19 Maggio 2019

“Si lotta, soprattutto, per amore. A dispetto di qualsiasi tradimento. Consacrarsi all’opera, in devozione”: esperienza in cooperativa. “Mirabilia Dei”, il romanzo di Giorgio Anelli

In cooperativa, sono pure soddisfazioni. C’è il duro lavoro ‒ va bene ‒ rapportato alle capacità di ognuno. Non ci viene risparmiato, anzi! È vero, stiamo in un ambiente protetto ‒ neanche più di tanto ‒ e a volte ci pigliamo tra di noi. Ma vuoi mettere, quando M all’improvviso mi salta addosso, abbracciandomi forte come un’onda opulenta. Ci si abbraccia così, di solito, tra fratelli di sangue; tra ghepardi o pantere. Non so se mi spiego. Chissà quante ne ha passate pure lui… punkabbestia, con qualche dolore ai denti per diverse risse, una vita di strada, tanti tatuaggi, eppure è così giovane. Sembra un principe felice. Parte da parecchio lontano, per venire a lavorare qui. Ogni mattina si alza alle cinque. Non so se mi spiego. Gli dico: «M, devo cercare un libro che s’intitola Cinquant’anni di bianca, sembra introvabile. Lo cerco perché ci sono su delle poesie di alcuni miei amici». M, inizia a ridere come solo lui sa fare, mi guarda, sniffa col naso e mi dice: «Cinquant’anni di bianca, e sei ancora in pista, eh!» sprofondando definitivamente in una fragorosa risata. Però, subito dopo, fa: «Va bene, provo a cercartelo io su internet» e, tutto contento, aggiunge: «Vedrai che ce la farai anche tu a diventare famoso come i tuoi amici».

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Piuttosto che diventare famoso, non chiamatemi poverino. Questo ho imparato, tanti anni fa, da quell’uomo che ci crede meraviglie, e che chiama tutt’ora così i suoi ragazzi, tanto da viverci insieme. Non chiamateci poverini, guai a voi! Se lo dici a M, ti ritrovi per terra col naso gonfio e qualche dente rotto. Se lo dici a tutti gli altri, come minimo scateni un putiferio. Sì, perché in cooperativa funziona così: ci vogliamo tutti bene, ci si aiuta a vicenda, poi però mandi a quel paese persino i tuoi capi, perché, se se lo meritano, se lo meritano.

Poverino a chi?! Nel mondo del sociale ‒ l’ho già detto ‒ è una guerra tra poveri, dove nessuno ti aiuta, e pochi si arricchiscono. Come? Hai bisogno, e nessuno ti viene incontro? È proprio così. Se poi tenti pure di provare compassione allo stato fino, hai sbagliato a capire. Sappiamo fare cento cose meglio di te. Le sappiamo fare da soli, senza alcun aiuto, o con il minimo sindacale. Ricordati: siamo ombre che luccicano di luce propria. Fuochi fatui. Abbagli nella notte. Disadatti dell’amore. Osiamo sempre.

Per farvi capire cosa intendo: L, che tempo addietro in giro per il centro cittadino mi chiedeva sigarette, quando ancora fumavo, e subito dopo lo beccavo intascarsi le mie e fumarsi le sue; L che ogni tanto viene in cooperativa con un gruppo, perché ha una disabilità particolare; L che ha una risata pazzesca, da fauno inferocito. Ebbene. Entra al bar, e attacca subito con la proprietaria: «Come sei bella, Rosy» e ride. «Quando ci sposiamo?» e ride ancora più forte. ‒ Silenzio, fa Rosy, che c’è gente! Intanto il padre di Rosy, dietro al bancone, bofonchia qualcosa. «Il vecchio è arrabbiato?» chiede L. ‒ È tuo suocero, risponde Rosy. «Rosy, chiamo il prete e ti faccio venire a prendere col carro funebre, e ci sposiamo a Sesto Calende» le dice L, mentre lei, subito affonda: ‒ certamente, e paghi tutto tu. Quindi, ora, secondo voi, chi è il poverino? L o la ricca pasticcera? Per me, nessuno dei due.

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Poi. Siccome tutto il mondo è paese, anche la cooperativa si deve adeguare. Ovviamente. Bisogna essere da meno? Arriva all’improvviso gente dal nulla, che non ha disabilità. Per questo motivo non può, assolutamente, essere assunta. Invece, al contrario, di punto in bianco, arriva, lavora, e chi s’è visto s’è visto. Il solito gioco all’italiana. Giusto per far morire di rabbia noi poverini. Giusto un po’. Come quell’altro, raccomandato di ferro, che si spaccia e si fa spacciare dai responsabili ‒ e lo ripeto, si spaccia! ‒ per un tirocinante, per poi, magicamente, in men che non si dica, essere assunto a tempo indeterminato con ruolo di responsabile; sebbene quella sottospecie di raccomandato continui a non essere in grado di fare il suo lavoro, perdendo pure tempo tra chiacchiere, infinite sigarette, caffè e telefonate. D’altronde, così va il mondo. Sperare e vedere che col tempo migliori, è una magra consolazione. Rimane la porcata, soprattutto per chi si deve sudare anni di vero e sofferto tirocinio.

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D’altro canto, del mio amore più ispirato, ho sentore di brividi. ‒ La parola “vita”? Racchiude tutto, diceva Borges a Liliana Heker… Si scrive per rabbia o per amore ‒ mi confida Andrea Temporelli. È d’obbligo quindi fare distinzioni. Si vive per amore. Si lotta, soprattutto, per amore. A dispetto di qualsiasi tradimento. Consacrare la vita per qualcosa o qualcuno, credo sia l’atto d’amore più importante al mondo, da sempre. Consacrarsi all’opera, in devozione. Una volta ritrovato il fuoco della poesia, mi occorreva vivere altre vite, perdere tempo, per poi accorgermi che la cosa più importante è stare, devoto come un monaco, chiuso in quattro mura. Con solitudine e disciplina, amiche intime. Guardare ogni tanto dalla finestra ‒ sopraffatto dai libri ‒ che a volte pare un oblò, altre ancora sembra una meridiana del tempo che scorre. Perché, qui, spazio e tempo sono un tutt’uno con la fatica. Fatica per la quale gioirne, a volte, nel samizdat del verso poetico. In fraternità di silenzio e lontananze fisiche. Ci si consacra, come una madre ai figli. Come una moglie al marito. Ci si perde, confondendo gli indirizzi, in levare. Come ci si perde, pure, per malattie o incidenti. Per poi ritrovarsi, forse, in qualche cooperativa a scoprire che ‒ forse ‒ la vita val la pena di essere vissuta, per rabbia o per amore.

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Così. Quando alzo un attimo la testa, dalla mia postazione lavorativa, a volte osservo i miei colleghi: vedo degli incompiuti che compiono qualcosa all’interno di un’opera; essi stessi opera, per il lavoro che svolgono; consacrati al giorno, che li attende, protagonisti assoluti, della loro vita.

Giorgio Anelli

*In copertina: Antonello da Messina, “Cristo in pietà e un angelo”, 1476-1478

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