06 Aprile 2023

L’ambigua bellezza del Giappone. Kawabata, Ezra Pound, Kenzaburō Ōe

Il romanzo più rappresentativo di Yasunari Kawabata, Il paese delle nevi, racconta, per bagliori, specchi, fraintesi, l’amore tra Shimamura, ricco dandy di Tokyo, e Komako, geisha che incarna il candore abbacinante e scarno della stazione termale, in montagna, in cui è ambientato il libro. Il romanzo è breve – 130 pagine nell’edizione tradotta da Giorgio Amitrano per il ‘Meridiano’ Mondadori che accoglie alcuni Romanzi e racconti di Kawabata –: eppure il grande scrittore giapponese impiega anni a raffinarlo. I primi capitoli del Paese delle nevi sono pubblicati nel 1935; l’ultimo esce nel 1947: interrogato intorno a quel romanzo, Kawabata “continuerà a considerarlo un lavoro incompiuto”.

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L’idea di un romanzo pari a una nevicata: meraviglioso perché sai che si scioglierà. Istantaneo. Un romanzo come una nevicata di luce – un romanzo-Monet.

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Il paese delle nevi ha l’ambizione di far sentire, più che raccontare. Senti il freddo, il calore dei corpi, gli spazi sconfinati, le sconfinate distese dell’amore – tanto vaste da spezzarsi, per una parola in più, come una tazza.

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Nel 1925 Kawabata teorizza la nuova via del romanzo giapponese, la ‘scuola della nuova sensibilità’ (Shinkankakuha) con queste parole:

“Se finora si è sempre scritto ‘i miei occhi hanno visto rose rosse’, perché gli occhi e le rose erano elementi distinti, i nuovi scrittori fondono occhi e rose scrivendo ‘i miei occhi sono rose rosse’”.

L’estro estetico coinvolge una postura etica:

“Guardare le cose in una disposizione d’animo tale da percepire il proprio ‘io’ dentro le cose, consente un’espansione del soggetto, una libera mobilità dell’io”

Kawabata cita i pittori espressionisti, la filosofia di Benedetto Croce: in realtà, innova nei solchi della tradizione. I suoi romanzi paiono dipinti sui paraventi, pura arte calligrafica: ciò che è elaborato, ci appare improvviso – mai improvvisato –, naturale, appropriato e proprio.

Ogni intenzione estetica, ogni tensione programmatica, sembra ingenua, oggi: Il paese delle nevi supera ideologie e giustificati stilemi.

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Allo stesso modo, la geisha è elegante per sottrazione: la disciplina, accanita, leva ogni decoro, ogni artificio. La geisha non mette in scena il corpo, come la prostituta: lo fa scomparire. Il suo corpo è indimenticabile perché scorre come acqua, è un refolo di vento, un nugolo di farfalle. Ci si domanda: è mai esistita?

Kazuo Ōno (1906-2010)

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Komako, la geisha di montagna che ha appreso l’arte per pagare le cure al suo ragazzo, segnato da morte, Yukio, è capace di esagerate gelosie. È Medusa e Sfinge: fuoco in armatura di gelo. L’intelligenza della geisha: sa quando fare la stupida e quando instupidire. Mentre Komako suona lo shamisen, intonando le tradizionali strofe, il suo uomo – confidente più che cliente – capisce ogni cosa:

“Komako recitava volutamente le strofe con un andamento cantilenante, rallentando in alcuni punti, saltandone altri perché difficili, ma la sua voce cresceva sempre più di intensità, come se fosse posseduta. Il rumore del plettro contro le corde era così limpido e possente che non si capiva fino a dove avrebbe potuto arrivare: Shimamura ne fu spaventato… Quando il brano giunse alla fine, egli si sentì sollevato. Questa donna è innamorata di me, si disse, ma il pensiero gli diede una stretta al cuore”.

