PSICHIATRIA. 6
Da quanto era grosso, sembrava un bambino cresciuto a dismisura. Non incuteva timore. Aveva una barba a forma di zucchero filato e tanta voglia di disegnare. Lo sguardo era gentile, quando mi mostrava i suoi disegni. G, da qualche parte li conserva ancora. Non ricordo il suo nome ma, quella garbatezza anestetizzata a dovere mista a occhiaie gonfie e scure, ogni tanto fa capolino nei meandri della vita. Da lì a breve, ci avrebbero fatti uscire entrambi. Ci saremmo così ritrovati per strada, un’ultima volta, come a siglare un addio, quasi a volerci tenere per mano, come fanno i bambini. Mi disse, tremando, che stava allestendo un affresco per una parete di una chiesa… e io, gli credetti all’istante.
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MONASTERO. 1
A pensarci bene, tremavo anch’io. Quelle due settimane in psichiatria erano volate come una rondine che deve annunciare la primavera al cielo intero. Quattordici giorni urlati a Dio, ululati al vento. E adesso che facevo? Uscivo dal manicomio, per tentare di essere riammesso in società. Uno shock via l’altro: papà che muore, danzare tra i folli, riuscire allo scoperto. Non si è mai pronti a nulla, vero? G, aveva paura a stare in un parco giochi. Figuriamoci a riprendere gli studi universitari. Tutto era diverso, tutto era cambiato. «Non sono più io, non ce la faccio. Non riesco a fare niente!» Fu così che mia sorella, risoluta, mi portò da un monaco suo amico. Sfrecciare in autostrada verso qualcuno, per avere il nitore dell’ebbrezza addosso, sembrava il gesto da compiere. Tutto era nuovo per me. Dovevo ricominciare da capo. E non lo sapevo, non lo avvertivo nemmeno. Temevo ogni cosa. Il paesaggio all’improvviso cambiò. Arriviamo in un paese di provincia. Entriamo nella campagna, circondata da rogge; le case si diradano. Immediatamente, l’auto sterza a destra, proseguiamo dritti su una strada sterrata, abbracciata da alti alberi affusolati. E ci fermiamo. Quello che doveva essere un monastero, stava incluso nel silenzio di altri mondi. Entriamo nel cortile. William Congdon parla con un uomo in saio marrone e sandali. Il loro sorriso sarà l’ennesimo presagio al mio destino? Ma io non so nemmeno chi sono; che cosa ci faccio qui; soprattutto, cosa voglio e devo fare della mia vita?
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Entriamo nella piccola chiesa, situata in un cantuccio del cortile. La chiesa è vuota. Il silenzio vibra ovunque. Poi. Eccoli. Suona una campanella, sono le tre del pomeriggio. Arrivano disciplinati, uno dietro l’altro, i monaci. Con sguardo severo o occhi a uncino, si siedono attorno all’altare, e iniziano a cantare pregando. Mi si sgretolano le lacrime. Tengono aperto tra le mani il libro dei salmi e cantano. Chinano la testa a volte, come per inginocchiarsi. Mi pare che in quell’atto, il mondo tremi. “Non morirò, resterò in vita… che cosa può farmi l’uomo?… non temerò l’assalto di mille nemici… Mi avevano spinto con forza per farmi cadere…”
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«Tu sei Giobbe, vero?» mi domanda un monaco pelato, baciandomi e abbracciandomi nel cortile, con un sorriso che disarma, proprio di chi è stato abbattuto e folgorato, un tempo, dalla vita e nello spirito. Non gli rispondo. «Vieni con me G, parliamo un po’» In mezzo ai campi, la paura si disfa e si rifà da sola, e il frumento che ci sfiora in mille pezzi sembra l’indizio di qualcosa di nuovo. Sono la tragedia fatta persona, eppure monaco Michele non ha fretta. Mi ascolta. Sembra apposta lì per me… Se un dio esiste, forse ora è ai miei piedi, e mi sta ascoltando.
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«Quanti anni ha, signor G?» Chi questa volta poneva la domanda, era uno psichiatra emerito, uno tra i migliori in circolazione. Diciamolo, due persone hanno letteralmente preso per i capelli G e lo hanno risollevato da quel fango nel quale si era conficcato, a causa della malattia o meno. Suona strano, ma un monaco e uno psichiatra mi hanno teso la mano, nel tempo, e io gliel’ho stretta forte, per far capire che mi fidavo. «Cosa sta studiando all’università?»…
Il fango lentamente ‒ come le mie lacrime di prima ‒ si sarebbe sgretolato. Al momento, però, era duro come cemento. Sembrava la gabbia che mi teneva prigioniero insieme a mille ossessioni. Ero senza umanità, perché l’avevo persa. Un’umanità che avrei dovuto, poco a poco, riconquistare. Ci sono voluti anni. Ricadute. Sofferenze. Battaglie. Occorrevano forti desideri. Bisognava ritrovare la poesia e il suo fuoco.
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‒ Non riesco più a leggere, dannazione! Nemmeno una pagina al giorno. Non leggo e non ho ancora la voglia di farlo. Non riesco ad alzarmi presto la mattina. Sono tutto un’obiezione. Mi sembra di camminare con addosso pesi e pesi invisibili. Sono il mostro di me stesso. Chiuso in un silenzio che non ha nulla a che spartire con la timidezza. Non mi laureerò più. Che sarà di me? Faccio fatica di ora in ora. Le mie giornate iniziano verso mezzogiorno e terminano la sera presto. Sono dentro a un incubo. Non trovo un senso, non ho passioni né voglie. Sono un urlo che grida nell’anfratto silenzioso dell’eternità. Vorrei uscirne. Ma non ci riesco. Non ci riuscirò mai. Mai! È la fine.
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Invece non era la fine. Con molta fatica, ripresi ad andare all’università, ripresi a cantare in un coro, preparai un personaggio in una recita teatrale. Non avevo stimoli, ma tentai di fare ugualmente tutte quelle cose. Tentai. Perché se non ci provavo, i fantasmi mi avrebbero portato via, divorandomi. Tentare, per poter contare le stelle in cielo almeno una volta ancora nella vita. Per poter dire un giorno a qualcuno ‒ forse più bisognoso di me ‒ “ci ho provato, e ci sono anche riuscito, sai?”
Come se il bene ricevuto, prima o poi, andasse liberamente ricambiato.
Giorgio Anelli
*In copertina: William Congdon (1912-1998), nella fotografia di Elio e Stefano Ciol