“E l’orrore scivolò via”. Siegfried Sassoon: veterano, scrittore di genio e cacciatore di volpi
Letterature
Pierluigi Piscopo
Il poeta ha le mani riparate da manicotti rossi, chissà chi li ha cuciti. Le dita sono bianche, affilate, eleganti.
Il poeta ha il suo giaciglio in sala: la luce di Milano, oggi, è senza pelo, subdola, si può toccare, è come un boa. La sala è piena di quadri: alle spalle del poeta, come un memento, il suo ritratto, dalla mascella prominente. Come è ovvio, mi colpisce il disegno di una pantera – “dovrebbe essere un giaguaro”, mi corregge il poeta. Non è aggressiva: ha qualcosa di esotico, è una creatura immaginaria.
Quando sono passato, la mattina, mi hanno detto che il poeta ha passato la notte insonne, che stava dormendo. Ho visto il poeta che dorme. Quando dorme, un poeta, in verità, è in veglia.
A Piazzale Libia, dove abita, Giampiero Neri, il poeta, ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, Piazza Libia. Piazzale Libia è uno spazio conchiuso: un cerchio dentro un quadrato, con le palazzine intorno. Una città nella città, una figura dell’I Ching. Il protagonista di Piazza Libia è Giovanni, “un uomo sulla cinquantina, disoccupato in apparenza… che vive della benevolenza altrui”. Nella descrizione che ne fa il poeta, Giovanni gioca a sudoku, “è quasi leggendario per il talento, l’eloquenza e anche la saggezza”. Il poeta lo avvicina a Lao-Tse, l’enigmatico filosofo cinese.
“Giovanni è una buona persona, molto migliore di me”, mi dice il poeta. “Dice che nelle mie poesie l’ho ingigantito, ma non è così: la poesia non abbellisce, dice il vero, quel poco”.
Giampiero Neri ha creato dei ‘personaggi’ lirici indimenticabili, la sua poesia è una specie di ‘commedia umana’. Dopo Onegin, c’è il professor Fumagalli, lo prendo in giro. Il professor Fumagalli è una specie di ossessione nelle poesie di Neri, a cui il poeta ha dedicato almeno due libri: Il professor Fumagalli e altre figure (Mondadori, 2021) e Un insegnante di provincia (Ares, 2022). “Un amico del paradosso”, lo descrive, in un verso. “Non so quale fosse il problema profondo del professor Fumagalli… avrei ancora così tanto da scrivere su di lui…”.
Figure e non persone. Come mai? Giampiero Neri sa che la parola è un sortilegio, ed è meglio non competere con Dio, non trafficare in anime. Nell’immagine, forse, è il vero; nella forma il sigillo.
“Sto leggendo la Bibbia. Ho cominciato con Genesi, ho continuato con l’Esodo. Mi affascinano i libri dei Re. È incredibile come un piccolo popolo con una tale forza immaginativa sia stato perseguitato da tutti gli altri popoli. Forse si tratta di invidia”.
A volte il poeta guarda nel vuoto, una patina ingrigisce l’occhio, elitra d’angelo. Una lotta che si fa in silenzio.
In quel vuoto ci sono animali dai nomi ignoti, volti che ci sono preclusi.
Sembri un marinaio, lo sfotte Alessandro Rivali, che da tempo custodisce l’opera di Neri. Ridiamo. In effetti, ha il cappello di lana blu in testa, le manopole rosse, un maglione che ricorda i mozzi, ingaggiati su una baleniera a solcare i mari del Sud. Quando sorride, Neri è giovanissimo. Poco prima di andare da Neri, ho letto un brano di Rudolf Kassner, filosofo negletto in Italia, più volte candidato al Nobel per la letteratura per la tessitura formale dei suoi testi, amico di Rainer Maria Rilke, che si diceva suo discepolo. “L’uomo-fanciullo”, scrive Kassner, “è vecchio in gioventù e giovane durante la vecchiaia… L’immaginazione è la sua anima. Dove tutti gli altri sono attori: duri, grevi, opachi, non liberi, malvagi, là egli è leggero, luminoso e benevolo. In effetti, l’uomo-fanciullo è la controparte dell’attore, ed è quindi la salvezza dell’epoca”. Giampiero Neri è un uomo-fanciullo.
Il poeta vuole vedersi in fotografia. “Sono tutto naso!”, dice. Forse sente l’odore di Dio.
