Bisogna bardarsi come i bardi quando l’estate dà in escandescenze. Dare all’effimero valore di fiore, il germoglio del fuoco. L’epoca dei supereroi al cinema incenerisce di fronte all’epopea, il racconto tramandato, nell’anonimato dei cantori – rivestiti di piume e becchi, di manti e crinali crestati, stagione di maschere e lacche, travestitismo vegetale, dacché chi canta diventa, trasmigrando di forma in forma, uccello artico e tigre, principe e bandito, albero e pena in piena. Il nome reso all’acido del clan, l’io che diviene di tutti, grata autorevolezza della storia che annette il cantore, lo annienta.
Leggo della storia di Gesar di Ling nel Trésor de la poésie universelle ideato da Roger Callois e Jean-Clarence Lambert nel 1958, per Gallimard. La storia sta tra i grandi emblemi della poesia epica d’Oriente, insieme allo Shāh-Nāmeh (il libro dei Re) di Firdusi, Il nuvolo messaggero di Kàlidasa e l’Heike monogatari, l’epica giapponese del XIV secolo. Il genio del “Gesar”, chiamiamolo così, sta nell’antichità – il primo nocciolo della storia si sviluppa dall’XI secolo –, nella malleabilità, nel repertorio geologico di genti che vi si intrecciano.
La storia, di fondo, nella cornice epica, è perfino banale: vi si racconta di un principe, Gesar, appunto, sovrano del leggendario regno di Ling, che sgomina nemici terrestri e celesti. Gesar è eroe generoso e terribile; compassionevole e vendicativo; l’individuo assoluto che tesse un ordine nel magma del caos. Dove arriva Gesar giunge la luce: la spada ha analogia con la strada e con l’alfabeto, con la misura delle cose e con la costruzione del palazzo e del tempio. Spada, aratro, segno. Gesar è scaltro ma non è un bandito; è tenace ma pronto al riso. Naturalmente, la sua nascita è miracolosa; naturalmente, nessuno – neppure gli stretti familiari – riconoscono in lui lo stigma dell’eletto; naturalmente il suo coraggio è saggiato da molte prove. Gesar può essere avvicinato a Ercole e a Beowulf: è l’eroe indefettibile, che alterna il trucco al duello, che sfida il mostro, pur dai più sfiduciato.
Operando su uno schema tanto grezzo – eppure, prensile al verbo –, i cantori hanno dilatato l’epopea di Gesar in rivoli narrativi infiniti. Così, di volta in volta, Gesar abbatte una tigre, mozza le dodici teste di un mostro, sconfigge orde di demoni, sconfina nell’aldilà, sposa la più bella delle principesse di Cina; scende agli inferi per liberare la madre dal torchio del sovrano ctonio, si mostra sapiente come un lama, di radiosa levità, e pericoloso come un dio guerriero; soprattutto: dilata all’inverosimile i confini del proprio regno, diamante asiatico. La morte lo coglie vecchio, gonfio di gloria, pronto ad ascendere al paradiso, suo vero trono.
Attraverso la straordinaria esploratrice francese Alexandra David-Néel, conosciamo la versione tibetana dell’epopea di Gesar (La vie Surhumaine de Guésar de Ling le Héros Thibétain, 1931; tradotto da Edizioni Mediterranee come Vita sovrumana di Gesar di Ling; una versione dell’Epica di re Gesar è edita da Anteo Edizioni, 2022), ma ne esistono diverse, di variopinta potenza. Gesar abita le storie dei mongoli e dei buriati – da cui abbiamo attinto per una nuova traduzione del Gesar – dei ladakhi e dei calmucchi, degli iuguri e dei tungusi. L’Asia centrale è dominata dall’epopea di Gesar, che ha analogie, nella distribuzione geografica, con la leggenda di Alessandro Magno, che dalla Grecia e dalla Persia, da Roma e da Babilonia, inonda la novellistica dell’Africa alessandrina e dell’Europa medioevale, fino ai racconti di Borges. ‘Borgesiana’, in effetti, per così dire, è l’origine di Gesar, che secondo alcuni, prima di evolvere nel cesareo imperatore dell’epos tibetano, proviene dal titolo romano, Cesare, distribuito nell’impero bizantino. Alla stessa latitudine epica, dunque, Roma e Bisanzio si legano a Lhasa e a Ulan Bator; nel corpo mitico di Gesar risplende Basilio II il Bulgaroctono, l’esuberanza sanguinaria di Attila, la profezia di Gengis Khan.
