Amare, qualcosa o qualcuno. Aggrapparcisi con tutto te stesso. Come fosse follia, quell’osare. Amare. A rischio del rifiuto. Non, chiedere amicizia. Quella semmai verrà dopo: nella complicità dell’amplesso, tra la noia dell’abitudine, nelle difficoltà della vita. Desiderare il proprio bene o quello dell’altro. Avere a cuore ciò che ci caratterizza. Tenere al destino.
Preferire o preferirla. Dare la precedenza a una preferenza che è salvezza. Trasformare la tua passione in ossessione: in una professione. Pur non ricevendo alcun compenso. Roba da matti… O, senza nemmeno essere ricambiati.
Credere nel sogno che non è illusione. Andare, come Huysmans, controcorrente. Amare l’ostinata fatica che vince ogni cosa. Tamponare, piuttosto, l’irrisolvibile; passargli sopra, investirlo con rabbia & con amore. Lamentandosi il meno possibile. Più che altro, mordere! Litigare, farla fuori! Non farsi prendere per il naso. Tuffarsi, d’altronde, con una muta bucata nel buio del mare.
Quindi, riemergere. Voler bene a ciò che sei. Ripensare ogni tanto alla tua storia. Non dimenticarsi mai da dove si viene. Allora scrivere (pardon, leggere e scrivere) diventa il riscatto. No, tutt’al più si ritorna all’amore, all’amare; a quel godere che è puro piacere. Baciare la ferita ambita. Ripetere fino allo sfinimento, infinite volte, la gaiezza dello scatto!
Non pensare, sparuto lettore, che vaneggi o che sia innamorato. Magari oserei entrambe le cose. Ma nulla può essermi concesso da chi non conosce la storia del poeta. E se anche ne fosse al corrente, non significherà arrecarmi vantaggio.
Poetare cavalcando la bestia. Non, illudersi. Scrivere cose mai banali, senza mai prendersi sul serio. È una parola!, tu dirai. Tu, che magari ambisci al medesimo destino…
Eppure, senza mai aver avuto maestri, pur cercandoli. Senza né arte né parte. Autodidatta. Qualcuno mi dette credito, fin da subito, a occhi chiusi: un padre che ricordo ‒ eccome e a malapena ‒ per quei minuti particolari che fanno di lui la mia immensa ferita.
Allora di altri ricordi ricordo il solcare i sentieri del bosco nella notte estiva e invernale. Inventarne di nuovi, sopra la neve. Tornare persino da soli, in quei luoghi. Sì, ho avuto questa fortuna. Mentre ora, che tutto sta cambiando, gioisco del fatto di solcare la neve del foglio. Tentare di sopravvivere all’ovvio, inventando passaggi nuovi.
Non ho più paura di essere dimenticato. L’ho già sperimentato. Scrivo per quelle quattro persone che tengono veramente a me. Altrimenti sarei altrove a sperperare. La poesia m’insegna tante cose. La poesia è anarchia clandestina.
La fortuna ‒ però, ricordavo ‒ di passare ore interminabili nei boschi, in tutte le stagioni del mondo. Il fato di essere stato ammantato di natura. Non so se avrò più occasione di stare in qualche paradiso. Ma ne ho conosciuto il senso. Ora capisci, amore quell’amore? L’emblema della giovinezza è l’inquietudine esposta al rischio. L’emblema dello scrivere è il fuoco che brucia nello specchio; là dove tutto quel che sei ‒ ossessioni e peccati compresi ‒ si riflette nella svolta di una scelta.
Poiché si sceglie nella vita. Si è chiamati a farlo. E, scegliendo, inevitabilmente, si verrà marchiati.
Una volta stavo, le notti, tra i fitti alberi e gl’immensi massi: in compagnia, o solo. Vi ho vissuto tutti gli attimi, e gli spaventi. Perfino l’urlo. E ho camminato. Oh, quanto disperato ho camminato! Si stava soli anche allora. È da lì che ho imparato la coerenza di restare fedeli a qualcosa o a qualcuno.
Il poeta trae crisalidi da pozzanghere. Scrive come dentro a un bosco. In lontananza, sente gli scrosci possenti delle cascate. Tutt’intorno, ha il timore di sbagliare. O la paura d’incontrare, più che la poesia, un orso. Che ci sorprenda almeno amati.
Giorgio Anelli
*In copertina: Andrew Wyeth, “Airborne”, 2002