01 Aprile 2019

“Chi di noi alla domanda se avesse preferito vivere nella Pietroburgo di Stalin o nella Roma di Mussolini, sceglierebbe la prima?”. Dialogo con Giampiero Mughini intorno a Interlandi, il giornalista imperdonabile

Forse non è un caso che l’autobiografia di Giampiero Mughini, “uno che non si è negato ad alcuna contraddizione”, mi dice, Memorie di un rinnegato, esca quasi in concomitanza – sarà sulla scena tra un paio di settimane – a uno scatto di mesi dalla riedizione del libro più libro, dal libro più bello – per nitore formale – e più sudato e più sfortunato e più vilipeso. Era il 1990, Mughini s’era sentito di raccogliere una eredità, per così dire, sentimentale se non intellettuale, da Leonardo Sciascia, morto nel novembre di quarant’anni fa, che su quel tema e su quel tipo avrebbe voluto scrivere. Soprattutto, voleva, finalmente, il libro. “Sarebbe stato il primo libro vestito e calzato della mia vita, e difatti ci avrei lavorato furiosamente per un anno e mezzo, a un tempo in cui mi svegliavo straripante di energia alla mattina mai dopo le sei e venti”, ricorda lui, ora, in una introduzione tonante, Storia di un libro un poco piacione. Come fanno i veri scrittori – e dovrebbero fare i veri giornalisti – Mughini aveva scelto il personaggio ‘scomodo’, anzi, addirittura imperdonabile, geniale e bastardo, ambizioso e vigliacco, d’intelligenza volitiva e bugiarda, con cui sollevare le sottane della Storia patria, mostrandone le vergogne luride, puzzose. Il libro s’intitolava A via della Mercede c’era un razzista (ora Marsilio, allora Rizzoli), aveva l’ardire di raccontare, con ardimento narrativo, “Lo strano caso di Telesio Interlandi”, nome che al solo pronunciarlo – non fosse che pare quello di un furibondo cabarettista – ti si rovinano i padiglioni. Era proprio lui, in effetti, il mefistofelico direttore dello schifoso La difesa della razza. Ma era anche lui, proprio lui, il giornalista di razza, guida de Il Tevere e di Quadrivio, che chiacchierava con Pirandello, aveva insegnato il mestiere a Vitaliano Brancati, veniva elogiato con parole di velluto da Guido Piovene, faceva mettere in scena i suoi lavori da Anton Giulio Bragaglia, aveva tradotto con impeto le poesie ‘comuniste’ di Aleksandr Blok, era additato da Longanesi come il giornalista più capace del suo tempo. Attraverso la storia truce di Interlandi, insomma, vien fuori che il fascismo fu fucina di cultura vera, solida, e che gli esseri umani, specie con la testa, sono più sfaccettati di ciò che si crede. “Prendeteli a uno a uno i destini di quegli scrittori e di quei giornalisti e vedrete quanto sia zigzagante la linea delle loro convinzioni e appartenenze”, scrive Mughini, e che, insomma, “non c’era alcun vallo profondo che spaccasse in due l’Italia abitata dai fascisti e quella abitata dagli antifascisti”, la storia delle virtù antimussoliniane a oltranza è un po’ una fola, tranne rari casi. Bastò questo, però, raccontare un uomo scomodo e il suo tempo, con quel tanto di tridimensionalità – d’altro canto, come e dove li sistemiamo Massimo Bontempelli e Giuseppe Ungaretti, Prezzolini e Bilenchi, Curzio Malaparte e Longanesi e Panzini e Soffici e Marinetti, allora? – per gridare all’eresia. Certe cose non andavano scritte, certi uomini era bene lasciarli a frollare nell’oblio. Così, nei Novanta, si squalificò il libro di Mughini. Sembra passato un secolo. Nel frattempo l’epoca fascista è studiata, sviscerata, messa in mostra, culturalmente riabilitata, è oggetto di romanzi malriusciti e di un livido ‘successo’ editoriale. Meglio rientrare nell’‘Interlandi’ di Mughini e capire chi eravamo. E chi siamo, ancora, forse, fatta razzia del residuo intelletto. (d.b.)

