30 Aprile 2019

“Viviamo un nuovo totalitarismo, viviamo da morti viventi, ma Dante ci può salvare”: dialogo con Gianni Vacchelli

Un dettaglio mi sembra decisivo. Lo estraggo dall’ultimo saggio di questo ciclo, La poesia profetica e critica di Dante. Quella parola è importante. Profetica. Il grande poeta è sempre profeta, cioè uno che pone una parola che gli è avanti (pro), che lo supera, che è destinata ai futuri – non ho detto: che divina il futuro; e non ho neanche detto che viene dalla divinità. I grandi libri, intendo – e intendo quelli di cui tutti dobbiamo fare esperienza, dalla Bibbia a Esilio di Saint-John Perse, dalle poesie di Leopardi alle tragedie di Eschilo ai romanzi di Dostoevskij a L’età dell’ansia di Wystan H. Auden – hanno sempre un calibro profetico, sono l’avanzo di ciò che altrimenti muta, il resto di ciò che si disintegra. Posseggono, perciò, una attualità infuocata, perché sono atto in moto e immutato. Allora, mi viene da dire, Vacchelli, già autore di studi pieni di splendore (ricordo sempre Dagli abissi oscuri alla mirabile visione, 2008), scrittore, soprattutto, che in Dante e la selva oscura (Lemma Press, 2018) usa la Commedia come zattera e come spada, legge nell’unico modo possibile, senza le alchimie dell’accademico – pur con stuolo di bibliografia e accuratezza di note –, gettando le terzine di Dante nella rogna, nella Caina della Storia, nelle fauci dell’oggi. Leggendo l’interpretazione audace – ma così precisa – di Vacchelli scopriamo che gli ignavi siamo noi, perché “la totalità psicopolitica ci aliena da noi stessi, dal mondo, dal mistero… ci fa ‘morti viventi’, spettatori passivi e dipendenti del cyber-capitale”, e che gli assoluti assoli di Dante ci difendono dall’assalto capitalista che ci vuole divoratori di merci e a nostra volta divorati, in una specie di terribile cannibalismo digitale e sostanziale. Brandire Dante contro le storture dell’era, adottarlo come percorso di resurrezione, di risalita, mi pare magnifico. Perciò, ho contattato Vacchelli. (d.b.)

Mi pare che lei usi Dante per entrare nella rogna del tempo presente, scassandolo, scassinandolo. Ma non certo con un tono da manuale dantesco per vivere felici, ecco. Mi dica dunque, dell’oggi, cosa ci dice Dante. 

Sembra paradossale, ma Dante ci dice molto sull’oggi. Dante “vede” molto e in profondità. Vede la nostra indifferenza, la nostra ignavia: mentre il pianeta va in pezzi, predato, mentre le disuguaglianze crescono sempre più a vantaggio di pochissimi e a danno dei più, noi invece “dormiamo”, spettatori assuefatti e rassegnati. Siamo i nuovi ignavi, «questi sciaurati, che mai non fur vivi» (If III,64). Dante “mette all’inferno”, cioè giudica con criteri etici, umani, spirituali il “regno della lupa”, fin dal I canto dell’Inferno. La lupa è la cupiditas, l’avidità, l’accumulo. Il capitale, potremmo dire anche. La follia di un mondo che ha mercificato e quantificato tutto, al laccio dell’idolo denaro e dell’algoritmo imperante. Ma Dante ci ricorda che questa è la “versione infernale” dell’uomo. L’uomo è anche trasformazione (Purgatorio) e compimento (Paradiso). L’uomo può risvegliarsi alle profondità di se stesso, del mondo e dell’altro – come fratello e sorella – e all’inquantificabile, che è il divino. Dante ci chiama al risveglio. Il «mi ritrovai» del v. 2 della Commedia è appunto anche un ritrovamento, e non solo psicologico, ma spirituale e mistico.

Lei ci conduce, fin dal titolo del libro, nella ‘selva oscura’. Che ha analogia con la ‘notte oscura’ dell’anima, da cui l’anima trae vigore, dopo il timore. Oscurità come luogo dove fare luce. Ci spieghi meglio. 

Faccio una premessa. La selva oscura è un’immagine infinita, archetipica, che viene da zone della realtà più profonde di quelle di una “semplice fantasia”. L’immaginazione di Dante è creatrice, ed è anche una facoltà spirituale. Abbiamo perso cognizione di queste realtà, che sono ben vive e reali (!) invece per gli antichi, per i medievali, per i mistici d’Occidente e d’Oriente. Ma anche Vico e Leopardi, pur se in modi anche molto diversi, comprendevano bene tutto ciò. Allora la selva oscura da una parte dice negatività, male, peccato, angoscia, disorientamento, ma dall’altra è, come lei diceva, una «notte oscura», che fa rima con «ventura», per dirla con Giovanni della Croce, l’auctoritas in materia. Anche Dante è molto esplicito in merito, se lo leggiamo solo con attenzione. La selva «tant’è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte (If I,7-9). Chiarissimo quindi: la selva è terribile, mortale, ma è anche altra dimensione, nube oscura, crescita e ulteriorità divino-umana. Il testo più importante per Dante, la Bibbia, conosce bene questa misteriosa realtà. Citiamo, tra i molti luoghi possibili, Deuteronomio 5,22: «Sul monte il Signore disse, con voce possente, queste parole a tutta la vostra assemblea, in mezzo al fuoco, alla nube e all’oscurità». Mi verrebbe quasi da dire: non intratur in veritatem, nisi per obscuritatem. Nel nostro mondo di effetti speciali, di continui abbagli, di veglie troppo luminose, di “realtà aumentate”, abbiamo dimenticato la potenza benefica, anche se ardua, delle notti oscure dell’anima, della mente, del corpo, del silenzio.

