09 Gennaio 2020

Critica al romanzo anti-Salvini. “Il censimento dei radical chic” di Giacomo Papi, ovvero: se la letteratura fosse l’ovvio dei popoli, questo romanzo meriterebbe il Nobel

A quale libro e autore pensiamo quando sentiamo la parola distopia? A 1984 di George Orwell, a Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, a Sottomissione di Michel Houellebecq o alla trilogia Hunger games di Suzanne Collins. Tutte storie che trasportano il lettore in un futuro nel quale le tendenze sociali hanno condotto a scenari estremi, società invivibili, apocalissi di ogni genere. Uno scrittore di romanzi distopici è come un agricoltore che vede un seme di gramigna e, disperato, avverte i suoi vicini del pericolo che l’erba, serpeggiando, infesti tutti i campi.

Il censimento dei radical chic, Feltrinelli, 13 euro (al mio paese è il prezzo di una pizza e birra media), celebrato da diversi critici come un avvertimento per le generazioni future, non possiede una scrittura di catastrofe e non mette il lettore sull’orlo dello spaventoso abisso tra presente e futuro che fa tremare le vene e i polsi. È un romanzo molto sciatto che non provoca paura né risate. È un già detto, un già sentito, già urlato nelle piazze e giudicato in centinaia di articoli, interviste, trasmissioni televisive.

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C’è un buono, Giacomo Prosperi, un intellettuale che, da giovane papà, faceva addormentare la figlia leggendole Le streghe di Roald Dahl e, anni dopo, all’uscita di un liceo, invece di chiederle: “Com’è andata?”, cercava di farle capire il giudizio sintetico a priori di Kant.

C’è un cattivo, un “Primo ministro dell’Interno” che, dopo avere ottenuto “pieni poteri” dagli elettori grazie a uno slogan molto furbo: “Prima gli italiani”, chiude porti e aeroporti e impone dazi in entrata e uscita.

C’è Olivia, la figlia dell’intellettuale, che da anni vive a Londra e, rientrando per il funerale, trova un’Italia che non riconosce.

E dunque c’è del marcio… no: c’è dell’ovvio in Danimarca, avrebbe detto il Bardo. Ovvi i personaggi, ovvia l’ambientazione, ovvia la trama.

Il buono, il papà con le Clarks ai piedi (altro picco di audacia scritturale, sic!) muore prima che il romanzo inizi, e questa è una furbata: un paio di pagine ancora e qualche lettore avrebbe manifestato il desiderio di farlo fuori (io, ad esempio, lo trovo amabile come un chiodo arrugginito ficcato nei talloni).

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Scorrono i capitoli e Papi non osa fare pubblicamente il nome del Primo ministro (perdindirindina, che suspence!) ma lo addita come il mandante morale di tutte le aggressioni e le morti che avvengono nel romanzo. Scrive che gli intellettuali “radical chic” non sono le uniche vittime degli amici del ministro: “All’inizio se la sono presa con i clandestini, poi con i rom, dopo è venuto il momento dei raccomandati e degli omosessuali, e ora si mettono ad attaccare gli intellettuali”. Qui forse il diavolo ci ha messo lo zampino, perché la presenza di quel “raccomandati” mi fa credere che esista un mondo di intellettuali raccomandati… ma cosa dico? Bugia, bugia! Mannaggia al diavoletto che mi ha fatto pensare male!

Scorrono altri capitoli e Papi semina indizi come un Giufà che pensa di averla fatta grossa e si nasconde dietro un germoglio di quercia. Dice che il cattivone ha una squadra di professionisti del web che lavora tutta la notte ai tweet e ai post del giorno dopo. E quando viene attaccato dagli intellettuali, li chiama con disprezzo “professoroni”.

Qui il coro dei lettori erompe in un canto di stupore: “Dove l’abbiamo già sentita questa?”.