Proprio Alexandra David-Néel – nel brano che abbiamo tradotto – riconosce in Gesar i tratti dell’eroe della riscossa, che vendica le genti sottomesse dai soprusi, a volte usato in ragione anti-cinese. Nei racconti attorno al fuoco accade dunque l’evocazione dell’eroe in figura di khan-messia, redentore delle genti asiatiche. Latore di artifici e di malefici, l’atto poetico: i meandri dell’epos celano il cristallo della parola teurgica, che spalanca i cieli. Il fuoco, terzo occhio, separa l’acquatico blu delle altezze, incatena le nubi: gli spettatori attendono il re che scenda tra i mortali sul cavallo carnivoro, nella splendida armatura che riassume, nell’oro squassante, l’ideogramma delle costellazioni.
Come sempre, vorremmo – addomesticati dal canto – un mondo più giusto, il re taumaturgo, la parola fatale, capace di pace.
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Alexandra David-Néel, Il sovrumano Gesar
Conversazione nel deserto tibetano. “Un uomo!”. “Afferrate i fucili!”. “Riparate le bestie!”.
Tre esclamazioni, una dietro l’altra, mi obbligano fuori dalla tenda. Sono nel selvaggio e ammaliante paese dei grandi laghi, nel deserto del Ch’iang-t’ang. Non seguiamo le piste di altri viaggiatori, molto rari in questi luoghi.
L’aspetto dell’uomo è singolare. Per giorni non abbiamo visto che asini selvatici e orsi. A queste solitudini, la vista di un uomo insospettisce l’uomo. Il gesto istintivo di un viaggiatore, vedendo un suo simile, è quello di afferrare il fucile; se è accampato, raduna gli animali dal pascolo per difenderli dal “ladro”.
Immobile in cima a un tumolo, il cavaliere ci osserva. Lo guardo con il mio binocolo. Cavalca un superbo cavallo, bianco come la neve, dai finimenti d’argento, che luccicano. Il suo vestito è giallo, come il cappello, foderato di pelliccia. Non porta armi visibili. “Mollate le pistole”, ho detto. “Nulla da temere: è un lama mongolo. (Oppure un brigante che ha saccheggiato un lama e ne ha indossato le vesti per avvicinarsi ai mercanti senza suscitare diffidenza…)”.
Con l’aria distaccata di un dignitario, il cavaliere si è avvicinato a noi. È venuto verso di me, dopo averci avvisato che “i miei monaci mi seguono a stretta distanza con i bagagli”. Mi ha detto, “Tu sei Jétsune Kouchog, la reverenda signora, che ha passato anni nel monastero di Kumbum”. Il tè stava bollendo, invitai il lama a bere una tazza nella mia tenda. Ne seguì una conversazione amichevole.
“Non c’è più alcuna religione, da nessuna parte”, mi ha detto, dopo un po’. “Il clero non è la religione. I bramini dell’India, i pope ortodossi, i padri pellegrini, i lama: sono la stessa cosa. È l’esercito di Mara, il demone che inganna i semplici e li deruba della loro anima. Chi è schiacciato dai potenti, non ha più una religione nel cuore: diventa codardo, cattivo. Chi si eleva a potente, agisce con la stessa violenza di colui che ha maledetto. Eppure, noi, popolo del Tibet, della Mongolia e della Cina, siamo in grado di sterzare dalla via sbagliata perché conosciamo il potere della meditazione. Sappiamo contemplare e uscire con la nostra coscienza fuori da questo mondo, per vederlo dall’alto. I bianchi non lo sanno più fare: hanno inventato strane macchine, si ammirano a vicenda a motivo di questo potere; un potere, invero, che li annienterà. Le macchine li aiuteranno a sterminarsi a vicenda”.
“A meno che non nasca un nuovo Gesar…”. “Ah, lei conosce la storia di Gesar?”. “Dicono che tornerà a guidare un grande esercito, a Ovest, che terrà una sciabola in ciascuna mano per falciare i nemici”. Gli citai i poemi cantati di labbra in labbra dai bardi tibetani. “La sciabola può essere un simbolo”, mi disse: “la lama rilascia scintille invisibili che penetrano nelle menti, trasformandole”.