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Sono primari, icastici i simboli del Paese delle nevi: lui, lei, la montagna, “le stelle, quasi troppe per essere vere” che “sembravano precipitare a una velocità irreale”. I legami astrali, tra estranei; le passioni tanto estreme da essere taciute: soffocamento per nevicata, intorpidimento nel tepore. La geisha resta un enigma – lo è anche per sé. La forma l’ha resa distante dall’essere: dov’è il cuore della geisha?, nei polsi, nelle caviglie, sulla nuca, nascosto in qualche vertebra? Più facile che la geisha si trasformi in una gru, in una volpe, in un ciliegio: si è mascherata per smascherare chi le è di fronte:

“La luce delle stelle era più debole che in una notte di luna nuova, eppure la Via Lattea era più luminosa di un cielo in una notte di plenilunio. In quella luce, così debole che nemmeno un’ombra si disegnava sulla terra, il viso di Komako fluttuava come un’antica maschera, conservando tuttavia, misteriosamente, il profumo di donna”.

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L’immagine della Via Lattea – “che scivola in lui con un sibilo” – ricorre nel romanzo. Le stelle come una nevicata, la neve come il suono dello shamisen, gli astri come un azzardo istantaneo: amiamo le cose perché ci passano tra le dita, vane. I fiocchi di neve pari ai fiori di ciliegio.

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Kawabata identifica la bellezza della geisha con il biancore latteo e spesso che ne decora il viso, con la lucentezza accecante delle nevi. In un libro equivalente e contrario, Libro d’ombra, Junichiro Tanizaki descrive il “colore dell’ombra che avvolgeva la bianchezza fantomatica delle antiche donne giapponesi”. La “casa di geishe del quartiere Shimabara di Kyoto”, scrive Tanizaki, è definita da “un buio di una densità senza pari”, tanto che “il timore di quell’ombra granulosa mi costrinse a sbattere le palpebre ripetutamente”. La bianchezza emerge soltanto se recinta di ombre, come la Via Lattea che balugina nel nero del cosmo:

“Reso insensibile dalla luce elettrica, l’uomo moderno ha dimenticato persino che una simile oscurità esiste… Del resto, non erano spiriti arcani anche le donne che vivevano là, dietro tende pesanti, oltre porte scorrevoli, difese da più strati di paraventi? Le tenebre le abbracciavano con mille tentacoli d’ombra, si insinuavano nella scollatura e nelle imboccature delle maniche, passavano sotto l’orlo dei kimoni, colmavano ogni vuoto e ogni interstizio. O forse non era così, forse erano quelle stesse donne, come il ragno mostruoso della leggenda, a secernere, dalle dentature annerite e dalle punte dei capelli corvini, le tenebre in cui vivevano”.

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Nel 1968, nel discorso che segue il conferimento del Nobel per la letteratura, Kawabata devia dal tema: parla di Murasaki Shikibu e di Sei Shonagon, cita le poesie di Ryokan, i versi sapienziali di Dogen, l’arte dell’ikebana; a suo dire, “le poesie dell’imperatrice Yofukumon’in”, vissuta al principio del XIV secolo, “sono il simbolo di una sottile malinconia tutta giapponese e mi sembrano ancora più vicine ai nostri tempi”. Nonostante Hiroshima e Nagasaki, Kawabata ausculta il cuore del Giappone ancestrale, fitto di samurai e monaci itineranti, di poesie inscritte sui ventagli. Accenna “al nulla, al vuoto della tradizione giapponese ed estremo-orientale”, forse prefigurando il gesto compiuto di lì a poco dall’amico e discepolo Yukio Mishima. Forse anche la geisha, involucro di trasfigurata perfezione, è emblema del vuoto.

Michio Itō (1892-1961), ballerino giapponese, amico di Ezra Pound

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Sulla rivista londinese “Future”, nel dicembre del 1916, Ezra Pound pubblica Sword-Dance and Spear-Dance, ko-uta imagisti e marziali, canti che sguainano la tradizione lirica giapponese. Pound aveva pubblicato da poco la sua vertiginosa traduzione di alcuni canti cinesi, Cathay (1915) e Certain Noble Plays of Japan (1916), interpretazione degli antichi canovacci del teatro Nō giapponese.