Pongo subito due fatti. Uno formale. L’altro affettivo. Quello formale. ‘L’Interlandi’, chiamiamolo così, è un libro felice, viziosamente narrativo, in cui (lo dico con tutto il cinismo letterario possibile) scegli un personaggio ‘scomodo’, anzi, sepolto nell’oblio (all’epoca), castrato dalla Storia, per farne un breve eroe romanzesco, con valzer di sontuose e sinuose comparse. È il libro che ti è più caro? Secondo. Il libro nasce intorno a un rapporto di rispetto al cubo e di amicizia con Leonardo Sciascia.

Quello che ho dedicato a Telesio Interlandi la bellezza di trent’anni fa, è un libro che per me sa di amaro. Prima che la Marsilio mi chiedesse di ripubblicarlo non lo avevo mai più letto né sbirciato. Nato dal mio amore intellettuale e dalla mia amicizia per Leonardo Sciascia, era il primo libro cui avevo lavorato come si deve con un libro: mesi e mesi di ricerca, montagne di libri letti a documentarmi, i capoversi limati a uno a uno incessantemente, la marcia della narrazione tenuta sempre in quarta in modo che il lettore non si allontani. Era un libro in cui l’editor della Rizzoli del tempo, Edmondo Aroldi, credeva molto. Accadde invece che a pochi giorni dell’uscita il libro venisse maltrattato nel giornale di cui ero una firma di punta, Panorama. Un imbecille della terza fila del giornale mi rimproverava di avere attenuato il giudizio negativo sull’Interlandi direttore de “La difesa della razza”. Se è per questo un ulteriore recensore, Sandro Gerbi, mi accuserà di avere voluto “rivalutare” l’Interlandi razzista e fascistissimo. Sul Corriere della Sera lo storico Paolo Alatri scrisse del libro limitandosi a mettere in fila i personaggi da me citati, alcune centinaia. E questo perché non poteva e non voleva “attaccare” un libro pubblicato dalla Rizzoli, la casa editrice del Corriere. Non uno, ho detto non uno, salutò il libro con simpatia. Naturalmente non avevo voluto “rivalutare” nessuno, e ci mancherebbe. Avevo raccontato un uomo reale – il miglior giornalista del fascismo, secondo Leo Longanesi – nell’Italia reale degli anni Venti e Trenta, dove non esisteva alcun vallo profondo che separasse i fascisti dagli antifascisti, e ammesso che di antifascisti ce ne fossero a parte quelli che erano esuli a Parigi o al confino sulle isole. A rileggerlo oggi, di quel mio libro non muterei neppure una virgola. Dirò di più, mi sembra che in questi trent’anni il libro sia ringiovanito, le sue parole suonino ancora più vere.

Cosa ti intrigava di Interlandi, uno che traduceva Aleksandr Blok nei Venti e vent’anni dopo era il direttore del fatidico giornale antisemita?

Che cosa mi intrigava di Interlandi? Tutto. Che fosse un siciliano e un antisemita, che fosse un mussoliniano al cento per cento e uno che aveva tradotto dal russo le poesie di Blok, che fosse uno che aveva diretto due giornali ed era dunque una delle “voci” del regime e che a cinquant’anni tutto del suo destino si fosse interrotto per sempre, che a salvarlo dalla cella fosse stato un avvocato bresciano socialista e antifascista che aveva avuto pietà per “un vinto”. Che cosa si può volere di più per il protagonista di un proprio libro?

Quando fu pubblico, il tuo libro creò scompiglio. Cito Nicola Tranfaglia da la Repubblica, era il 10 febbraio 1991. “Mughini non tace le infami campagne contro gli ebrei condotte da Interlandi né l’assurdità degli articoli che costellano La difesa della razza ma sembra voler dire al lettore: d’accordo Interlandi fu fascista e antisemita, sostenne la parte peggiore dell’ideologia fascista ma quanti altri giornalisti e intellettuali fecero come lui o addirittura peggio di lui eppure, cambiando casacca al momento giusto, sono riusciti nel dopoguerra a tornare sulla scena, a scrivere sui maggiori giornali, ad essere coccolati e riveriti come autentici democratici? Di qui un’innegabile simpatia (che percorre tutto il volume) per il personaggio a cui si intitola e un’indubbia tendenza a metterne in luce gli aspetti migliori del carattere e a prendere per oro colato quelle testimonianze (soprattutto familiari) che ne nascondono i difetti e ne pongono in evidenza le qualità umane e professionali”. Come hai preso le scudisciate di amici o detrattori, con spavaldo cinismo o con arcana delusione?

