La percezione, in Sicilia, è che menzogna e incanto abbiano la stessa radice, si abbeverino alla stessa fonte. Così, se dialoghi con qualcuno, sei cullato dall’ipotesi che dica una cosa pensandone un’altra e progettandone una terza o una quarta ancora più remote. Tutto, anche il modo in cui la luce si frastaglia sulle muraglie, allora, in Sicilia, ha nitore ambiguo e d’enigma. Questo, naturalmente, porta con sé una dote enorme, dinamitarda, in ambito letterario. Gianni Bonina è un profondo esegeta del mistero siciliano: nato a Catania, giornalista, ha pubblicato tanto (I cancelli di avorio e di corno e I sette giorni di Allah per Sellerio, ad esempio), ha sviscerato l’opera di Camilleri (Tutto Camilleri, Sellerio, 2012), ha raccontato, va da sé, la mafia, in diversi libri che fondono gesto di cronaca a sapere narrativo (Il fiele e le furie, 2009; quest’anno, per Theoria, Fatti di mafia). Forse, però, Ammatula (Castelvecchi, 2019), fin da quel titolo, terribile e seducente, nenia e requiem, è il libro più ambizioso di Bonina. La saga familiare, filata con sapienza narrativa artigiana – nessuno spazio a vaghezze sperimentali, ma amore nudo per il fatto, per la ‘storia’ – lega il capomafia agrigentino Gaspare Scaturro all’avvocato Carmine Andaloro, dai primi anni Settanta ai tempi nostri. La vertigine del romanzo è alta, soprattutto quando si parla di amore, l’amore dentro l’orrore. Ancora una volta, incanto e menzogna, l’impegno e l’inutile, il tutto e il nulla. (d.b.)
“Ammatula”. Parola terrificante. L’apocalisse dell’inutile. Davvero è questa arcaica cristallizzazione nel ‘si potrebbe ma non si può’ il carattere della Sicilia, ancora? Insomma, aveva ragione Tomasi di Lampedusa (a proposito: cosa pensi di lui?). Dimmi.
Nella parlata siciliana non esiste alcun verbo coniugabile al futuro. Sciascia riferiva di un viaggiatore che chiede di un pullman se va a Palermo e gli viene risposto “Almeno”, per dire “così si dice, poi chi lo sa”. È vano in Sicilia il tentativo di dare per certo ciò di cui si è in attesa in una terra che conta il maggior numero di maghi e fattucchiere che predicono il domani. Tomasi di Lampedusa amò guardare al passato anziché al futuro, ma fu un’operazione vana. Ammatula scrisse Il Gattopardo nell’intento di celebrare la sua casa e se stesso. Capostipite della famiglia rimaneva comunque Mario Tomasi, un cacciatore di teste, un delinquente vero.
Prima parentesi. Hai scritto un “Tutto Camilleri”. Evidentemente pensi di lui il meglio possibile, giusto? Consegnami un aneddoto sui tuoi rapporti con Camilleri. E dimmi se ti senti parte di una qualche ‘linea siciliana’, e da che lato letterario? Insomma, che padri & padrini hai, a che ‘cupola’ romanzesca appartieni?
Sciascia si dichiarava mafioso perché parteggiava per i siciliani e solo di essi si occupava. Io, altrettanto, credo di non avere scritto che della Sicilia e, a ben pensarci, non mi sovvengono scrittori che non siano stati in questo senso “mafiosi”: forse perché siamo tutti convinti che si possa strappare un siciliano dalla Sicilia ma che sia impossibile strappare la Sicilia da un siciliano. Anche in Pirandello e Camilleri, entrambi agrigentini, autori di romanzi borghesi ambientati al di là del Faro, la Sicilia è quella che per Guttuso era una mela, anche nella quale egli vedeva la sua isola. Per loro era dappertutto. Giunto al Cairo e rispondendo alla moglie che al telefono gli chiedeva come stesse Camilleri disse che si sentiva a casa. Passeggiando nella via principale di Porto Empedocle, una volta chiesi a Camilleri cosa fosse per lui la Sicilia e mi rispose così: “Non lo so cos’è, so quand’è”. “E quand’è?”, gli chiesi. “Ora”, mi disse guardandosi attorno. Sciascia mi avrebbe invece detto com’è, perché la differenza è che Camilleri ha raccontato la Sicilia mentre Sciascia l’ha spiegata. Ma fanno parte della stessa linea realista fondata da Verga, parallela e diversa da quella decadentista stabilita dall’altro dioscuro della letteratura italiana che è Pirandello. Verga si guardava attorno, Pirandello si guardava dentro. Io mi riconosco nella linea verghiana, forse perché giornalista, ma amo Bufalino, che era dell’altro coté, molto più di quanto apprezzi Camilleri e Sciascia. In realtà non ho una linea, ma una curva.