“Mai Dante avrebbe potuto pensare ad Auschwitz, ma noi, rileggendolo da Auschwitz, qualcosa possiamo intravedervi”. Una frase potente, come se la Commedia vada letta anche per il suo carattere profetico. È così? Cosa intende con quella frase? 

Intendo che quando un uomo entra nella profondità di se stesso e soprattutto della realtà tutta, come Dante fece senz’altro, gli si schiudono, anche per grazia, possibilità infinite. Dante è un «uomo rappresentativo», per dirla con Emerson, che ci ricorda quello che possiamo e dobbiamo essere. Lo sguardo profetico non è una preveggenza, ma una dimensione, ancora una volta, di straordinaria intensità. Dante non è un indovino – quelli stanno all’Inferno – non è un “Nostradamus”, ma conosce gli abissi del cuore umano. Ecco allora che il cannibalismo di Ugolino, gli uomini congelati e “resi pezzi” nella morsa ghiacciata del Cocito, la furia fredda e accesa dell’odio e di una ragione fraudolenta e perversa generano le immagini finali, “luciferine” degli ultimi canti della Commedia. Non è ancora Auschwitz, ma noi, che rileggiamo Dante dopo Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, non possiamo non rabbrividire e non tremare di fronte a quei versi. Il tempo “si cortocircuita”. Dante “cresce con chi lo legge”, per parafrasare Gregorio Magno che diceva Scriptura crescit cum legentibus. Cresce Dante e soprattutto cresciamo noi, in visione, in consapevolezza. E in amore, se comprendiamo bene che questo è l’inferno e che l’uomo non è solo e tanto l’inferno.

Torno alla selva. La selva, scrive, oggi, “è quella di un nichilismo economicistico e crematistico, onnipervasivo, bio/psicopolitico, necrofilo. Ancora più radicalmente potremmo dire che ci troviamo a vivere un nuovo totalitarismo, il terzo del XX secolo e l’unico sopravvissuto nel XXI”. Altra frase perturbante. Che cosa intende?

Torniamo alla versione “mortifera” della selva. Solo che quella di Dante era una selva 1.0; la nostra è 2.0. La questione è complessa. Nel libro argomento meglio. Qui posso solo accennare. Il contesto odierno è una “totalità” che ci imprigiona e ci mostra solo se stessa, in un delirio di mercificazione spettacolarizzata, dove sette cerchi “infernali” concentrici e interconnessi – finanz-crazia, tecnocrazia, burocrazia, massmedio-crazia, geopolitica (o realgeopolitik), potere militare e potere nichilistico (inteso soprattutto come rassegnazione-amnesia, perdita di senso e di un “oltre”, comunque esso sia inteso) –, spadroneggiano, impossessandosi di noi e della vita. La totalità è più che mai totalitaria. Ma in modo nuovo e inedito. Procede per saturazione, per colonizzazione bio-psicopolitica, ci tiene servi in primis grazie alla nostra complicità. La nostra anima, i nostri neuroni sono conquistati e sfiniti o in una indotta rassegnazione depressiva, o in attivismo alienante: in qualunque caso, depressi o iperattivi/ipereccitati, si è come anestetizzati. Nella sua versione più subdola e di contagio animico e interiore, il sistema oggi si impadronisce in modo falso e invertito delle parole della vita: realizzati, sii te stesso, sii libero, sii democratico. Invero si fa solo più fitta la prigionia che invita all’autosfruttamento e alla capitalizzazione-quantificazione della vita, come se vivere la vita fosse l’oscena calculation of life proposta. Dimentichiamo in modo insano che l’ossessione quantificante ed efficientista ha fatto parlare più interpreti di «ritorno di Auschwitz» (Danilo Dolci, Franz Hinkelammert) e di «effetto Treblinka» (James Hillman). Ecco insomma il terzo totalitarismo – dopo quello nazista e stalinista – da smascherare e sconfiggere, dentro e fuori di noi. Potrei dire, semplificando, totalitarismo capitalista, neoliberista, ma, forse meglio, nichilista.

Infine, un Dante ci può salvare? 

Magnifica suggestione, la sua! Sì, “un Dante ci può salvare”, perché il Poeta ci ricorda la dignità e la possibilità infinite dell’uomo. Il suo viaggio sprofonda negli abissi, per risalire sul monte della trasformazione ed arrivare ad un incontro con se stesso, con il cosmo, con gli altri uomini e con il mistero divino. L’uomo per Dante è anche capax Dei, «capace di Dio», vaso del divino. In questo senso il Poeta sembra continuamente dirci: non vedi com’è misera e sottodimensionata la tua versione infernale? Perché non ti risvegli alla tua reale natura? Perché non scendi in profondità e in trascendimento dentro di te, dentro la materia, la natura e in quel mistero indicibile che sta in nessun luogo e ovunque?

*In copertina: William Bouguereau, “Dante e Virgilio nell’Inferno”, 1850

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