Considerazioni intorno a “Educazione siberiana”. Ovvero: contro questo Occidente vile e debosciato
Letterature
Luca Bistolfi
Dunque il linguaggio è la nostra voce,
il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è
l’etica.
G. Agamben, La fine del pensiero
*
Se lo studio è la cronaca di un assedio
Cosa significa stare davanti a una parola scritta? Walter Benjamin tentò la risposta: «Un testo scritto è una città di cui le parole sono mille porte. E come tutte le feste e i pericoli della città si muovono attorno alla porta, così la fatica e la ricompensa dei testi si muove solo attorno alla parola. Lo sapevano gli antichi… Ma i nuovi studi corteggiano le sintesi; il loro scopo è il “centro”, come i tedeschi nell’ultima guerra con la loro artiglieria riuscirono a raggiungere le cattedrali dentro la città, ma non Parigi stessa».
Ciò che qui si annuncia è la via del giusto studio: non la fretta barbara di giungere alla ‘sintesi’, ma la pazienza, serena o malinconica, di chi scova i nessi, le gallerie segrete che legano parola a parola, porta a porta. Talvolta queste vie portano la luce gioiosa della ‘festa’; altre volte si mutano in passaggi profondi come pozzi, dove sostare nell’ora del ‘pericolo’.
È anche per questo motivo che ogni ritratto in prosa dovrebbe cominciare dall’idea di scrittura nell’autore in questione. Ma questa esigenza tocca il proprio limite estremo nel caso di Giorgio Agamben, che ha parlato spesso della condizione paradossale dell’autore, immaginandola come l’inseguimento di un’opera assente. Ogni scritto costituisce «il prologo (o, piuttosto… la cera persa) di un’opera mai scritta, che resta necessariamente tale perché, rispetto ad essa, le opere successive (a loro volta preludi o calchi d altre opere assenti) non rappresentano che schegge o maschere mortuarie». Venticinque anni dopo queste righe, l’autore insiste: «La scrittura filosofica non può che avere natura proemiale o epigonale. Ciò significa, forse, che essa non ha a che fare con ciò che si può dire attraverso il linguaggio, ma col λόγος stesso, col puro darsi del linguaggio come tale».
La scrittura filosofica, questo intrico di soglie lucenti o tenebrose voragini, insegue una cosa e una cosa soltanto: la lingua – che per Agamben costituisce il ‘proprio’ dell’umano, la sua eredità, inestimabile perché vuota. Intendere la purezza di questo vuoto, e le ragioni della sua custodia nell’amore del pensiero, significa riconoscere uno a uno quei motivi che Agamben ha intrecciato negli anni. In questo senso, le pagine di Pinocchio. Le avventure di un burattino doppiamente commentate e tre volte illustrate (Einaudi 2021) costituiscono non la sintesi del suo pensiero, ma una occhiale privilegiato e giocondo, quasi un caleidoscopio, sulla sua opera precedente.
L’animale parlante
Agamben è anzitutto un cercatore di ferite. Sviscerando quella macchina ontologica e antropologica che è la cultura occidentale, capta e rivela le scissioni, i tagli che questa tradizione ha operato su se stessa, quasi potesse vivere solo attraverso continue mutilazioni. Il fulcro di tale metodo archeologico è la consapevolezza che senza risalire alle condizioni genetiche dell’antinomia – di ogni antinomia – è impossibile comprendere il profilo del disastro presente.
I materiali preparatori di quell’opera progettata e mai scritta – il cui titolo, stando ad alcuni fogli sparsi, doveva essere Etica, ovvero della voce – testimoniano l’unica ossessione di Agamben: il rapporto tra voce (phoné) e linguaggio (logos), che nell’infanzia trova la possibilità di un’esperienza decisiva, un rischio atteso per «tutti i quaranta millenni dell’homo sapiens». L’esperienza in questione avviene non solo quando la parola si ‘spezza’ e i nomi mancano, ma soprattutto quando si tenti di esibire lo schema di questo stesso vuoto originario – che non ammette grammatica né sintassi. Negativo (assenza di nomi) e positivo (formulazione della logica regolante l’oggetto) si identificano allora nell’infondatezza del logos umano. E l’inferno di quest’assenza di fondamento coincide con lo stesso inconscio dell’Occidente.
