16 Febbraio 2024

“Mi batterò il petto a sangue… è un giuramento”. Gian Ruggero Manzoni e la lotta contro Isaia

Da tempo, Gian Ruggero Manzoni va componendo un suo testo sacro, costruito per enfiagione – per lebbra – nel sancta sanctorum delle Scritture. Ha cominciato con l’Esodo, era il 2010 (stampò Raffaelli), ci ha dato – dono d’ospitalità, che chiede responso in obbedienza – la sua Genesi (De Piante, 2022) e ora Isaia (sempre per De Piante), il quintessenziale tra i profeti, il portale che apre al Nuovo Testamento, levatrice di Cristo-Emmanuele. Gesù “esaudisce” Isaia sovrastandolo (così in Matteo, 8, 17) perché “ha portato i nostri affanni,/ si è addossato i nostri dolori”. Qui cito dalla versione di Luigi Moraldi, dai Libri dei profeti (Bur, 2004), testo utile per capire l’originalità del profetismo biblico (lo spiega Gianfranco Ravasi, in un vasto saggio introduttivo, I profeti, appunto). La versione di Manzoni – che smuove gli scalini-versetti, scollina, spiana, fa deserto, opera di uno che lotta col rettile – suona così:

“Disprezzato e abbandonato dagli uomini, essenza di quel dolore sempre familiare col patire, eguale a colui davanti a cui, per ribrezzo, ci si scherma il viso con le mani, egli era un insulto per la natura, e noi non avemmo di lui alcuna stima o pietà. Nondimeno, non erano che le nostre malattie che egli portava seco, erano le nostre sofferenze quelle di cui si era fatto carico; e noi lo reputavamo un’offesa, poi castigato in tal modo da Dio stesso, nonché umiliato!”.

Il capitolo tradotto da Isaia è il 53, a cui Manzoni appone un titolo, “Si era erranti come pecore”. Ogni capitolo di questo libro tonante ha un titolo-monito, spesso di lugubre splendore, a odor di sangue: “L’Onnipotente a me ora sussurra” (capitolo 19), “Ungete lo scudo!” (capitolo 21), “E la luce retrocedette di dieci gradi” (capitolo 38), “Comunque egli entra nella perduta pace” (capitolo 57). Qualunque tentativo di ‘comparazione’ – con la versione di Guido Ceronetti, ad esempio, o quella dello stesso Moraldi – è per lo più inutile. Forse, v’è qualcosa, per umbratile ritmo, della Bibbia secentesca del Diodati, quasi caravaggesca (“Veramente egli ha portati i nostri languori, e si è caricato delle nostre doglie; ma noi abbiamo stimato ch’egli fosse percosso, battuto da Dio, ed abbattuto”). Manzoni conferisce al dettato di Isaia un ritmo da romanzo, il Tetragramma batte il tamburo e tiene serrate le scolte: la visionarietà di William Blake – eretico allievo di Isaia – si mesce alle atmosfere di Lovecraft, alle immagini cifrate di Andrej Tarkovskij e di Sergej Paradžanov. Isaia, cioè, va letto, fieramente, si può leggere; realizza, qui, la “straordinaria verifica poetica” anelata da Ravasi. Eppure, non bisogna correre il rischio di percorrere il profeta come fosse un Thomas Hardy o un Charles Dickens, lettura letteraria, ordinaria, a indottrinare il cor. Isaia è rotolo che non narra ma reclude, che impegna alla torsione, finanche alla tonsura per liberarsi dai bassi sibili del mondo. È un libro che chiama a raccolta, pretende la lotta, persegue la disfatta. “I nuovi cieli e la nuova Terra che andrò a creare resteranno stabili per l’eternità”, annuncia il profeta alla fine del libro, che si conclude per slabbratura, con lo sterminio “di coloro che si sono ribellati al mio volere”; termina con il ribollio dei “vermi”. Sulla parola “tradimento” (“abominio” per Moraldi) s’infrange il più sacro dei profetici libri, rimandandoci la palla: e ora, che fai?

Per leggerlo, bisogna avere occhi e bocca pura, compiere alto impegno di espiazione, quello in cui si immerge il profeta:

“Al che uno dei Serafini giunse a me. Egli teneva un tizzone ardente che, con le molle, aveva preso da sopra l’altare. Con quello mi toccò la bocca e così mormorò: “Ecco, ora che questo fuoco ha baciato le tue labbra, ogni tua colpa è svanita, e tutti i tuoi peccati sono stati espiati”.