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Forse perché preda di un attacco di secca creativa, a un certo punto Papi decide di riempire due pagine di romanzo elencando tutti i sostenitori del Primo ministro: panettieri, pizzicagnoli, netturbini dell’Ama, tranvieri dell’Atac, ciclisti di Foodora, casalinghe del Mic, tassisti della Tam, baristi e banchieri dell’Abi, farmacisti della Fofi, disoccupati organizzati e disoccupati disorganizzati, impiegati dei ministeri in pausa caffè, baristi in pausa ministero, senza casa e senzatetto, cani sciolti, meteorine, letteronze, colf filippine, camerieri polacchi, lavoratori dei call center e negozianti cinesi, funzionari del Cnel, consiglieri del Censis, notai, bottai, bottonieri, la squadra di calcio della Lazio. E poi, gli intellettuali poveri: filosofi frustrati, filologi depressi, filogenetici rabbiosi, laureati in scienze delle comunicazioni che non comunicavano niente perché non avevano mai trovato lavoro o ne avevano trovato uno che non ritenevano all’altezza, telefonisti afoni, insegnanti in attesa di abilitazione, assenteisti in attesa di abilitazione, precari quarantenni, stagisti cinquantenni e cottimisti sessantenni, tutte persone che non avendo ottenuto quello per cui avevano studiato, si erano illividite e incazzate.

Mi domando: nelle intenzioni dello scrittore, questa lista dovrebbe far sorridere? Dire che i funzionari del Cnel, sopravvissuti a Renzi, votano a destra, è una battuta? Le letteronze sono ancora innamorate del Berlusca? I notai votano Lega? Trasecolo. E i banchieri? Ma dài! Anni di ironie su Maria Etruria Boschi e poi si scopre che i banchieri hanno cambiato casacca? Anche i filosofi e i filologi strizzano l’occhio a Salvini (Tiè, l’ho detto! Sono certo che nessuno di voi c’era arrivato), ma solo se frustrati e depressi, perché sulle teste di quelli appagati e allegri continua a splendere il rosso sol dell’avvenire. E la Lazio? Sappiamo che ha gli ultras più a destra di tutti, ma perché non accanirsi sulla squadra preferita dal Primo ministro? Forse Papi vive a Milano e non vuole inimicarsi il suo barbiere milanista, o ha paura che il macellaio con la fissa per Ibrahimović possa vendergli tagli di seconda o terza scelta. Comunque sia, la lunga elencazione è solo un modo per esprimere pensieri che i radical chic rimuginano da anni: gli elettori di destra sono tristi, frustrati, depressi, rabbiosi, cattivi, fascisti, analfabeti, votano di pancia e bla e bla e bla.

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Di ovvietà in ovvietà, il romanzo ci regala un’altra chicca: la notizia che una commissione ministeriale per la semplificazione della lingua italiana ha redatto un elenco di parole da vietare perché troppo complicate (due pagine di elenco, e qui vi svelo un segreto del mestiere: è così che noi scrittori allunghiamo il brodo).

Questa ennesima lista mi ha fatto pensare alle #paroleorrende che l’editor Vincenzo Ostuni raccoglie da anni. Poiché Ostuni è uno che nel suo profilo Facebook si definisce “comunista”, ho il sospetto che lui e Papi si conoscano e si prestino idee e golfini di cachemire.

Il resto della trama non lo svelo, ma se chiedessi cos’altro vi aspettate dopo cotanta ovvietà, sono certo che mi rispondereste: “Una storia d’amore combattuta”.

Bingo! C’è anche quella.

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In un’intervista al Sole 24ore, la giornalista Alessandra Tedesco ha chiesto al Papi: “Ti sei ispirato alla realtà?”. E lo sventurato ha risposto: “Assolutamente sì”.

Ma dài, non è possibile! Chi lo avrebbe mai pensato?

Potremmo infine ringraziare Papi di averci risparmiato le sardine? Sì, ma senza merito. Quando il romanzo è stato scritto, Mattia Durban’s Santori era un oscuro impiegato part-time in una società di ricerca nel settore dei mercati energetici. Non scendeva in piazza e nel tempo libero si dedicava al frisbee.

Poiché sono sicuro che i fan di Paci, irritati dalla stroncatura, mi inviteranno a praticare l’ippica, chiudo il pezzo con una metafora equestre. A questo romanzo manca il coraggio di saltare lo steccato del reale. È come quei cavalli che prendono una lunga rincorsa e poi si piantano di fronte all’ostacolo, mandando a gambe all’aria il fantino.

Rialzati, scrittore! Anche per te arriverà un tempo in cui, come diceva Byron, il destino cambia cavalli.

Francesco Consiglio

Gruppo MAGOG