Si tratta del problema della presupposizione: «Qualsiasi cosa nominiamo e concepiamo, per il solo fatto di essere nominata è già in qualche modo pre-supposta al linguaggio e alla conoscenza. È questa l’intenzionalità fondamentale della parola umana, che è già sempre in relazione con qualcosa che presuppone come irrelato». Esigendo un fondamento esterno, il linguaggio presuppone un assoluto, un non linguistico, ma lo presuppone nominandolo incessantemente. È su questa nominazione equivoca, su questa evocazione di fantasmi, che il linguaggio trova fondamento. Ma se la presupposizione esprime la relazione tra linguaggio (parole) e realtà (cose), «la presupposizione prima è che vi sia una tale relazione» – che vi sia, cioè, onto-logia. Così, nel suo costituirsi come macchina ontologica, la cultura occidentale pensa il fatto linguistico come inseparabile da quell’esterno costantemente presupposto; e nell’«impossibilità di parlare a partire da una lingua, cioè di una esperienza… della stessa facoltà o potenza di parlare» sta la radice di ogni violenza umana. Non solo: la violenza implicita in questa presupposizione è immanente al dispositivo del fondamento.
Per questo la voce e la lingua investono l’etica e la politica: «solo perché, nell’experimentum linguae, egli [l’uomo] si rischia, senza una “grammatica”, in questo vuoto e in questa afonia, qualcosa come un ethos e una comunità diventano possibili». Ciò che Agamben chiama infanzia è, infatti, l’esatto opposto del dispositivo ontologico: è l’esperienza pura della lingua, in cui il linguaggio non cerca i propri limiti fuori di sé, ma nella «pura autoreferenzialità» del linguaggio stesso, nel fatto linguistico, dove finalmente non c’è alcun ‘indicibile’ da presupporre. Ciò che allora si spalanca è l’aperto, dove ogni violenza storicamente data è ricondotta alla propria arché immemoriale (la presupposizione), finalmente oltrepassata. «Dove voce e linguaggio sono a contatto senza alcuna articolazione… Il pensiero che si rischia in questa esperienza deve accettare di trovarsi ogni volta senza lingua di fronte alla voce e senza voce di fronte alla lingua».
L’altra faccia dell’ontologia è la macchina antropologica: una ulteriore variazione sullo stesso tema – dal momento che, ancora una volta, l’asse attorno a cui ruota il dispositivo è il fatto linguistico. E tuttavia il linguaggio – questo discrimine tra uomo e animale – non è affatto un dato connaturato alla struttura psicosomatica dell’uomo, ma «una produzione storica che, come tale, non può essere propriamente assegnata né all’animale né all’uomo».
Se si togliesse questo elemento centrale (il linguaggio), ogni differenza fra uomo e animale sarebbe cancellata, a meno che «non s’immagini un uomo non parlante… che dovrebbe fungere da ponte di passaggio dall’animale all’uomo. Ma questo è, con ogni evidenza, soltanto un’ombra portata del linguaggio, una pre-supposizione dell’uomo parlante, attraverso cui otteniamo sempre e soltanto un’animalizzazione dell’uomo… o un’umanizzazione dell’animale».