Quando l’alba cominciò a erodere di rosa la notte, il mio amico si preparò a partire. Ci augurammo buon viaggio. La mia mente andò a Gengis Khan. Sarebbe davvero sorto un Gesar, meno rozzo dei suoi seguaci, non meno terribile? Seguii la traiettoria del sole, dove la piccola carovana spariva. “Purificare attraverso la distruzione…”. Pensai ai figli dei bianchi che dormivano, a quell’ora, nelle loro culle, ai piccoli occidentali che durante il giorno si sarebbero divertiti nei giardini delle grandi capitali, senza sospettare nulla del futuro, delle profonde solitudini dell’Oriente, per lo più ignoto, dove le genti si stavano sollevando.
Alexandra David-Néel
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Le gesta di Gesar (versione dei buriati)
Al principio dei principi nella più antica era al primato del primo sulla primizia del tempo quando nel più alto cielo turbinava la nebbia e la terra, di sotto, era velata di polvere erba ancora non v’era né i fiumi scorrevano e di laghi mancava traccia quando il Mare Latteo era una pozzanghera e la montagna del mondo un colle quando l’albero del sandalo non aveva messo i rami e il cervo ceruleo era appena nato quando l’enorme serpe gialla non era che un verme e i pesci giganti dei pesciolini quando la terra non era divisa in continenti e il centro dell’universo non era ancora compiuto quando l’uccello infinito era piccolo come un corvo e il primate dei cavalli era un puledro quando il khan riteneva superflue le strade e i rigagnoli della dinastia non esistevano quella era la bella era l’età dorata – epoca mirabile da cui proviene questa epica.
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A quel tempo, il corvo nero, a servizio del demone, uccideva i bimbi di un anno, accecandoli. Quando seppe che Gesar stava per nascere, il corvo si apprestò a bucargli gli occhi. Del corvo, Geser sapeva le strategie, conosceva le precedenti vite. Così, chiuse un occhio e aprì l’altro, armando una trappola di ferro a nove punte. Il corvo nero, fattore del demone, s’incuneò nella trappola ordita da Geser, e morì.
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Rogmo disse: “Quando sono nato, il drago Burg intonava la sua malinconica melodia. Luce ogni giorno, c’era – ogni giorno, pioggia. Un uccello svolazzava al mio balcone; un colibrì fendeva le paludi. La montagna bianca di neve non è un continente straniero – la figura del leone bianco significa: tesoro interiore. Un universo ha il colore del rame, sempre occorre partire all’alba. Che Gesar abbia fortuna nel cacciare il mostro: un universo si tiene tra un paio di corna”.
Gesar disse: “Portare frutti dal vuoto”. Allora Gesar, proprietario di terre, restò seduto, meditando, per tre anni.
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Gesar Khan si alzò e scoccò la sua freccia. Il mostro, svegliatosi, si dibatteva: sacchi di mele gli impedivano il morso. Disse Gesar: “Ingoiami se riesci alla luce della candela, inghiottimi come una candela”. Disse il mostro: “Chi sei, creatore di tigri?”. Gesar ora afferrò le due spade, il mostro svaniva, avvelenato dalle mele. “Il sibillino Gesar, sobillatore di cuori, mi ha ingannato”, urlava.
Gesar abbatté il mostro, tagliandogli le dodici teste. Dopo aver tagliato undici teste, il mostro disse: “Mi hai ucciso come si uccide una vacca, pieno di paura hai mozzato le mie undici teste. Nulla abbiamo in comune. Ma, ti prego, lasciami una testa. Mi trasformerò in una principessa, saprò elargirti beni. L’estate non è bella quanto te: avvicinati”.
La spada di Gesar diventò nera, inutile. A mani nude, l’uomo spiccò la testa del mostro. Sparse le dodici teste: si formarono dodici crateri.
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Gesar pianse sugli amici morti. Gridava contro il cielo azzurro, ruggendo come un drago. Scosse la terra finché la terra non restituì i trecento cavalieri, i trenta fantasmi, i loro leoni, gli elefanti, le tigri.
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Fischiando come una freccia con il rumore di un sasso che cade cadde dagli alti sereni cieli sulla vasta terra. Sulla soglia di Oriente su una terra putrida in un paese misero appassito e inspessito dal dolore dove i tre fiumi formano una palude luoghi di pendii letali terra rovente di spiriti maligni tetra terra che ha inghiottito il sole venne, come il più anziano dei khan il più sagace, Gesar Khan bianco figlio dei maggiori. “Ho sconfitto il mio nemico sono invincibile: ho distrutto il mio avversario”: balla tutto il giorno al ritmo della vittoria e il suo popolo grida, si rallegra.