02 Luglio 2021

Gertrude Stein, la cubista

Due nuove edizioni italiane quasi contemporanee dell’Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude Stein sono una bellissima notizia. Eccole qui: l’edizione Lindau, tradotta da Massimo Scorsone, con prefazione di Marzia Capannolo (Torino, pp. 360, euro 26) è del settembre 2020; quella di Marsilio, traduzione e cura di Alessandra Sarchi (Venezia, pp. 312, euro 18) è dei primi mesi di quest’anno. La domanda è: c’era proprio bisogno di nuove traduzioni, dopo quella di Cesare Pavese (Einaudi 1938), con la quale siamo cresciuti, ed è tuttora nel catalogo non solo di Einaudi?

«Bisogno» è parola inappropriata. In letteratura niente è necessario, è il regno della gratuità, ognuno scrive e traduce chi, come e quando gli pare, senza timori reverenziali. Do per scontato che le due nuove traduzioni siano fedeli, senza dimenticare che alle traduzioni si può adattare quello che Karl Kraus diceva delle donne: «Mai fidarsi di una donna fedele: oggi fedele a te, domani fedele a un altro». Il proverbio dice che i confronti sono sempre odiosi e Oscar Wilde (o chi per lui) aggiungeva: «Per questo bisogna farli». Dunque confrontiamo due assaggi delle tre traduzioni. Cominciamo dalla prima riga. Pavese: «C’erano pure a Firenze Haweis e la moglie, che fu più tardi Mina Loy». Scorsone: «Si trovavano a Firenze anche Haweis e sua moglie, poi Mina Loy». Sarchi: «Anche Haweis e sua moglie, che in seguito divenne Mina Loy, si trovavano a Firenze». Che cosa vuol dire? Evidentemente, Stein riteneva che tutti sapessero che Stephen Haweis, pittore e foto[1]grafo, e la poetessa Mina Loy si erano sposati nel 1903, divorziando nel 1917. E così, quando Gertrude parlava di loro nel capitolo dedicato agli anni 1907-1914 Haweis e Mina Loy erano marito e moglie. Perché dire che la moglie «fu più tardi Mina Loy», o che «sua moglie, poi Mina Loy», o ancora «sua moglie, che in seguito divenne Mina Loy»? Mina Loy è sempre stata Mina Loy, nubile, sposata e divorziata.

Nel capitolo dedicato al dopoguerra, Stein porge un indizio. Scrive: «Fummo liete di rivedere Mina, che avevamo conosciuto a Firenze come Mina Haweis». Dunque, a Firenze Mina Loy era conosciuta come moglie di Haweis; dopo il divorzio riprese il suo cognome Loy. Questo il semplice lettore può non saperlo, ma un traduttore avrebbe dovuto informarsi. Per non impantanarsi, bastava dire «C’erano pure a Firenze Hawei e la moglie Mina Loy (Pavese); «Anche Haweis e sua moglie Mina Loy» (Scorsone e Sarchi). Che dopo il divorzio Mina Loy sarebbe stata conosciuta con il suo nome da nubile, lasciamolo a Stein e agli studiosi di araldica.

Più sotto: nella casa disastrata di Firenze, gli Haweis ce la misero tutta per «offrirci una deliziosa colazione» (Pavese): «un pranzetto squisito» (Scorsone); «uno splendido pranzo» (Sarchi). Stante la signorile sobrietà di Stein e dei suoi ospiti, lo «splendido pranzo» di Sarchi appare esagerato; meglio la «deliziosa colazione» del settentrionale Pavese, o il «pranzetto squisito di Scorsone. A proposito di sobrietà e per dare un’ulteriore idea dello stile di Gertrude/Alice, riporto questo aneddoto su Matisse – verso il quale Stein fu sempre fredda, mentre il suo entusiasmo per Picasso non venne mai meno – in cui l’autrice si nasconde nell’opinione della cameriera: «Hélène aveva le sue opinioni, ad esempio non le piaceva Matisse. Lei diceva un francese non dovrebbe fermarsi inaspettatamente a mangiare in casa d’altri in particolare se prima s’informava con la servitù su che cosa c’era per cena. Diceva gli stranieri avevano l’assoluto diritto di fare cose così, ma non un francese e Matisse una volta l’aveva fatto. Perciò, quando Miss Stein le disse, Monsier Matisse si fermerà da noi stasera, lei avrebbe detto, in questo caso non farò un’omelette ma delle uova in padella. C’è bisogno dello stesso numero di uova e della stessa quantità di burro ma rivela meno rispetto, e lui dovrà ben capire». Ho riportato il confronto delle tre traduzioni del brano sulle virgole per ricordare l’uso particolare (cioè il non uso) della punteggiatura in Gertrude Stein. Nell’Autobiografia ne fa solo un cenno, che verrà sviluppato in una conferenza durante il trionfale viaggio negli Stati Uniti dall’ottobre 1934 al maggio 1935, dove non parla solo della virgola come «un punto mancato», ma anche di tutto il resto. La si può leggere in italiano nelle Conferenze americane a cura di Caterina Ricciardi e Grazia Trabattoni (Lucarini, 1990).