Ancora una volta, è originariamente all’opera il gesto della presupposizione, attraverso cui la macchina antropologica produce l’uomo mediante l’opposizione di umano e inumano. E in questa stessa presupposizione il dispositivo dello ‘stato d’eccezione’ trova il suo luogo proprio. Infatti, è solo perché l’idea di umano è ogni volta già presupposta che la macchina produce una perpetua «zona di indeterminazione in cui il fuori non è che l’esclusione di un dentro e il dentro, a sua volta, soltanto l’inclusione di un fuori». La macchina esclude da sé, quindi, un già umano come un non ancora umano, e ciò significa precisamente: animalizzare l’uomo. Fondamentale, per il funzionamento della macchina, è che al suo centro sia mantenuta «una zona d’indifferenza, in cui deve avvenire – come un missing link sempre mancante perché già virtualmente presente – l’articolazione fra l’umano e l’animale, l’uomo e il non-uomo, il parlante e il vivente».
Come nella macchina ontologica il linguaggio può fondarsi solo presupponendo l’indicibile, l’irrelato non linguistico, così la macchina antropologica istituisce una cesura tra umano e inumano presupponendo l’anello mancante come modello – virtuale e quindi ubiquo – per discriminare uomo e animale, in un’antropologizzazione malata e inconcludibile, dove non si sa cosa l’uomo propriamente sia o debba essere, e tuttavia si è inchiodati al compito impossibile di risolverne l’incognita e realizzarne la virtualità.
Violenza e via di fuga
Ecco svelato l’arcano soggiacente a quest’archeologia, ecco esibita la radice di ogni violenza: «Che l’uomo, l’animale che ha il linguaggio, sia, in quanto tale, l’in-fondato, che egli non abbia fondamento che nel proprio fare (nella propria “violenza”) è… una verità così antica, che essa si trova già alla base della più vecchia pratica religiosa dell’umanità: il sacrificio». E che cos’è il sacrificio se non la fondazione del facere su un sacrum facere? Il sacrificio, infatti, ha al suo centro un determinato ‘fare’ (facere), che in quanto tale viene separato, diventando quindi ‘sacro’ (sacer). Ma questa esclusione non è mai totale e assoluta: il sacer è ora accessibile soltanto a determinate condizioni rituali e solo per poche persone. Così, ciò che è stato escluso «fornisce alla società e alla sua infondata legislazione la finzione di un inizio: ciò che è escluso dalla comunità è, in realtà, ciò su cui si fonda l’intera vicenda della comunità ed è assunto da essa come un passato immemoriale e, tuttavia, memorabile».
Per questo la violenza è sprigionata dalle convulsioni dell’uomo, questo essere infondato che in ogni tentativo di risolvere l’esigenza del proprio fondamento finisce inevitabilmente per sospingere l’inarrestabile meccanismo sacrificale: «è la stessa infondatezza del fare umano (a cui il mitologema sacrificale vuole porre rimedio) a costituire il carattere violento (cioè contra naturam, secondo il significato latino della parola) del sacrificio… Il fondamento della violenza è la violenza del fondamento».
Per liberarsi dalla violenza immanente a questa macchina, Agamben si sforza di «pensare l’essere non alla maniera della metafisica», che considera l’essere come semplice fondamento dell’essente, subordinandolo quindi all’essente stesso. Nell’economia dell’experimentum linguae, infatti, un simile pensiero (metafisico) significa che «l’aver-luogo del linguaggio (che il linguaggio sia) viene obliato in favore di ciò che è detto nell’istanza di discorso; cioè che questo aver-luogo (la Voce) è pensato solo come il fondamento del detto», in modo che l’esperienza pura della lingua resti necessariamente impensata – e impensabile.
Ma se la metafisica pensa la Voce come ciò che, restando non detto in ogni parola e in ogni tradizione storica, destina l’uomo alla parola e alla storia (come l’assoluto indicibile, presupposto a fondamento di ogni parola umana), l’esigenza del pensiero sarà quella di pensare «a partire dalla definitiva cancellazione della Voce, o, piuttosto, pensa[re] la Voce come mai stata, non pensa[re] più la Voce, il tramandamento indicibile. Il suo luogo [di tale pensiero] è l’ἦθος, la dimora in-fantile – cioè senza volontà e senza Voce – dell’uomo nel linguaggio». La gioia inesauribile e senza nome di questo luogo – l’infanzia – non è una Gerusalemme da riconquistare; all’opposto, è come un Eden da cui non si dovrebbe mai voler uscire. Non è un Regno terreno da compiere (dove il comando e il diritto partecipano del cerchio sanguinario del sacrificio), ma la gratuita immagine del Giardino che ogni colpa e ogni legge precede. (Perché ogni progetto politico, proprio perché storico, è votato all’erranza e al naufragio: «I nostri sogni non possono vederci – è questa la tragedia dell’utopia»).