Al termine del dialogo, Manzoni mi invita al “rito della Ashura, reputando che non poco tu ti debba coinvolgere in detta processione visto gli infiniti peccati che quotidianamente commetti”. Per capire cosa intenda, andate in processione alla penultima domanda.

Il canone biblico secondo Manzoni, dunque, non è atto di presunzione, bensì di contrizione. Il poeta – consanguineità di stile lega questo Isaia ai libri di Manzoni: Le battane di bronzo, Deserti di quiete, Il Morbo, Ultramodum, faccio per dire – si reintroduce nelle fauci del Padre, indossa la stola del penitente e il bastone del pellegrino, ha fatto delle labbra un muro: un tozzo di pane nella bisaccia, il Libro in seno e il moto orante degli scalzi.  

Entro di petto nel testo. Dici che Isaia avanza, per ustione, la parola che traduci come Nulla. Che cos’è questo Nulla, come dobbiamo intenderlo, cosa smuove nel dire del profeta?

In filosofia come in teologia, ma in ogni scibile, il problema più grosso è sempre stato quello di dimostrare che un qualcosa o un qualcuno sia esistito o esista, quindi “sia” oppure, tragicamente, “non sia”, e dicendo ciò mi rifaccio alla Scuola Eleatica di Parmenide e Zenone, quindi, via via, a Platone e ad Aristotele, ai neoplatonici, a Plotino, quindi a Sant’Agostino, a Jacob Böhme, il quale giunse a dire Nihil (est) Aeternum (Nulla – è – Eterno), a Cartesio, a Spinoza, a John Locke, a Friedrich Hegel, a Kierkegaard, fino a Bergson, a Heidegger, a Sartre e a Emanuele Severino, quindi ai moderni sommi nichilisti. Il primo sforzo di Isaia è quindi stato quello di far sì che i tanti ebrei che si erano distaccati da Dio, inseguendo appunto il Nulla (al di fuori di Lui), tornassero in Lui… Lui che risulta summa al di là del Tutto e del Nulla, essendo, in Egli, entrambi presenti tali opposti. Altrimenti i profeti e lo stesso Gesù cosa ci sarebbero stati a fare? Ovvio che il Nulla che Isaia è andato a contrastare è anche il mio o il nostro Nulla, cioè quello che vive al di fuori e al di dentro di me e di noi in totale. Mi ha sempre affascinato la cosiddetta “teologia negativa” partorita da Filone di Alessandria il quale si interrogò sulle asserzioni di Eraclito di Efeso, poi tratte anche da Plotino, da Proclo, da Dionigi pseudo-Areopagita, da Giovanni Scoto Eriùgena, da Bonaventura da Bagnoregio, da Meister Eckhart, da Niccolò Cusano, da Johann Gottlieb Fichte, da Schelling, da Rudolf Otto, da Karl Barth, fino a giungere all’ultimo vero Papa, cioè a Joseph Aloisius Ratzinger… Benedetto XVI.

Il monito di Gian Ruggero Manzoni

Dici della quintessenziale “attualità” – cioè: inattualità all’oggi – di Isaia. Cosa intendi?

Intendo che ciò che Isaia ha accusato poi detto, riguardo l’uomo, trascende, in piena peculiarità essenziale, ogni configurazione temporale, ponendosi in una realtà al di fuori di ogni categoria, come poi Dio non ha categoria-categorie. Essendo l’uomo di sempre estremamente ignorante, e mai come oggi, seppure il molto che abbiamo a disposizione, ecco che sebbene componente fondamentale del logos, il dire di Isaia ancora non è compreso o, peggio ancora, si finge di non comprenderlo. Non sono Isaia e soprattutto il Cristo inattuali, bensì è costantemente inattuale l’essere umano, e il punto di vista muta, e non poco, anche per quel che concerne lo studio delle Sacre Scritture… soprattutto delle stesse.

Dici di un libro che “attanaglia”: cosa intendi dire? E soprattutto: con che armi linguistiche tradurre il libro-ponte, pontefice, portuale tra Primo e Nuovo Testamento?

