizia: far stare insieme due incompiuti che non sanno quello che fanno, è biglia d’alabastro, giocoso incendio d’azzardo. O forse è vero il contrario. Proprio perché sappiamo fin troppo bene cosa stiamo facendo della nostra vita, tanto da esserne diventati schiavi improvvisati, ci rammentiamo l’uno all’altro da dove arriviamo.
‒ Ricordati da dove vieni, mi fa la saggia vocina.
Dacché, lo piglio a guardare negli occhi, Ric, e rivedo quegli stessi corridoi d’ospedale, lo stesso letto nel quale mi avevano legato. La storia si ripete, penso; la storia ci accomuna.
‒ Fra tre anni diventerai famoso, mi bofonchia il Villarosa, intento a tradurre una novella di vela. Proprio lui, me lo dice, lui che era in confidenza con Piero Chiara e Dino Buzzati…
‒ Sono convinto che uno, quando scrive, ha la speranza che l’opera sopravviva. Ma, se può sopravvivere nell’anonimato, meglio; se può far parte del linguaggio o della tradizione, meglio ancora. ‒ diceva Borges a Liliana Heker… non contiamo noi, conta l’opera ‒ mi sprona Andrea Temporelli, come se l’oracolo avesse soffiato nell’orecchio della sua profezia privata. Qui mi tocca fare i conti con i grandi contemporanei ‒ non ho più giustificazioni, né alibi ‒ bere dai ruscelli d’alta quota l’acqua dell’eterna giovinezza, desiderare fino all’ossimoro di essere dispari alla pari. Se conta veramente l’opera, il carro dell’orsa maggiore mi sia provocazione d’infinito. Per essere all’altezza di queste vertigini, voglio provare il rischio dell’abbandono. Scrivere, per poi abbandonare chissà dove, ciò che di più grande io abbia scritto. Ciò che reputo più importante, sia dato in pasto alle tèrmiti, o regalato per le strade, o ancora lasciato in eredità a un nipote, se non, bruciato da qualcuno di fidato. Sul comodino, dalla copertina di un libro, il volto di Kafka mi osserva inquieto. Dalla parete, lo sguardo di Bonvissuto, accigliato, il sorriso di Acquaviva, generoso, la mano di Temporelli, sulla spalla: tutto parla di sorte e predestinazione. Come quella poesia, l’Ennemi, che chiesi alla poetessa Maria Giovanna Basaglia di trascrivermi in foggia di pergamena. Fu lei, sì proprio una donna, a trasfondermi il demone della poesia, ad abbracciare per prima la mia timidezza; prima che tutto cominciasse, prima che tutto ebbe seriamente inizio, prima di ogni tempo, nello spazio ‒ se vuoi ‒ effimero di un salotto, con una tazza di tè in mano, accerchiato da una collezione di presepi.
“Manchi solo tu”, dico a questo punto, pensando al grande assente. “Tu, che di mio, conosci solo il beato silenzio, l’eterno assenzio”.
*
Riccardo Notarbartolo di Villarosa ha lasciato la city, ormai per lui invivibile a causa della malattia, e ha scelto una valle di montagna. Ma non una qualunque. Quella incastonata dalle leggende. La stessa valle nella quale io, da ragazzo, folleggiavo tra foreste e massi, sognando ignoto e trasandato come ‘i poeti estinti’. Credevo, ad esser serio, che come erano esistiti i poeti laghisti, così un giorno sarebbero esistiti ‒ me compreso ‒ i poeti della montagna. Ma i vecchi amici, svaniscono spesso, e le cose non sono proprio andate come immaginavo. Però, oggi, quant’è vero Iddio, mi trovo affratellato a dei veri poeti di lago; che col lago come me hanno assonanze d’argento, chi in un modo chi in un altro. Ne vivo profeticamente insieme il destino. Grato, come un folle legato a un letto d’ospedale, che puro sogna di fuggire subitamente, strappando flebo e lacci, alla ricerca del fantasma di Vittorio Sereni e della sua gioia assassina.
Giorgio Anelli