I testi, poco noti, vanno in scena al “Kensington studio theatre”, per pochi amici, cantati da Masirni Uchiyama, scritti per il giovane ballerino giapponese Michio Itō, che aveva studiato a Parigi, si era perfezionato in Germania, aveva fatto ingresso nel gruppo dei letterati inglesi capeggiato da Yeats. I testi valgono la traduzione:

Canzone per una vendetta fallita

Flebile cinguettio di fruste
al guado
nell’oscurità
all’alba ho visto il nemico
come una zanna
             (come zanna al muso di un cinghiale:
             puntano la foresta con le loro lance)
Dieci anni di odio
dieci per fomentare le spade
            e ora
fugge come stella cadente
con un sinuoso serpente nel buio.

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Il sopravvissuto

La forza è svanita
troppo dura la lotta
tutto è occluso.

Ho rotto le reti
soltanto io
faccio ritorno.

Fluttuo nella notte
tra i baratri di confine.

La spada è spezzata
il cavallo caduto.
L’eroe trascina il suo cadavere verso i monti nativi.

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Dopo la guerra, nel paese nemico

Pallida buccia di luna
maniche zuppe di rugiada.
Il vento crepa il viso. Ho freddo.
Imbocco il sentiero, che si srotola
come un serpente. Estraggo la spada:
ferisco l’ombra di un pino decrepito.

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Quando Kenzaburō Ōe ritira il Nobel per la letteratura, nel 1994, reagisce alle parole di Kawabata. Le giudica inappropriate, storicamente ambigue, false. Dice di sentirsi “più vicino nell’animo al poeta irlandese William Butler Yeats, insignito del Nobel settantuno anni fa alla mia stessa età, piuttosto che al mio compatriota salito su questo podio ventisei anni orsono”. Kenzaburō Ōe non cita, nel suo discorso, alcun poeta giapponese: per lui le geishe, come il chiaro di luna, i fiori di ciliegio, l’epica dei paraventi, appartengono al mobilio di un passato spacciato senza vergogna nell’oggi con intenti turistici. Cresciuto, durante la Seconda guerra, “nei boschi dello Shikoku, un’isola dell’arcipelago giapponese lontanissima da quegli eventi”, dormiva sugli alberi leggendo Mark Twain e Selma Lagerlöf.

Kenzaburō Ōe, come Kawabata, tuttavia, cerca di farsi carico “delle sofferenze accumulate nel XX secolo a causa di una mostruosa espansione della tecnologia”. Kawabata ha un approccio aristocratico, tanto che Il paese delle nevi può essere letto come un testo ascetico; Kenzaburō Ōe preferisce un modo, per così dire, “umanistico”; basta sfogliare Gli anni della nostalgia, il suo libro più bello, per capire che la nostalgia ha un tratto, un colore del tutto diverso da quello assegnatole da Kawabata.

Fosco Maraini scatta questa fotografia nel 1985, a Tokyo

Quando Kenzaburō Ōe parla del figlio disabile, Hikari, che conosce i richiami degli uccelli ma ignora le parole dell’uomo, che sa suonare Bach e Mozart, ammira in lui “la naturale innocenza del compositore… la voce di un’anima oscura e in lacrime”. L’immagine, bellissima, dolente, non è diversa dal vuoto evocato da Kawabata. In quella innocenza lo smarrimento è totale, senza redenti né dannati – schianta.

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In una fotografia del 1985, scattata a Tokyo, Fosco Maraini blocca una geisha che sorseggia un bicchiere di Coke. Il volto per sempre latteo, il kimono candido, la pettinatura articolata in un labirinto di nubi. Didascalia: “La geisha pienamente aggiornata”. Eppure, gli occhi… fermentano ferini… quegli occhi… fissano un altrove di agghiacciante splendore.

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