Ma cosa resta a un pensiero che abbia fuggito l’ontologia, a un vivente che si sia spogliato di ogni umanità? Questo essere, di certo, non ha più niente a che fare con la storia. Ma questo significa – secondo l’idea di Benjamin – che proprio a lui si spalanca lo spettacolo della ‘storia autentica’.
Davanti a una lingua che senza sosta significa e violenta la ‘cosa’ nel giudizio (Urteil: ‘accusare’, ‘parlare contro’ – come nel greco kategoreo) e nel concetto (Begriff: ‘afferrare’, ‘prendere nelle proprie grinfie’), c’è ora un parlante capace di ‘salvare i fenomeni’ (σῴζειν τὰ φαινόμενα) nella lingua della poesia: luogo dell’idea, immaginazione creatrice del nome. Davanti alla morale e alle menzogne dell’antropologia sta un vivente che non ha da essere più né uomo né animale, e può provarsi finalmente nel magma sereno dell’inumano. Solo e soltanto all’infante, che ha saputo riconoscere l’inferno della storia e della politica, può essere affidata la politica che viene.
Pinocchio: autoritratto
(Inumano). Agli occhi di Agamben, Pinocchio è una di quelle figure dell’inumano che la poesia moderna ha destinalmente eletto a talismani, armi sottili per fuggire la barbarie dei tramandamenti. Come uno stemma, un gesto o un enigma, Pinocchio affianca altri profili illustri, in una galleria sterminata e senza nome: «L’antiumanesimo di Baudelaire, il “se faire l’âme monstreueuse” di Rimbaud, la marionetta di Kleist, il “c’est un homme ou une pierre ou un arbre” di Lautréamont, il “je suis véritablement décomposé” di Mallarmé, l’arabesco di Matisse, che confonde figura umana e tappezzeria, “il mio ardore è piuttosto dell’ordine dei morti e dei non-nati” (Klee), “l’umano non c’entra” di Benn, fino alla “traccia madreperlacea di lumaca” di Montale e “la testa di medusa e l’Automa” di Celan, esprimono tutti la stesa esigenza: “ci sono ancora figure al di là dell’umano!”» – ma come intendere, nel caso di Pinocchio, questo ‘al di là’?
(Stile). Il sottotitolo del libro di Agamben annuncia le avventure del burattino come «doppiamente commentate». Riferimento costante, oltre al classico di Collodi, è infatti il commento- enigma di Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo. E se già Manganelli aveva portato l’inquietante genere del commento alla sua vertigine stilistica insuperata, il gesto di Agamben conduce questa stessa vertigine all’estremo, alla conoscenza di sé: è come nei trattati talmudici, dove la Parola di Dio e il commento umano (la colata mentale dello studioso: interpretazioni, deduzioni, visioni), a furia di chiamarsi, finiscono per inseguirsi, sovrapporsi e mescolarsi – come gli amanti nel Cantico dei cantici. Lo stile del libro è precisamente questo moltiplicarsi infinito dei piani, delle opere e dei nomi, è questa nebbia perlacea dove il confine tra verbo e sostanza, tra il commento e il suo oggetto, è abolito. Allucinazione perpetua: cancellando la cesura fra reale e virtuale («due tensioni nell’unico campo magnetico dell’immaginazione e della lingua»), un apparentemente innocuo libro su Pinocchio identifica, fin dalle prime battute, il mondo esterno, che circonda il lettore, e la fiaba narrata; l’uno e l’altra sono saputi in quanto ‘materia’ – la stessa hyle-silva in cui Pinocchio è stato scolpito.