Mi verrebbe da dire: scrivi ancora di mafia? Dunque è inevitabile scrivere di mafia, per chi sta dove stai tu. Intendo: mi pare che al di là degli Scaturro e i suoi, anche l’amore (familiare, extraconiugale), in Ammatula, sia retto da dinamiche ‘mafiose’. Si è come invischiati nell’inevitabile… Dimmi, sconfessami.
Mi viene da chiederti perché non dovrei scrivere di mafia se sto dove sto. Lo so, scrivere di mafia può apparire rutilante, come sentire i genitori di Regeni parlare sempre del figlio ucciso. Unamuno diceva che l’uomo è la propria circostanza. Nella mia c’è la mafia, una mafia che spara e che ama. L’aspetto nuovo in “Ammatula” è forse proprio questo che tu cogli bene: la concezione dell’amore in un ambito dominato dall’odio. Ci sono anche mafiosi che nutrono sentimenti, che si innamorano, che scoprono lo spirituale, pur rimanendo delle belve “senza cuore”. Questa contraddizione distingue il carattere dei siciliani. Nel romanzo c’è un personaggio che dice che i siciliani hanno gli animi troppo accesi sia in un verso che nell’altro. Non hanno il tasto benessere.
Cosa significa ‘potere’? Il libro gronda di desiderio di potere, di rassegnazione al potere, di potere famelico, banale, letale.
Il potere-sostantivo sottende in Sicilia il potere-verbo. Il potere si esercita usandolo ed è una forma di autorità imposta, mentre l’autorità è una forma di potere accettato. Se io posso, materialmente e non legalmente, compiere un’azione vuol dire che ho l’autorità per farlo e se ho l’autorità per farlo ho la l’autorizzazione generale, la condivisione. La mafia rappresentata nel romanzo è ricerca e richiesta di potere fare: è ricerca il desiderio di Scaturro di essere seppellito in un Comune diverso dal suo, ricerca del potere, inteso come “poter commettere” una illegalità; è richiesta il tentativo di un altro mafioso di lasciare la “famiglia”, richiesta di “poter compiere” una trasgressione.
Ammatula è un romanzo ‘canonico’. Insomma, scegli di raccontare, di erigere personaggi, di costruire una storia che si snoda lungo la dorsale di diversi decenni. Credi dunque a questo tipo di letteratura, credi che ci sia ancora qualcosa da raccontare: è così?
“Ammatula” è una saga familiare e sociale. Come tale è una storia, una lunga storia ricca di personaggi che cambiano vita e aspetto. Io sono del parere che la letteratura sia nata con l’uomo, ognuno dei quali è un romanzo, ovvero una storia narrabile che valga la pena ascoltare. Nel momento in cui l’uomo primitivo formula in mente il suo primo ricordo o si crea la sua prima scena di immaginazione, è in quel momento che nasce la letteratura. E secondo me l’uomo raccoglitore-cacciatore ha prima immaginato e poi pensato: per dire che la filosofia è venuta dopo la letteratura. Pensare richiede una ragione che postuli un progetto, quindi un certo grado di civiltà, mentre immaginare vuol dire fantasticare, concepire un desiderio, per il quale basta avere sentimenti.
Qual è il libro che ha formato la tua giovinezza; qual è il libro che avresti voluto scrivere; qual è il libro che stai scrivendo.
La mia giovinezza deve molto a un romanzo venuto dopo i libri canonici di avventura che segnano la giovinezza di tutti: “La buona terra” di Pearl Buck: ambientato in Cina, l’ho sentito estremamente siciliano e quindi vicino. Mi insegnò che l’uomo è dappertutto uguale e che dolori e gioie, lavoro e morte, sono beni e mali comuni. Avrei voluto scrivere “Cent’anni di solitudine”, la letteratura che diventa genio e nei ritagli di tempo “La montagna incantata”, la malattia come viatico alla vita. Il libro che sto scrivendo? Un’altra saga siciliana, stavolta fondata su fatti in parte realmente accaduti e anch’essa molto siciliana nell’intento di definire il carattere dei siciliani sospeso tra inganno e verità, fatto e versione, segreto e pubblico. Un romanzo sulla doppia coscienza, sia individuale che collettiva.