L’ultimo romanzo di Giordano Tedoldi si intitola “Necropolis” e lo ha pubblicato quest’anno Chiarelettere. Tedoldi esordisce al romanzo con “I segnalati” (Fazi, 2013), a cui è seguito “Tabù” (Tunué, 2017). L’esordio letterario di uno scrittore che “è considerato da molti il cattivo della letteratura italiana, o se volete l’enfant terrible della nostra Repubblica delle Lettere” (così Gianluca Barbera in una intervista pubblicata su questo foglio) accade nel 2006 con “Io odio John Updike” (Fazi; poi minimum fax, 2016).
In Necropolis, oltre ad affrontare il tema della Morte, anzi del morire, affronti anche il tema del dualismo: uomo-donna, terra-cielo, tradizione-innovazione. Anche se superficialmente può sembrare una distopia, il libro è un romanzo profondamente filosofico. Quali sono le basi teoriche e filosofiche da cui sei partito scrivendolo?
Prima di rispondere, una precisazione. Non amo molto i romanzi filosofici, a meno che non si tratti de “L’ultimo puritano” di George Santayana, dove in ogni caso l’elemento narrativo è non meno travolgente della forza e profondità concettuali. Credo che nei romanzi ci debba essere largo spazio per la stupidità, la mediocrità, la demonicità dell’uomo. In particolare spesso i romanzi filosofici, pur presentando, poniamo, dilemmi etici, sono completamente privi del carattere demonico. Sono stille fredde. Questa fiacchezza nel tratteggiare il bene e il male – che non riguarda solo la ristretta pattuglia dei romanzi filosofici, ma molti romanzi correnti in generale, i romanzi della nostra età dove persino gli eccentrici sono conformisti e terrorizzata dal giudizio degli altri – si risolve nel fatto che questi due valori non turbano né seducono, semplicemente il primo (il bene) è carezzevole o insopportabilmente sentenzioso, l’altro è uno spaventapasseri o una vendetta privata. Le parole che li rappresentano cadono sulla pagina con l’attenzione con cui un relatore, un assistente universitario, un cattedratico le pronuncerebbe in una conferenza o una lezione. Lo stile conferenziale, algido e disanimato, non può avere accoglienza nella mia idea di letteratura (e non ci si inganni, anche quei nichilisti del linguaggio ipercomplesso e astruso sono in realtà dei conferenzieri mascherati). Premessa chiusa, e ti rispondo. Il dualismo è il modo in cui l’uomo vive nel divenire. Molto semplicemente: io mi rompo di fare A, passo a fare B. Questa è tutta la mia visione politica, morale, antropologica. Io non sono un uomo, sono un pendolo (che pure ha un perno, un fulcro). Io vivo per sfuggire dalla sorte A nella sorte B, e viceversa, e non credo a nessuna stabile esistenza. Tutti i dualismi affrontati e divorati in Necropolis si rivelano come poli estremi di un’inquietudine che, se crede di placarsi nell’uno o nell’altro polo, fatalmente si paralizza, non cerca più, non comprende più: diventa retorica. Infatti, in Necropolis, tutti questi “maghi degli estremi” sono morti. Yarden, il protagonista del romanzo, che decide di incontrarli perché cerca, in loro, una superiore comprensione (avendo costoro vissuto tutta la vita, e anche oltrepassato la morte, si presume ne sappiano più di tutti) trova che i dualismi non sono affatto valori messi lì da un dio o da qualche inconcepibile struttura fondamentale dell’essere, e per i quali noi dobbiamo decidere di schierarci, quindi posizionandoci nel bene o nel male, ma che quei poli, quegli estremi, li fabbrichiamo noi perché siamo pazzi e disperati e inquieti. Sono il nostro gioco anzi giocattolo preferito: che è il divenire. Ma perché tutto ciò? L’uomo ha un’energia, che deve consumare. Morire bene, vuol dire spremere il limone che si è fino all’ultima goccia. Il migliore modo per spremersi, è divenire da A a B e ritorno. A e B naturalmente sono, in ultima analisi, Nascita e Morte, cioè, il nostro imperscrutabile Destino.
I segnalati (il tuo primo romanzo, edito da Fazi; anzi il secondo, contando Deep Lipsia, autopubblicato) e Necropolis sono una messa nera; Tabù (Tunuè, 2017) è invece, come si è detto in giro, nei corridoi dell’ospedale delle Lettere, una messa bianca. Un rito di purificazione, di catarsi. In che modo, all’interno del tuo percorso autoriale, si è manifestata questa scissione concettuale?
Un po’ per quanto dicevo prima: la mia pendolarità. Non posso scrivere una messa nera dopo una messa nera, ho bisogno di saltare un giro. Volevo scrivere una commedia, con “Tabù”. Volevo dire agli altri e ancora più a me stesso: so farvi ridere, so prendervi per il culo tutti, so ridicolizzare me stesso e le mie storie d’amore, non è che non creda in nulla, ma semplicemente non c’è nulla in cui credere, almeno nulla di quelle cose che ci sono state consegnate, perché queste appartengono a tradizioni morte. Quante tradizioni morte – sessuali, culturali, politiche, morali, logico-scientifiche – ci trasciniamo dietro e non abbiamo il coraggio di dar loro il colpo di grazia? Io uso la letteratura per dare il colpo di grazia. Non mi piace il passato (però ha ragione Natascia che, in “Umiliati e offesi”, esclama: «Com’è bello il passato!», ma lei lo può dire io, io no) e tantomeno quel passato che si spaccia per presente o addirittura per futuro. Non si deve avere pietà per le tradizioni consumate, bisogna congedarsene con durezza. “Tabù” è una messa bianca perché è un felice congedo da una visione della sessualità e dell’amore che romanticamente e nostalgicamente ha ancora un senso, ma oggi, nel mio presente, nel mio tempo, doveva essere liquidata. Quindi è un grande sabba erotico e sentimentale che sprigiona però un fuoco bianco, perché c’è dolcezza e tenerezza in questa liquidazione, c’è lo spirito di Natascia che ricordando come il padre le carezzava i capelli, quando era distesa sulle sue ginocchia, da bambina, esclama: «Com’è bello il passato!». Se vuoi, il passato è bianco, il presente e il futuro sono sempre neri.