(Autoritratto). Ma dietro la pratica del commento sta, immobile e trasparente, un motivo profondo, una decisa postura. Una volta Agamben ha definito se stesso «un epigono nel senso letterale della parola, un essere che si genera solo a partire da altri e non rinnega mai questa dipendenza, vive in una continua, felice epigenesi». E se in un’altra pagina ha sostenuto di non aver «potuto né voluto avere allievi, ma soltanto amici», è perché l’unica autobiografia possibile sono i volti degli amici che sempre tornano, felici e muti, a visitare la memoria. Questo identificarsi di testo e commento, questo sfumare l’uno nell’altro, traduce l’esigenza di poter parlare di sé solo attraverso la testimonianza degli altri nomi, primo fra tutti quello del «burattino apostata». È la saldatura decisiva, la più paradossale: a coincidere, ora, sono i due gesti del commento e dell’autoritratto.
(Iniziazione). Lettori illustri considerano le avventure di Pinocchio una vera e propria iniziazione. Ma a cosa? Agamben esclude che si tratti di una dottrina segreta, celata ai profani e rivelata a una cerchia ristretta: «L’esoterismo è accettabile, solo se si comprende che l’esoterico è il quotidiano e il quotidiano l’esoterico». Pinocchio è certamente iniziato, «ma ciò a cui è iniziato è la sua stessa vita… Il solo contenuto dell’iniziazione è che ora non c’è più nulla da capire, che abbiamo finito di dover capire, di continuare ad attingere acqua con un oncio bucato». Al di là di ogni esoterismo e di ogni gnoseologia sta infatti la dimora anarchica dell’immaginazione, che «ignora candidamente ogni distinzione fra il sacro e il profano, che non fa che rimestare e confondere». Nel gioco di questi ribaltamenti perpetui, il Pinocchio di Agamben è iniziato alla vita come al picaresco vivir desviviéndose, a un vivere che svuota di senso la vita stessa. Vivendo, cioè, «solo disvivendo, caparbiamente mancando e sfuggendo la propria vita». Ma come è possibile iniziarsi a una vita disvivente? «La risposta a questa domanda – se fosse possibile trovarla – definirebbe una volta per tutte l’essenza e il significato delle avventure del burattino. E, forse, di ogni avventura umana sulla terra».
(Senza tempo). Ma in questo disvivere è celata una promessa, la formula della felicità. Vivir desviviéndose lo può solo chi non sia stato preso nella macchina antropologica – o chi da essa sia fuggito. «È come se l’umano potesse veramente apparire solo in ciò che umano non è… perché veramente umano è solo l’inumano», l’innocenza salvato dalla morale e dal sacrificio a cui ogni vita è inchiodata. È una vita libera dal tempo delle leggi umane. Di Pinocchio, che parla ancor prima di nascere, «non contano gli anni». Perché in questa vita non esiste la storia-progresso, la cronolatria del prima e del poi; «abbandonando la terra e buttandosi in mare a nuotare “alla ventura”, [Pinocchio] si è liberato per sempre dalla possibilità di distinguere fra il ritorno e il progresso, fra l’autentico e l’inautentico». E come il mare è l’elemento ‘fuori legge’, in cui le leggi terrene sono sospese, il tempo del disvivere è altro proprio perché assolto e «senza obblighi calendariali».