Sulla branda, Punto Omega, di Flannery O’Connor. “Dicono che i racconti di Flannery O’Connor siano duri, feroci. So che allevava pavoni. In tutto, lei vedeva il male, nient’altro che il male. È un talento, certo. Ma nella vita c’è anche il bene…”. Entrambi preferiamo Moby Dick, quel libro incommensurabile.
Aiutiamo il poeta ad alzarsi, attraverso una strategia di cuscini. Quando è seduto, poco più tardi, il poeta mangia con gusto una tazza di gelato al pistacchio. La sua scrittura è lievemente incerta, ma mantiene la purezza di chi non ama lasciare scorie o chiodi mal conficcati in una frase. Per certi versi, la scrittura ha un’attitudine geografica: ha bisogno di barometri, di bussole.
Giampiero Neri scrive a penna o a matita su grandi quaderni: la figlia ribatte al computer le poesie che gli sembrano risolte. “Voglio leggervi alcune poesie”. È la prima cosa che dice. Il poeta è nato nell’aprile del 1927, e il suo desiderio più intimo è scrivere – e leggerci una poesia. Due poesie le ha raccolte, in questi giorni, in una ‘copertina’ di M.me Webb, la plaquette s’intitola Adolescenza:
Non so come, eravamo diventati amici.
A sedici anni l’amicizia è qualcosa di serio.
Mi scriveva anche, ci eravamo dati dei soprannomi.
Il mio era Lampirius, per le mie conoscenze entomologiche.
In casa ne avevano approfittato per riderne fra loro.
Mio padre deformava il nome in dialetto: “Lampadari”.
*
Invece era qualcosa di cui avevo bisogno,
in quei tempi lugubri dell’8 settembre ’43.
Anche l’aria che si respirava era cambiata.
Andavo a trovare il mio amico, qualche mattina
di quell’interminabile settembre.
Ha appeso alla parete un disegno di Marcovinicio. Degli scarponi. Lo aiutano nella tratta, nella scarpinata senza trattative.
Nell’ultimo libro del poeta, il personaggio più forte è Augusto Tettamanti, “cresciuto solo con la madre, figlio di n.n., il padre non aveva voluto riconoscerlo”. Con lui, da adolescente, Neri progetta una ingenua fuga dal mondo. Fuggono verso Genova. “Confusamente volevamo andare al Sud”. Sembra un racconto di Stevenson, la crisalide di un Gauguin. Un verso mi sembra bellissimo:
“Decidemmo di abbandonare le nostre case e di cercare qualcosa insieme noi due”.
Fuggire dalla casa è già quel qualcosa che si cerca – evanescente per necessità. Soltanto da vecchi si può capire la necessità della fuga, della favolosa cerca: lo insegna anche Lev Tolstoj.
La luce trabocca dalla sala del poeta, come in un Graal. Puoi berne.
La biblioteca del poeta è scarna: il poeta getta via i libri che non gli servono, che ha già letto. Restano i saggi cinesi, in edizioni antiche – Lao-Tse, Chaung-tzu, Confucio –, le opere di Henry David Thoreau curate da Piero Sanavio per Neri Pozza nel 1958, arcani libri di scoperte geografiche, Stendhal. Il poeta mi regala le Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch, in una vecchia edizione Guanda. Mi sembra un libro appropriato: Giampiero Neri è un entomologo di destini semplici, sembra una figura kafkiana, un reduce dalle campagne di Alessandro Magno, uno che ha dato la biada a Bucefalo.
Io gli regalo una copia dei Salmi. Gli antichi maestri ebrei conoscono i nomi degli angeli preposti a valutare le preghiere, perché “la preghiera dell’uomo fende l’aria, penetra nei firmamenti, apre porte e sale in alto”, scrive lo Zohar. Si chiamano Gezardiyya, Pesagniyyah, Zevuli’el… ma chi può pronunciare i nomi degli angeli senza che gli si dissecchi la bocca?
L’ultimo libro del poeta si intitola Utopie, lo vorrebbe vedere entro marzo. Gli prometto che festeggeremo, “vanno bene le parole, ma bisogna pur vedersi”, mi dice, con il sorriso di chi è reduce da enormi imprese sull’oceano. Mi chino, gli stringo una spalla: i poeti vanno visti dal basso.
*In copertina: Giampiero Neri in un ritratto fotografico di Dino Ignani