No, di quel giudizio di Tranfaglia non è veridico nulla. Non ho mai provato la benché simpatia umana per Interlandi. Semplicemente non ho scritto il libro come avrebbe fatto un retore dell’antifascismo. Ripetendo dalla prima all’ultima riga che Interlandi era politicamente e intellettualmente un mostro da quale tenersi lontano le mille miglia.

Oggi è il tempo giusto per tornare a Interlandi o ti accusano di rinfocolare la nuova, patologica onda degli antisemiti?

Nei confronti degli spregiatori di un libro che reputavo sacrosanto, provavo solo disprezzo intellettuale.

Mi pare interessante lo scambio di lettere, che pubblichi, tra Interlandi e Vitaliano Brancati, nel 1949. Brancati bolla l’impegno giornalistico durante il Ventennio come “sciocchezze di ventenni”, manco fosse una gita in territorio strano. Interlandi gli ricorda chi è stato e chi erano in una lunga replica (non pubblicata). Insomma, c’è chi ha pagato per tutti l’appartenenza al fascismo e chi ne è uscito pimpante… è così?

Il vicedirettore del “Quadrivio” era Luigi Chiarini, uno che era stato lì lì per scrivere un libro su “il cinema e la razza”. Nel dopoguerra Chiarini capovolse le sue posizioni – com’era nel suo diritto – e divenne uno dei maestri viventi della cultura cinematografica italiana. Uno scrittore che era stato fascista e che tuttavia era una persona per bene, Marcello Gallian, nel dopoguerra non aveva i soldi di che mangiare. Si presentava a Fidia Gambetti – che aveva cominciato da poeta fascista, era andato volontario in Urss e poi era divenuto comunista – con qualche sua opera sì da averne qualche migliaia di lire. Una di quelle opere è oggi conservata a casa mia.

D’altra parte, Interlandi svezza Brancati, dialoga con Pirandello e chiacchiera con Bragaglia, è giornalista sagace, tra i sommi, nell’era che ha fondato il grande giornalismo italiano. Insomma, leggendoti è chiaro che il fascismo, culturalmente (tra Marinetti, Malaparte, Ungaretti), sia stato fucina creativa straordinaria. A tuo avviso è ancora difficile riconoscere i meriti culturali di quel momento, di quel fermento?

Durante il fascismo c’è stata una cultura italiana viva e vitale. Scrittori, pittori, giornalisti, architetti razionalisti. La dittatura non aveva soffocato e asfissiato la cultura. Moravia e De Chirico e Gio Ponti vissero e lavorarono. Chi di noi alla domanda se avesse preferito vivere nella Pietroburgo di Stalin o nella Roma di Mussolini, sceglierebbe la prima?

Gli uomini vanno narrati e ascoltati nelle loro contraddizioni, senza pregiudizi o moralismi spuri (il Contra judaeos di Interlandi, terribile fascio di articoli, è elogiato sul Corriere da Guido Piovene), senza assolvere né dannare. Questo è quanto? O c’è altro? Oggi, per altro, chi è che vorresti narrare, disseppellendolo dalle brume della Storia o di qualche altra dannazione? 

Chi vorrei scegliere come protagonista di un mio libro? L’ho fatto nel caso del libro che uscirà fra un paio di settimane. Ho scelto me stesso, per dirne di uno che ne ha viste di cotte e di crude e che non si è negato ad alcuna contraddizione. “Memorie di un rinnegato”, è il titolo del libro.

*In copertina: particolare dal numero del 20 settembre 1938 de “La difesa della razza”, la rivista quindicinale diretta da Telesio Interlandi dall’agosto 1938 al giugno 1943

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