Attanaglia perché risulta sia nel tradurlo come nel fruirlo oltremodo difficile da penetrarlo; in particolare risulta difficile, in certi momenti, capire se sia Isaia che parla con frasi sue, se la sua voce sia altoparlante del logos divino, uscente inalterato, non filtrato, oppure se riporta cose che un altro o altri hanno detto riguardo l’essere umano o Dio. Attanaglia, perciò, perché richiede massima attenzione nel fruirlo, come, personalmente, ho molto faticato nel gestirlo. Isaia e coloro che lo hanno seguito, scrivendo usando il suo nome, scivolano fra le mani come anguille, ed io che sono pescatore so bene il come si agitino e si difendano le anguille una volta allamate. Isaia ti batte, ti percuote, quindi la sola possibilità per venirne a capo è iniziare a batterlo a tua volta. Se ti pieghi e accetti la sua ramanzina, a momenti di una violenza inaudita, ti cuoci il cervello in pochissimo tempo. Quindi a ogni sua testata devi rispondere come fanno i sardi, con un’altra testata, possibilmente più forte.

Denuncia il versetto, il paragrafo, il brandello di Isaia – verbo-carne – che ti ha squassato più di altri – e perché?

Innegabilmente quando Isaia tira in ballo Emanuele, che noi cristiani intendiamo come Gesù, e anche gli islamici, al pari nostro, ma non, ovviamente, gli ebrei i quali lo considerano, concettualmente… ebbè, il loro essere in Dio è prettamente mentale… come il fatidico loro messia “che ancora ha da venire” oppure, e ciò è interessante, come uno stato totale dell’essere che ci proietterà totalmente nella luce, non a caso ‛Immānū’ēl, per loro, risulta anche quale saluto bene augurante, cioè tipo: “Che Dio (nella Sua luminosità) sia con te”, oppure una sorta di motto lanciato quando uno di loro parla di imprese difficili da superare, come, ad esempio: “Fuggire da un campo di sterminio era impossibile”, così che gli altri dicono, anche assieme, assentendo: “‛Immānū’ēl !!!”, cioè “Solo Dio lo sa… solo Dio lo può sapere !!!”. Dilatato: “Accidenti, è vero quel che dici !!!”, o, meglio: “Cavoli, se non è vero quel che dici !!!”, quindi: “è più che vero”, “è verissimo”, “è luce di verità divina !!!”.

Come dobbiamo leggerlo oggi un libro come questo, in quale “poetica dell’esistere” dobbiamo porci per capirlo?

Come persistenti, assidui, immutabili, perseveranti, caparbi peccatori neganti, costantemente e orgogliosamente se non superbamente, i loro peccati.

Che ne è, oggi – anche tra i letterati, tra i più o meno grandi poeti e poetucoli – della ‘profezia’, del linguaggio ‘profetico’? E cos’è, infine, questa ‘profezia’?

Se ci si attiene a quel che dice Isaia coloro che scrivono non in Dio potrebbero chiudere il quaderno, depositare la penna, mettersi in ginocchio e domandare perdono all’infinito battendosi il petto fino a farlo sanguinare, come fanno gli sciiti nel giorno di Ashura che, nel loro calendario, indica il dieci… il decimo giorno del mese di Muharram, il loro primo mese dell’anno e il primo dei quattro mesi sacri. Tempo completamente dedicato al lutto, giorno in cui venne combattuta la battaglia di Kerbala, oggi Karbala, in Iraq, cioè il 10 ottobre del 680 d.C., dove trovarono la morte il nipote di Maometto, Al-Ḥusayn ibn ʿAlī ibn Abī Ṭālib, figlio di ʿAlī ibn ʾAbī Ṭālib, califfo e primo imam della religione sciita, nonché cugino e genero appunto di Maometto, perché aveva sposato Fatima, quarta e ultima figlia del profeta islamico. Sì, dovrebbero cessare di porsi quali sacrileghi se non satanici insozzatori del verbo e battersi il petto con un particolare strumento simile a una spazzola dove, al posto delle setole, sono posti piccoli chiodi appuntiti oppure aghi. Gli sciiti, pregando di continuo, sono giganteschi nel fare simile atto di penitenza per tutta la durata di una giornata. A loro va il più onorevole saluto e la mia ammirazione.

E ora… cosa ti resta da tradurre, cosa da scrivere, seminando quale entità di senso?

Penso che tradurrò dall’ebraico, passando dal greco antico e dal latino, il Vangelo secondo l’apostolo Matteo, che è quello più attendibile dal punto di vista storico inerente, appunto, la figura del Cristo, quindi, finito il tutto, finito di tradurlo, per un’intera giornata mi batterò il petto a sangue come fanno gli sciiti. E questa non è una promessa, è un giuramento.

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