I tuoi cosiddetti maestri – se maestri ne hai?
Scusami se ti rispondo a brutto muso: ma quali maestri! Se avessi avuto dei maestri, saprei scrivere molto meglio di come so fare. Che presunzione, dire: i miei maestri sono stati questo e quello… Io sono il peggiore alunno del peggiore maestro: me stesso.
Nel trittico I segnalati, Tabù, Necropolis, sembra compiersi sottotraccia un percorso esoterico (numerosi, appunto, i riferimenti al mondo dell’occulto nei tre romanzi). Partendo da questo assunto, come consideri il tuo esordio, la raccolta di racconti Io odio John Updike (Fazi, 2006; minimum fax, 2016)?
Lasciami gioire innanzitutto per il “trittico”. Questi tre libri sono effettivamente un tutto che va letto insieme (non necessariamente cronologicamente) perché ciascun pannello possa essere veramente compreso, e dunque la mia opera nel suo insieme. Però respingo qualunque traccia di esoterismo nei miei libri. Io, e parrà contraddittorio, non sono un uomo delle tenebre, e non credo e tantomeno coltivo alcuna pratica esoterica. L’esoterismo è una subcultura. Io tra Eraclito l’oscuro e il calmo, analitico, frugale Epicuro sto col secondo. Però è vero che attraverso i tre pannelli, o tre passi nel delirio che sono i miei tre romanzi, si compie un tragitto ma oso sperare che non sia un tragitto verso il nulla, il vuoto, l’oscuro, l’abisso, ma verso la comprensione o, perlomeno, un tentativo di comprensione. Un cammino solare. Il mio dovere è cercare, non distruggere (e per cercare posso anche, come mezzo utile o addirittura inevitabile, ricorrere alla disgregazione e alla distruzione – come ad esempio avviene in modo forse insopportabile nei Segnalati). Come stia questo tragitto, così accidentato, in rapporto con la sprezzante facilità espressiva di cui godevo in Io odio John Updike non saprei qui, sui due piedi, dire. Credo solo che Io odio John Updike sia un meraviglioso campionario di emozioni estreme colte nella loro autentica tensione nervosa e spirituale. Si sente, in ogni riga, l’attrito e un eccesso che dalla parola si fa azione, sport, energia cinetica. Alcuni racconti (ad esempio Wendy e io) sono ritmicamente implacabili come un Concerto brandeburghese di Bach. Io odio John Updike è un libro agonistico che somatizza la vita. Dovrebbe partecipare alle Olimpiadi.
In un altro racconto di Io odio John Updike, cioè proprio quello che dà il titolo alla raccolta, un personaggio, che frequenta una scuola di scrittura, stronca i libri della docente dicendo che «sono solo parole». Non so se questo sia anche il tuo punto di vista, ma puoi spiegare meglio cosa intendi – in senso evidentemente negativo – che un libro è fatto di «sole parole»?
In sostanza, questo: che scrivere non è un’attività disincarnata (e non lo è nemmeno la lettura) ma è un’arte “scontrosa o mestiere” per dirla con Dylan Thomas, un’attività in certa misura agonistica come dicevo prima (come ogni arte) in cui gioca un ruolo decisivo il pathos personale dello scrittore, il suo coinvolgimento, la sua febbrilità proprio nel momento stesso della scrittura. E le sue vere, non simulate, non ostentate, fragilità, che sono forse il vero magnum mysterium di quello strano istrione e creatore che è l’artista. Ci sono scrittori che evidentemente non hanno energie morali, psichiche, logiche tali da traboccare nella scrittura in quel modo vibrante e sconcertante che ogni pagina non solo parolaia trasmette. Non sto dicendo che la scrittura debba essere estremistica o violenta, tutt’al contrario: anche nei toni sfumati, dolci, anche nella gamma dei grigi, io voglio sentire il vero interno grigiore dello scrittore, la sua anima grigia. Ogni parola deve avere una corrispondenza animica, questo dico. Voglio sentire la fisicità, la natura, la psicologia brada dello scrittore nelle sue opere. Invece si leggono molti libri che hanno una patina di senescenza, tutto è slentato, tutto è sterilizzato e amorfo; per via di eccesso intellettuale, calcolo, spossatezza, troppo lavoro: i motivi possono essere tanti. Ne risultano solo segni, parole, caratteri assurdi. L’energia vitale riscatta dall’assurdo e null’altro, ma questo è un discorso che è soggetto a fraintendimenti di carattere politico, e per non essere tacciati di vitalismo o di essere di destra ci sono scrittori che programmaticamente scrivono senza sentire niente se non le voci, anzi, le grida minacciose (molto più estremistiche di quelle dei loro spauracchi o di quanto riuscirebbero mai a essere loro sulla pagina) dei loro commissari interiori.
Gabriele Galloni