(Verità). Ma la storia e le leggi non fissano immobili la fuga di Pinocchio: lo incalzano continuamente, pugnalandolo con sensi di colpa e ricatti. È quindi «solo recuperando la sua comica natura che Pinocchio può liberarsi delle allucinazioni con cui si tormenta», per riprendere la sua fuga liberatrice, «per questo non fa che correre, e quando alla fine si ferma è perduto». E questa insolenza dell’incorreggibile e incontenibile Pinocchio, espressa nelle incessanti diminuzioni e crescite del suo naso, è la verità del burattino. Perché proprio nell’incapacità di dare ascolto ai babbi, ai grilli parlanti e alle fate (maschere del potere in agguato, del comando moralista, dei ricatti della medicina) sta la ferma statura etica del ‘giusto’ Pinocchio: «La verità non è un assioma fissato una volta per tutte: cresce e diminuisce “a occhiate” insieme alla vita, al punto di diventare sempre più ingombrante e difficile per chi vi aderisce senza riserve – come il naso di Pinocchio, appunto». Ecco allora il segreto sovversivo e indomabile di questo e di ogni infante: «Quando fa il buono, Pinocchio non vive, non ha storia, non gli accade niente». E come Pinocchio ha dovuto imparare a restare «fedele alla sua innaturalezza», il lettore deve ora decidersi davanti all’appello del disvivere: «convivere con una zona di non conoscenza, immemorabile e vicinissima» che è, appunto, l’infanzia. In questo luogo infissabile e infigurabile, la macchina antropologica è disattivata: le due nature – uomo e animale – che voleva articolare secondo la reciproca inclusione-esclusione, si scoprono finalmente pacificate nel medio dell’infanzia, che non è altro che «un vuoto, un varco fra di esse… una innaturalezza perpetuamente innaturata e insostanziale».
(Sogno e veglia). Ultima e decisiva contaminazione – in cui il libro si chiude (o si apre?) – è quella di sogno e veglia. Infatti, tutte le avventure del burattino narrate da Collodi e commentate da Manganelli, sono per Agamben «un sogno del burattino meraviglioso, che alla fine sogna di svegliarsi e vede in sogno se stesso addormentato… Ma il sogno non è meno reale della veglia, non è che l’altra faccia del mistero che… continuiamo senza accorgercene a portare». Ma perché, perché mai scrivere un libro su Pinocchio mentre la macchina biopolitica e medica devasta il corpo e calpesta i diritti dell’intera umanità? Perché scrivere un libro su Pinocchio in quella che Deleuze chiamava ‘l’ora del deserto’, delle menti vendute e dei disarmati comprati? La risposta – qui suggerita – non è nel libro, ma il libro stesso: se il sogno che quest’opera ha arabescato nella mente del lettore è reale quanto la veglia, sarà giusto assegnare alla realtà mondana il nome di incubo. L’insolenza e la ribellione di Pinocchio sono il geroglifico, scritto sulla sabbia sempre mobile della storia, di un’esigenza politica.
Se il filosofo è una sentinella
All’ingresso del suo commento alla Lettera ai romani, Agamben ha posto il celebre interrogativo di Is 21, 11: Sentinella, quanto resta della notte? Raccogliendo quanto detto fino ad ora, occorrerà tenere a memoria una simile citazione, cercando di corrispondere a questa intenzione, a questa domanda urlata dell’autore. La radice ebraica alla base della parola ‘veglia’, שׁמד, compare anche del termine che indica i ‘desolati luoghi di tenebra’ (che i latini tradurranno in caliginosis). In ebraico, quindi, la veglia santa della sentinella è indisgiungibile dalla notte nera del mondo, che minaccia assedi e distruzione. Ed è interessante notare che un’altra parola, assai vicina a queste, בָנְׁשֶא ,esprime il significato di soglia: ‘cancello’, ‘finestra’. Vertiginosa tangenza semantica, che come un barbaglio appare in Prov., 8, 34: «Felice [indica chi è ‘lieto camminando rettamente] l’uomo che mi ascolta, mirando giorno per giorno le mie soglie, per vegliare attentamente le mie porte». E come in un circolo perfetto, questo passo rimanda al frammento di Benjamin, gettandovi una luce decisiva. Leggere in spirito di amicizia l’opera di Agamben – conoscendo le porte che da una parola all’altra si aprono e illuminano a vicenda, sostandovi e attraversandole – non significa altro che pensare, con lui, la veglia.
Tommaso Scarponi