Il secondo brano nella sinossi traduttoria alla pagina precedente riguarda Basket, il barboncino entrato cucciolo in casa Stein e poi diventato un barboncione. Resta da capire come facesse Gertrude a distinguere i paragrafi dalle frasi «ascoltando il ritmo di quando [Basket] beve» (Pavese), oppure «ascoltando gli intervalli che lui fa quando beve l’acqua dalla sua ciotola» (Scorsone), o anche ascoltando «il ritmo con il quale lui lecca l’acqua» (Sarchi). Misteri del cubismo in pagina. Per tornare alle nuove traduzioni, quella di Scorsone (Lindau) ha l’incommensurabile pregio di avere un indice analitico, utilissimo anche per chi, come me, segna con un tratto verticale a matita i brani che lo interessano del libro che sta leggendo ma poi, per ritrovarli, deve risfogliare tutte le pagine. Nella Prefazione, Marzia Capannolo invita il lettore «a tuffarsi, senza salvagente, fra le onde vorticose di questo bizzarro memoriale e lasciarsi trasportare dai flutti letterari della Stein», consiglio che anch’io condivido. La Prefazione non troppo velatamente antipatizzante di Alessandra Sarchi (invidia femminile?) rimarca lo «snobismo autoreferenziale» di Gertrude, ma le riconosce il merito «di rendere accostabili e domestici artisti che invece svettano nel loro titanico isolamento di padri della rivoluzione culturale del primo Novecento».

Quale traduzione preferire? Ricordo che l’Autobiografia fu pubblicata nel 1933 e che Pavese la tradusse già nel 1938. Dunque la prosa pavesiana risente di qualche rigidità di quell’epoca, ma è pur sempre aderente alla contemporaneità dell’originale. Ribadendo il diritto dei traduttori a godersi la loro libertà, preferisco Pavese, senza gli inevitabili «aggiornamenti» emulativi del nostro tempo. A buon conto, per misericordia verso il lettore italiano, sia Pavese, sia Scorsone, sia Sarchi hanno usato le virgole, grazie.

Ma chi era Gertrude Stein? Non «la madre di tutte le avanguardie», come talora si sente dire. Lei è legata all’irripetibile stagione cubista, e non ha creato una sua scuola. Ha generosamente aiutato e incoraggiato molti artisti, a cominciare da Hemingway che le fu irriconoscente. Nell’Autobiografia ci sono giudizi ingiusti come quello su Ezra Pound, liquidato come «un cicerone da paesucolo, ottimo nel caso di un paese, ma altrimenti no» (Scorsone); «un volgarizzatore per paesani, eccellente se eri un campagnolo» (Sarchi); «un volgarizzatore da villaggio, ottimo per chi è un villaggio, ma se non siete un villaggio, no» (Pavese). Eppure, al netto del tono spregiativo, anche in quel giudizio c’è del vero, perché la sterminata curiosità culturale di Pound si estende per sterminate geografie orizzontali, e quindi Ezra non poteva approfondire ogni singolo punto. Resta il fatto che l’appartamento al n. 27 di rue de Fleurus fino all’inizio della Grande guerra, durante la quale Gertrude e Alice si prodigarono coraggiosamente come crocerossine, fu il crogiolo artistico più vivace e ambìto dell’epoca. I famosi salotti del sabato sera nei quali Gertrude, spalleggiata da Alice (oltretutto ottima cuoca. Nel 1954 pubblicherà un libro di ricette, I biscotti di Baudelaire, uno dei quali è alla marijuana) concentrava le visite sono entrati nella mitologia culturale. Woody Allen ha saputo ricreare quell’atmosfera nel suo magnifico film Midnight in Paris (2011).

Gli ospiti di quei salotti rivivono nell’Autobiografia, ciascuno con il proprio ritratto. Parecchi, come Henry Matisse, Georges Braque, André Salmon, Tristan Tzara non si riconobbero nello specchio di Gertude, e nel 1935 scrissero sulla rivista Transition una Testimonianza contro Gertrude Stein. Ma Gertrude ha sempre sostenuto che la storia si fa con quello che si ricorda, e quelli erano i suoi ricordi. L’ingrato Hemingway, inviandole nel 1932 il suo Morte nel pomeriggio arrivò a parodiare volgarmente, come dedica, il motto circolare che Stein usava nella sua carta da lettere, A rose is a rose a rose is a rose a rose is a rose (quattro volte: una rosa è una rosa, una rosa è una rosa, una rosa è una rosa, una rosa è una rosa). Molto ci sarebbe da dire sul ruolo di Leo, il fratello maggiore di Gertrude critico d’arte e collezionista, negli anni in cui abitarono insieme in rue de Fleurus. Si divisero nel 1914 e si divisero anche i quadri. Gertrude si tenne i cubisti; Leo, con altri capolavori fra cui La Donna con ventaglio di Cézanne, se ne andò a Firenze diventando collaboratore di Bernard Berenson.

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Gertrude Stein morì a 72 anni nel 1947. Alice Toklas, di tre anni più giovane, morirà a 89 anni nel 1967. Nel 1947 si era convertita alla Chiesa cattolica. Entrambe sono sepolte nel cimitero parigino del Père Lachaise. Il nome di Alice è inciso sul retro della lapide di Gertrude.

Cesare Cavalleri

*Per gentile concessione si pubblica in anteprima l’articolo di Cesare Cavalleri, “Inarrivabile Gertrude”, pubblicato sul numero di luglio-agosto di “Studi Cattolici”

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